nucleo comunista internazionalista
materiali teorici



CARITAS
IN
VERITATE


Kannibalismus

Diamo atto a Benedetto XVI di essere una “bella testa”, capace di ragionamenti teologicamente serrati il confronto coi quali non ammette facilonerie da parte di chi alla teologia si rifà (per chi ne sta fuori è tutt’altra cosa). Che il personaggio, poi, non sia tale da suscitare eccessive simpatie “popolari” è di scarso peso. Noi stessi, semplici “seminaristi” del marxismo, sappiamo di esercitare scarso appeal non solo nel “pubblico” generico, ma nello stesso “nostro” ambiente. E qui ci soccorre il Vangelo: neppure Cristo fu riconosciuto dai “suoi” e tra essi non poté fare miracoli perché “essi non credevano”. Il che non ci distoglie dal proclamare il nostro marxismus in veritate, così come Benedetto XVI va, imperterrito, per la sua strada, come indica il titolo della sua più recente enciclica: non vi starò a parlare banalmente di “carità”, ma di essa come derivato e dipendente da una superiore Verità. (Tradotto in termini nostri, terreni: non ci limiteremo a parlare delle ingiustizie di questo mondo, piangendovi sopra o proponendo ad esse soluzioni entro questo stesso mondo, ma a promuovere il nostro programma antagonista ad esso).

Ciò che ad una prima letture dell’enciclica papale in oggetto immediatamente colpisce è proprio questo spessore conforme ad una visione trascendente la contingenza per riallacciarla ad una superiore verità (ovviamente poi, a nostro giudizio, del tutto dipendente dalla materialità storica “discendente” da cui essa concretamente deriva in tutti i sensi, talché la Verità superiore ed indipendente dalle contingenze finisce per essere dalla realtà economico–sociale e politica totalmente dipendente a questo livello). In poche parole anticipatrici del discorso che andremo a svolgere: il capitalismo reale detta al papato le regole su cui “criticamente” conformarsi presumendo di applicare ad esso le “correttive” regole trascendenti divine. Ma l’alfa ed omega di riferimento materiale sta tutto qui e più ci si “eleva” verso la Pura Spritualità ultra ed extraterrena più questa “bassa” materialità si fa sentire.

L’esordio dell’enciclica è di una complicatezza teologica difficile a leggersi e decifrare. Crediamo che Obama, che l’ha ricevuta in regalo dal pontefice e si era ripromesso di esaminarla durante il volo per l’Africa, se ne sia subito sbarazzato tra un drink e l’altro in ragione della sua “cripticità”. Lo stesso vale, ci sembra, per il “pubblico” in generale, a cominciare proprio da quello cattolico. Ci piacerebbe sapere che quota percentuale del basso clero, quello che sta sul territorio, sia stato capace di affrontarne la lettura ed, eventualmente, di tradurla a pro’ dei fedeli (sempre ammesso che, avendoci capito qualcosa, vi sia anche accordo con essa). Se facciamo un confronto con le precedenti encicliche sociali della Chiesa, cominciando quanto meno con la Rerum Novarum, notiamo che quelle potevano anche essere tranquillamente percepite e diffuse con semplicità tra il pubblico “di massa” cui esse erano destinate, mentre questa sembra subito riservata ad una élite di teologi selezionati da mettere in fila. Niente si scandaloso di per sé: siamo alla “scuola di partito”! Attenti, però: se ci si voleva rivolgere pressoché in esclusiva ai propri funzionari di partito, meglio sarebbe stato affrontare i temi della tattica e strategia attraverso le quali raccordare al fine religioso (super ed extra–terreno) le “contingenze” materiali. Il perché di ciò è però chiaro.

Le precedenti encicliche “sociali” suonavano, evidentemente, agli occhi di Benedetto XVI troppo profane, relativistiche, troppo “caritatevoli” senza “verità”. Peggio ancora se affrontiamo la lettura di certi testi della Teologia della Liberazione, vera bestia nera dell’attuale papa, tutte incardinate sull’”uomo concreto”, l’”uomo storico” (sino ad un certo punto marxisticamente), a danno della presunta trascendenza. Sì, dirà Benedetto, il popolo degli oppressi vi capisce benissimo a questa stregua, ma come uomo svincolato dalla Fede, come uomo concreto (bestemmia per l’ortodosso cattolico!) che sta “solo” su questa terra e con essa, da uomo concreto profano, intende misurarsi. Liberazione dalle ingiustizie di questo mondo come sinonimo di dipendenza da esso, a danno della trascendente verità cui nulla importa delle contingenti situazioni sociali, non attinenti all’”anima”. Se noi cattolici parliamo di “problemi sociali” lo facciamo non per risolvere questi in sé e per sé, ma per conquistare alla Verità delle anime da cui poi, di seguito, procederà la carità cristiana verso i “beati poveri” così che questi ultimi si sentano meno astretti dai “superflui” bisogni materiali “secolari” e non s’inducano, magari, alla rivolta sociale a scapito dell’anima.

(Come abbiamo in precedenza sottolineato, questo discorso è, dal punto di vista dell’ortodossia religiosa, perfettamente coerente, mentre non lo è affatto per la teologia della liberazione che naviga a metà tra le esigenze materialistiche–storiche che essa si assume in prima persona, anche in maniera molto battagliera, e l’ideologia cristiana che si sovrappone ad esse senza con esse riuscire a combinarsi, né dottrinariamente né nella pratica. E sia sempre data la nostra simpatia a chi comunque solleva tali questioni mettendosi oggettivamente in contraddizione con la falsa coscienza teologica).

Proviamo a tradurre in parole povere il polverone teologico dell’esordio dell’enciclica (ci scusiamo anzitempo se, nonostante le nostre attente letture religiose, incorreremo in errori di vulgata). L’”uomo” (assunto come generalità sovra od extra–storica, “l’uomo in sé”) è un ente investito della grazia divina che l’ha creato “a sua immagine e somiglianza”. Ma, di per sé, è “incline al male” (pessimo regalo aggiunto dal creatore), cui può sottrarsi solo riconoscendo una verità (che gli viene elargita dall’alto) trascendendo la sua misera condizione di peccatore designata da Dio stesso. Ogni sua velleità di procedere da sé stesso, “autocentrandosi”, lo porta all’errore. Noi, poveretti, non riusciamo a capire come senza procedere da sé, dalla propria volgare “umanità” (non fissa diacronicamente e sincronicamente, ma materialisticamente determinata) l’”uomo” in questione potrebbe accedere al “trascendente”, che o sta potenzialmente dentro la sua stessa natura o senso non ha. O la capacità di “trascendere” certi livelli di partenza (semi–animali al via!), emancipandosene come individuo e collettività storici, materiali, o non resta che affidarci alla “gratuità della grazia di Dio” che cade dal Cielo (ma, si noti!, anch’essa per passaggi “provvidenziali” scaglionati nello spazio e nel tempo; altro mistero teologico in cui non crediamo quia absurdum!).

L’astrazione–uomo è dunque il responsabile del malessere sociale per mancanza di “veritas”. Ove vi pervenisse ne sarebbe conseguenza la cura, a livello individuale in primis e di massa, eventualmente, per cumulo quantitativo. Spariscono da questo quadro i sistemi sociali storici e le storiche classi antagoniste di esse. Ovvero: spariscono sino ad un certo punto, perché l’attuale sistema è assunto a regola naturale, universale ed onnipresente, dell’esistenza. Nel documento di Benedetto XVI il mercato (capitalista) è assunto ad alfa ed omega della società in generale, sotto tutti i cieli ed in ogni tempo. Strano punto di partenza! Non solo la storia concreta, ma la stessa esperienza storica della Chiesa è passata, prima di pervenire al capitalismo, attraverso molteplici forme economico–sociali, dal comunismo primitivo (cristianesimo ancora assente et pour cause!) all’”imperialismo” schiavista romano, alla forma asiatica, a quella medievale. Il papa dovrebbe spiegarci questo arcano: come mai lo “stato naturale” (sancito dal suggello divino) capitalistico appare storicamente e cioè in tempi ed aree diverse solo ad un certo punto della storia, ad un segmento storicamente corto della storia reale, concreta? Voi della Chiesa avete attraversato con profitto stadi lontani da esso così come oggi in esso, con maggior profitto, vi trovate. Ma non significa questo che “potrebbe” trattarsi di un passaggio transitorio della storia umana, come sosteniamo noi marxisti che ci industriamo a mettergli al più presto fine? Il papa lo nega, ovviamente, ben temendo che il successivo stadio sia quello socialista, entro cui la Chiesa si troverebbe a malpartito (e non per stupidi divieti imposti alla “religiosità”, ma per il superamento materiale dei presupposti servili di una certa classe ad un’altra padrona su cui essa si fonda). Una via furbesca consiste nel “provare” che un tale sovvertimento è impossibile “visto e considerato” il “fallimento del socialismo”. Ma state bene attenti: non fallimento del socialismo vi è stato, ma riassorbimento dell’ondata rivoluzionaria, via stalinismo, proprio entro lo schifoso sistema presente: il che può consolarvi, ma è ben lungi dal poter indefinitamente esorcizzare il ritorno del nostro assalto al cielo.

Dunque: il capitalismo di per sé rappresenta il “naturale” habitat dell’uomo (sempre astratto; d’ora in poi rinunciamo a risottolinearlo), ma non è detto che esso si traduca in prove ottimali, perché è ovvio che la sua “buona gestione” dipenda dall’uomo stesso. La stessa cosa dice, tanto per allargarci “ecumenisticamente” ad altre teologie, per l’islamismo che, in maniera analoga (visto l’analogo retroterra storico), assume il “libero mercato” a punto di partenza “naturale”, purché depurato da cattive conduzioni umane. Il “profitto” è giusto in sé, valore umano anzi divino, ma deve essere “giustamente amministrato”. Gli islamici se la prendono con l’usura, come già fece il cattolicesimo in tempi lontani (e l’obiettivo polemico armato era l’ebraismo), assolutizzando la lotta (rivoluzionaria) contro di essa condotta in una determinata fase storica per prospettarla come regola per il presente. E noi chiediamo ad entrambi: ma non è proprio il capitalismo reale presente il maggiore ed anzi unico rappresentante moderno dell’usura compiuta a spese del moderno proletariato? Ed esso non è qualcosa di ben più pesante del vecchio “banco dei pegni”? Il giornalismo corrente à pieno di denunce dell’attività usuraia... meno quella legale, normale del sistema capitalista che non “presta ad interessi esosi”, ma compra e sfrutta la merce–lavoro schiavizzando braccia e menti dei lavoratori salariati. E, sia per il cattolico che per l’islamico teologicamente ortodossi la divisione della società in classi è, in qualche modo, regola non soltanto umana, ma divina, ed all’uomo spetta soltanto la sua buona amministrazione. Allah e Dio ebraico–cristiano sono, su questo punto, una stessa cosa. Corano, Sura XLIII; parla Allah: “Siamo Noi che distribuiamo tra loro (gli uomini, n.) la sussistenza in questa vita, che innalziamo alcuni di loro sugli altri, in modo che gli uni prendano gli altri a proprio servizio”. E il commentatore dell’edizione italiana per i fedeli dell’Islam chiosa: in questa parte “il versetto costruisce un paragone con l’eccellenza spirituale (..) e stabilisce che le disuguaglianze sociali presenti in questa vita derivano dalla volontà di Allah; di conseguenza non è disonore servire, non è motivo di superbia prendere a servizio”. Sull’onda di effettivi movimenti sociali poco disposti a sopportare le disuguaglianze (l’oppressione sociale) vien fuori di necessità una teologia della liberazione, cattolica od islamica che sia; solo che per rendersi conseguente essa dovrà negare sé stessa in quanto teologia, con tanti saluti al Dio o Allah proiezione e baluardo di tale oppressione.

Il modello papale a tanto si riduce (o, secondo esso, si innalza ed esalta): alla conservazione programmatica dell’attuale ordine sociale purché “illuminata” dalla “veritas”, da cui poi discende la “caritas”. Vecchia storia. San Paolo rimanda lo schiavo fuggitivo al suo padrone cristiano raccomandando a quest’ultimo di trattarlo come compagno di fede, quindi con cristiana umanità. Eravamo in tempi non precisamente capitalistici, ma l’enciclica sa aggiornarsi mantenendo fermi i presupposti “di sempre” (nessuna rivolta degli schiavi, né ieri né oggi né mai, perché la piramide sociale, ancorché cangiante nel tempo e nello spazio, va rispettata; o ne andrebbe del ruolo stesso della Chiesa). Sul moderno pensiero sociale della Chiesa vanno ricordati questi documenti enciclici: La Rerum Novarum di Leone XIII (1891), la Quadragesimo Anno di Pio XI (1931), la Mater et Magistra di Giovanni XXIII ed i successivi interventi del papa polacco (Laborem exercens, 1981; Centesimus annus, 1991), passando per Paolo VI (Octagesima adveniens, 1971).

La prima doveva per forza di cose nominare capitalismo e socialismo, perché il movimento operaio si stava potentemente organizzando contro il sistema attuale e la cosa non poteva essere messa tra parentesi. E persino Woytila ha sentito il bisogno di parlarne perché, pur nell’ebbrezza della caduta dei muri “socialisti” (di cartapesta) si avvertiva il pericolo di futuri sconvolgimenti sociali legati all’imprescindibilità (esponenzialmente aggravata) del conflitto sociale ed il rischio per la Chiesa di vincolarsi programmaticamente troppo alla bestia trionfante del “capitalismo reale”, sino a dire che è “inaccettabile che la sconfitta del cosiddetto reale lasci il capitalismo come unico modello di organizzazione economica” in base ad una “ideologia radicale di tipo capitalistico” che, quanto ai problemi sociali, “ne affida fideisticamente la soluzione al libero sviluppo delle sole forze di mercato”. Troppo osè per il nostro!

Benedetto XVI, come abbiamo sopra accennato, non sente neppure il bisogno di nominare le realtà antagoniste in gioco, convinto com’è (ma ciecamente!) della perfettibile perpetuità dell’attuale “ordine” esistente. Al massimo si sente in dovere di ripetere alcuni concetti “universalistici” astratti, ovvero delle ideologie (falsa coscienza) quanto all’”Uomo in sé”. Due in particolare (e qui citiamo da una summa enciclopedica, dalle voci sul tema del volume La religione cristiana, Feltrinelli–Fischer, 1962): a) “Il cristiano è senza dubbio persuaso che il mondo è perituro e che è una chimera sperare in un paradiso sulla terra; la dottrina sociale cristiana è contraria alle ideologie sociali perfezionistiche, poiché esse avanzano soluzioni umanamente impossibili” (leggi: socialismo); b) “la sociologia cattolica ha sempre difeso il diritto alla proprietà come fondato sulla dignità della persona umana” pur senza raccomandare semplicemente lo stato attuale delle cose”. La proprietà è quindi... imperitura e “di per sé”... perfetta o perfezionabile, ma in ogni caso confacentesi alla “naturale dignità dell’uomo”. Si dirà: l’ideale (chimerico) sarebbe semmai la “proprietà universale”; come diceva un vecchio slogan DC: “non tutti proletari, ma tutti proprietari”. Un po’ arduo: faremo degli operai FIAT dei singoli proprietari? Ognuno intento a farsi la propria macchina senza bisogno di padroni? Ma no!, servono sia il padrone (espropriatore della “proprietà” proletaria) e servono i... servi, per dirla coranicamente, e limitiamoci a ripetere su questo tema il motto del ladrone del Morgante ad assoluzione dei propri furti: “Non dimandar se è tuo o mio, perché ogni cosa al principio è di Dio”.

Questo, naturalmente, non implica che la Chiesa sottoscriva i modi dell’attuale struttura di potere, così come fu anche il passato, tra alti e bassi. Il capitalismo deve essere “buono”, cioè cristiano quanto a questi modi. Il profitto deve servire ai “fini sociali” (straordinaria bufala!), tramite la conversione dei suoi agenti alle buone regole cristiane: tu schiavista dei tempi di san Paolo sarai tenuto “individualmente” a trattare da fratello il tuo legittimo schiavo; tu, Soros Bill Gates o Berlusconi, a fare altrettanto col tuo moderno schiavo salariato. Non ci allontaniamo dalla decima coranica pagata da supersfruttatori che però pagano un tributo all’amministrazione clericale “umanitaria” dopo aver goduto dei propri naturali e legittimi profitti. Ci sono i lavoratori da non lasciare a terra in situazioni di crisi, ma “umanamente soccorsi”, ci sono gli immigrati da “accogliere” quando vengono qui sospinti dalla devastazione (capitalistica) dei loro paesi di origine, c’è una marea di “disgraziati” di cui farsi carico, c’è l’ambiente da salvare, etc. etc. E qui interviene l’azione economica e sociale della Chiesa, disposta a farsene carico con... giusto profitto (dichiarato... papale papale nell’enciclica), L’assistenza caritatevole (in veritate) diventa essa stessa un affare, ovviamente a fin di bene.

Nel corso di un dibattito estivo MarcelloVeneziani, testa di destra, ma tutt’altro che sciocca, alla domanda “dov’è finita la destra sociale?”, ha risposto: essa istituzionalmente è scomparsa dal quadro politico presente; la Chiesa se ne fa interprete. Il modello? Quello corporativo, che si prende sì cura del “popolo”, ma nell’ambito di una visione che esclude da sé il conflitto di classe. Non diversamente argomentava, insieme da fascista e buon cattolico “sociale”, Amintore Fanfani in un suo celebre, e dimenticato, libro: la Carta del Lavoro corrisponde ai principi sociali della Chiesa, sempre purché si applichi caritatevolmente “in veritate”. Il fascismo mussoliniano è passato, il superfascismo capitalista si è, nel frattempo, rafforzato, e ad esso ci teniamo. Senza nascondercene, sia ben chiaro, le “storture”, qui in lungo e in largo elencate: la riduzione del lavoro a pura merce (ma senza intaccare il supremo principio della merce–lavoro), la disparità tra paesi ricchi e paesi poveri (che un buon capitalismo dovrebbe “aiutare” a diventar ricchi a loro volta!), la devastazione dell’ambiente e chi più ne ha più ne metta. Da molti di questi passaggi il buon cristiano e il buon riformista (solitamente assai più cornuto!) potranno ricavare un senso concreto di appoggio alle loro istanze “umanitarie” dandosi individualmente e collettivamente da fare contro le “storture” del sistema, rimanendo ad esso aggrappati, o per demagogici proclami stile PD ed “estrema sinistra”. Ma è dubbio che il sistema venga messo in causa; anzi, esso è (riformisticamente, fascisticamente) ribadito come punto di partenza e di arrivo. Quando un Epifani si dichiara solidale con le affermazioni dell’Enciclica ed, anzi, addirittura l’eleva a bandiera della CGIL e della “sinistra” non fa altro che sottoscrivere l’intesa comune che attraversa il variopinto fronte borghese. Il capitale va bene (lo dicono tutti, oramai), ma l’”uomo” è... il capitale più prezioso (Mussolini, Hitler, Stalin e Benedetto dixerunt, e non va trattato come semplice merce, ma come “umanesimo” da realizzarsi entro il sistema mercantile, di cui la prima merce è il lavoro salariato!)

E’ qui sintomatica la rilettura “aggiornata” di Paolo VI. Costui (altra bella testa, se vogliamo) aveva fissato i cardini indiscutibili della “dottrina sociale cristiana”: noi non pretendiamo di “intrometterci” nelle concrete, e di per sé sempre vili, questioni “politiche”, che... lasciamo a chi di dovere e potere, ma di proclamare la “verità” cristiana da inverarsi entro il presente sistema grazie ad un’opera di catechizzazione (qui si dice espressamente di missionariato) rispetto alle “anime” chiamate a decidere le sorti della nostra povera e corrotta umanità. Forse persino un Leone XIII si era troppo sbilanciato nel parlare troppo “laidamente” di una “questione sociale”, pressato com’era all’onda montante del movimento socialista. Paolo VI, da parte sua, molto più ribadisce “a Cesare quel che è di Cesare, a Dio quel che è di Dio”, visto anche che, per il momento, il Cesare proletario sembra disposto a rinunziare a quel che gli sarebbe dovuto.

Citiamo in proposito un solo passo dell’enciclica: “Erano fondate le preoccupazioni della Chiesa (paolina, n.) sulle capacità dell’uomo solo tecnologico di sapersi dare obiettivi realistici e di saper gestire sempre adeguatamente gli strumenti a disposizione (l’uomo tecnologico: operaio e padrone, n.). Il profitto è utile se, in quanto mezzo, orientato ad un fine che gli fornisca un senso tanto sul come produrlo quanto sul come utilizzarlo. L’esclusivo obiettivo del profitto, se mal prodotto e senza il bene comune come fine ultimo, rischia di distruggere ricchezza e creare povertà”. Ma chi produce profitto? L’”uomo tecnologico” o una determinata classe di uomini? E come e su chi si produce profitto? La stragrande massa dell’umanità non ha mai saputo di dover riconoscersi colpevole del cattivo uso del profitto “non per il bene comune”, visto che dalla sua pelle esso si estrae. E quanto alla sua destinazione “per il bene comune come fine ultimo” ciò equivarrebbe a presupporre, per l’antichità, una buona usura a ciò finalizzata.

Noi non neghiamo affatto che anche questa enciclica sia prodiga nell’elencare i mali concreti attinenti alla presente società, ancorché priva del nome capitalismo che le si dovrebbe dare. Anzi, essa, in vari punti, sta persino più avanti di certe miserie economicistiche “di sinistra” nel delineare stati di alienazione umana che investono l’intero essere umano, costretto ad intima miseria esistenziale. Su questo punto l’enciclica si avvicina (per capovolgerla ideologicamente) alla complessa, onnilaterale, analisi marxiana sull’alienazione globale. Ma la mano papale che tira questo sasso si ritrae poi dall’affrontarne i dati materiali, qui e sempre ridotti ecclesiasticamente a critica degli effetti senza risalirne alle cause (orrore!, materiali). Tale critica può ben esercitarsi in lungo e in largo, ma per ribadire che il pericolo vero è il “perfezionismo sociale terreno”. E, allora, predichiamo pure a industriali e banchieri conquistati a Cristo la caritas che dovrebbe conseguire alla veritas, ma facendo far loro il proprio mestiere di bravi gestori di un sistema proprietario garantito dalla superiore provvidenza divina (fino quando, almeno, essa non verrà frontalmente attaccata dal suo fattore antagonista: l’espropriatore degli espropriatori).

I cattolici sinceramente intenzionati a mettere in atto la caritas potranno trovare in molti passaggi della presente enciclica una spinta a farlo, sia sul piano individuale che su quello collettivo, ma incocciando precisamente con le contraddizioni di cui sopra. O la loro azione dovrà sul serio passar sopra l’impraticabilità dei capitalisti a “convertirsi” ed agire cristianamente in contrasto con il proprio sistema, per sua natura non... caritatevole, ed imbracciare delle armi reali di lotta contro esso sistema o non resterà ad essi che dichiararsi, come i Testimoni di Geova, “neutrali”, cioè indifferenti, rispetto alle trascurabili cosucce di questo mondo “apparente” in attesa di battaglie di Armagheddon e Regno di Dio adveniente.

Un interessante tentativo di legare le due cose, per noi dispari e inconciliabili, cristianesimo e lotta di classe, si trova oltre che in certi teologi della liberazione di alta statura intellettuale e “morale” nel pensatore ortodosso Nikolaj Berdjaev di cui ricordiamo qui, di sfuggita, un testo del 1932 intitolato, per l’appunto, Cristianesimo e lotta di classe (Milano, RC ed., 1973) che meriterebbe letto attentamente dai (pochi) marxisti oggi presenti sulla scena per venir analizzato e... smantellato “filosoficamente” sulle nostre basi materialistico–storiche senza facilonerie e supponenze (si tratta di un testo estremamente impegnativo, fondato su solide basi conoscitive concrete). Berdjaev vi contesta l’”errore materialista” sovietico, ma cerca di rispondervi assumendo in pieno l’imperativo della lotta di classe, considerandola intrinseca alla visione escatologica cristiana; oggi, viste le... epifanie sul terreno non se ne parla proprio, ma la questione necessariamente si ripresenterà. Può darsi che avremo occasione in seguito di parlarne nello specifico come utile viatico ad evitare una visione semplicistica di ciò che si agita nel mondo dei credenti al di là di una semplice constatazione del ruolo reazionario delle chiese ufficiali (considerate, tra l’altro, in modo estremamente superficiale) in una sorta di micidiale identificazione tra masse e capi, tra movimento reale e superfetazione ideologica. (Per chi lo volesse, disponiamo di questo testo in fotocopia)

Da tutto ciò deriva un imperativo ai nostri “marxisti”: non fatela facile, leggete bene questa enciclica, soprattutto nella parte (qui solo sommariamente esposta) relativa ai mali presenti nella società attuale (nell’Uomo attuale, come –per astrazione– scrive Benedetto XVI), imparate a battervi contro i pilastri su cui essa si regge a partire dai dati materiali da cui essa, comunque, non può astrarre. Solo a questa condizione sarà dato di riportare una massa reale di nostri futuri compagni dalle miserabili altezze del “Dio nei cieli” a scapito della terra all’uomo reale sulla terra capace di conoscere, progettare e combattere per il proprio essere umano su questa “misera” porzione dell’universo di cui ci accontentiamo e che rivendichiamo come nostra.

28 agosto 2009