“E’ più che mai necessaria e urgente una campagna che punti alla ripresa della mobilitazione sociale e di massa contro il governo e il padronato su una piattaforma indipendente dei lavoratori”: questo si legge su un comunicato del Partito Comunista dei Lavoratori di adesione alla manifestazione del 22 ottobre.
Concordando sul punto, neghiamo che l’appello per il “No Renzi Day” connoti una piattaforma di questo genere.
La piazza del 22 ottobre è convocata per dire NO alla controriforma costituzionale e per reclamare “l’applicazione dei principi e dei diritti della costituzione del 1948”. Anche lo sciopero del 21, quanto mai necessario a fronte della latitanza recidivante di Cgil-Cisl-Uil, annacqua la questione sociale di classe nel torrente di sciocchezze sulle manomissioni della “costituzione più bella al mondo” che saremmo chiamati a preservare e difendere, il 21 e 22 ottobre in piazza, il 4 dicembre nell’urna.
Nelle piazze del 21 e del 22 ottobre ci saremo, riconoscendo che vi si darà la partecipazione di settori della nostra classe, ma non certo per arringare elettori in vista del voto, né per lasciare campo libero ai troppi che da troppo tempo segnano la trincea più avanzata della lotta operaia sulla difesa di una borghesissima carta costituzionale con buona pace di ogni indipendente protagonismo proletario.
I nipotini di Togliatti (li leggiamo su un recente documento della Rete dei Comunisti) si dicono perfettamente d’accordo sulla svolta operata dal PCI nell’immediato secondo dopoguerra e sottoscrivono come “condizione obiettiva” a quello svolto il “ripiegamento” del programma rivoluzionario (definito “settarismo”) sullo zenith della “democrazia progressiva”.
Il PCI al suo VIII congresso del 1956 dichiarava: “il partito comunista... non concepisce la Costituzione repubblicana come un espediente per utilizzare gli strumenti della democrazia borghese fino al momento dell’insurrezione armata per la conquista dello Stato e la sua trasformazione in uno Stato socialista, ma come un patto unitario liberamente stretto dalla grande maggioranza del popolo italiano e posto a base dello sviluppo organico della vita nazionale per tutto un periodo storico. Nell’ambito di questo patto si possono compiere nella piena legalità costituzionale le riforme di struttura necessarie per minare i poteri dei gruppi monopolistici, difendere gli interessi di tutti i lavoratori contro le oligarchie economiche e finanziarie, escludere dal potere queste oligarchie e farvi accedere le classi lavoratrici... Esistono in Italia le condizioni perché, nell’ambito del regime costituzionale, la classe operaia si organizzi in classe dirigente, unendo intorno al suo programma di trasformazione socialista della società e dello Stato la grande maggioranza del popolo”.
Tutto bene fin qui per la Rete dei Comunisti, la quale segna invece in negativo la successiva “evoluzione riformista avuta dal PCI”, sicché “...già dall’inizio degli anni ’70 questa concezione progressiva viene meno e il PCI accetta in pieno la concezione della democrazia formale ovvero borghese... Avendo abbandonato ogni ipotesi di transizione si fa diventare la democrazia borghese il terreno più avanzato non in termini di classe ma in termini di valori generali socialmente indistinti... Viene meno il ’fine’, ovvero la ’Rivoluzione’ intesa anche nelle sue forme democratiche così come le aveva concepite il PCI”.
Se questa è stata – secondo le ricostruzioni della Rete dei Comunsti –"l’evoluzione riformista” di Berlinguer, che dire di quanti si sbracciano nel 2016 per “l’applicazione dei principi e dei diritti della Costituzione del 1948”? L’appello in questione non si attesta forse anch’esso sulla piatta rivendicazione della democrazia borghese come “terreno più avanzato non in termini di classe ma in termini di valori generali socialmente indistinti”? E’ non è prova di ciò il convergere sul NO referendario di forze politiche di ogni colore con le più eterogenee componenti sociali di riferimento?
Togliatti affermava che attraverso la “legalità costituzionale” le masse lavoratrici avrebbero conquistato la trasformazione socialista. Berlinguer prese atto che ciò non era accaduto e fece scivolare via la prospettiva del socialismo. I nipotini di Togliatti nei loro scritti richiamano ambiguamente se non proprio transizioni socialiste, che hanno reticenza a nominare, almeno potenziali “equilibri socialmente più avanzati” come frutto (improbabile) delle loro ipotesi strategiche.
Ma la realtà è dura da nascondere. Quella di Togliatti era una balla troppo grossa, la cui presa d’atto ha significato la coerente dismissione di ogni orpello formale di socialismo da parte dei suoi successori.
Non è chiaro in quale prospettiva i nipotini del “migliore” ne recuperino le ”lezioni”, anche perché stesso Togliatti circoscriveva la validità delle sue tesi “per tutto un periodo storico”. Se, trascorsi 50 anni e passa, costoro non se la sentono di continuare a dire che “arriveremo al socialismo attraverso la legalità costituzionale”, delle due l’una: o si prende atto che il PCI del secondo dopoguerra aveva voltato le spalle alla prospettiva del Socialismo e ci si adopera per rimettere in piedi quella prospettiva sulle sue tutt’altre basi, oppure si deve dare ragione a Berlinguer che, all’esito della verifica storica della infondatezza di “riforme di struttura” e “transizioni socialiste via democrazia progressiva”, ha derubricato il socialismo sposando tout court l’orizzonte della democrazia borghese.
A noi sembra questo il terreno di approdo sostanziale degli attuali “No Renzi day”: quello della democrazia borghese come trincea più avanzata (con slavati richiami di classe sempre più in sottofondo) e orizzonte finale. Il paradosso è estremo, perché, attraverso le prese d’atto successive, nella matrioska di Berlinguer hanno poi trovato spazio quelle sempre più miniaturizzate di Occhetto, D’Alema, Veltroni, Bersani e infine di Renzi (come finale regolamento dei conti e ricongiunzione dei due partiti popolari di massa del ciclo politico aperto dal secondo dopoguerra, e con i rifondaroli incapaci di rimettere in discussione le basi del togliattismo e per questo sempre esposti al risucchio sul terreno del PDS, DS, PD – finanche renziano – o alla dissoluzione).
Le “riforme” che nella crisi del capitalismo puntano a centralizzare il potere politico e a rendere più efficiente e aggressiva la macchina dello Stato a difesa degli interessi del capitale vanno denunciate e combattute sul loro proprio terreno, che è quello della forza e della mobilitazione vera, mentre già oggi si rivela inconsistente l’argine che verrebbe opposto da una maggioranza di schede e da una preservata “Costituzione bellissima”.
Che la costituzione repubblicana “purché applicata” costituisca un argine di difesa per la classe lavoratrice è una balla colossale. Si dice che sarebbe in corso “un’attenuazione della democrazia”, ma anche senza “attenuazioni” la democrazia ha garantito egregiamente alla borghesia per oltre 50 anni il suo potere dittatoriale di classe, e Renzi e, prima di lui, Monti-Fornero ed altri ancora (così il “socialista” Hollande in Francia) hanno agito ed agiscono come “un uomo solo al comando” quando si tratta di colpire la classe lavoratrice.
Che lo Stato disegnato da Renzi e voluto dai poteri capitalistici sarà più centralizzato e forte innanzitutto contro il proletariato è una indubbia verità, ma che il proletariato possa per questo trovare efficaci ripari negli articoli della costituzione del ’48 e nelle pastoie di una macchina politica e burocratica farraginosa, anche questa è una balla colossale. Lo confermano i dibattiti in corso dove vediamo che l’establishment politico di alto bordo schierato per il NO (dai D’Alema ai Brunetta e molti altri) è senz’altro preoccupato che scranni e cariche pubbliche non diventino il bottino esclusivo del “vincitore” e si possano ancora democraticamente spartire tra le infinite consorterie al servizio del capitale, ma anche si appella al “sistema di pesi e contrappesi” che, pur appesantendo la macchina politica dello Stato, viene rivendicato da costoro in quanto prezioso sistema di governo/sfogo dei contrasti di classe ai fini di preservazione della pace sociale.
Accade invece che quelli del “NO sociale”, illusi di potersi aggiudicare un quanto mai dubbio successo se vinca il NO, scartano e derubricano tutto quanto viene visto come controproducente per il pieno di NO nell’urna, e così rispetto alla centralità del referendum costituzionale finiscono inevitabilmente in secondo piano le stesse ragioni dello sciopero del 21 ottobre.
Ciò accade quando lo sciopero generale del cosiddetto ”sindacalismo conflittuale” dovrebbe connotarsi con la più forte valenza di sferzante atto d’accusa contro la vergognosa passività della Cgil che, dopo non aver fatto nulla contro le stangate antioperaie assestate dagli ultimi tre governi (avendo peraltro sparato a salve contro quelle non meno pesanti dell’ultimo Berlusconi), dopo non aver mosso un dito contro la legge Fornero e il Jobs Act, dopo essere stata a guardare le manifestazioni contro la Loi Travail in Francia impegnata come era a raccogliere firme che a nulla potranno servire, dopo non aver assunto alcuna iniziativa di lotta lasciando derubricare a incidente stradale l’assassinio di un operaio che picchettava la sua azienda, ora tratta con il governo sulla “flessibilità in uscita” che i lavoratori si dovrebbero pagare indebitandosi con le banche...
La centralità della questione di classe e la spinta a riprendere l’iniziativa risollevandosi da una situazione di difficoltà e di inerzia, che – senza dimenticare le tante lotte parziali in corso – va oltre il perimetro dei sindacati confederali, tutto questo e altro ancora scivolano in secondo piano, se i promotori del 21 e 22 ottobre convergono con la Cgil (e con molti altri...) sul terreno – “socialmente (e politicamente, n.n.) indistinto” – del NO alla “riforma” di Renzi. Così vediamo rappresentanti della USB, un sindacato che giammai condivide la piazza dello sciopero e la giornata di lotta con la Cgil, invitati e presenti alla “Festa della Costituzione” insieme a esponenti di rilievo della Cgil e all’intero establishment della “sinistra per il NO”. Se poi si tratta di criticare il vertice della Cgil per un NO pronunciato “in punta dei piedi, senza partecipazione ai comitati, senza campagna di reale mobilitazione... e dopo mesi di imbarazzato silenzio” (come si legge sul comunicato del PCL) noi abbiamo la conferma di quanto abbiamo scritto, valido per il PCL e per l’intero “Coordinamento per il NO sociale”.
Sul tema bruciante della guerra il Coordinamento riesce a scrivere: “Diciamo NO alla guerra, alla Nato, alle spese e alle missioni militari”! Queste stringatissime parole sono una vera e propria sordina su quella che dovrebbe essere invece la vibrata denuncia e chiamata alla mobilitazione per gli inquietanti sviluppi in corso nei teatri delle guerre scatenate dai “nostri governi”. Una sordina che cogliamo non solo nelle reticenze dell’appello. Più in generale, dopo le iniziative positive contro l’aggressione alla Libia del 1 giugno (Roma) e 24 ottobre (Napoli) del 2015 e del 16 gennaio 2016 (manifestazione nazionale a Roma), è calato il sipario su questi temi proprio a misura che le “sinistre” in questione hanno messo al centro dell’agenda “la più ampia convergenza di forze a difesa della Costituzione”.
Ma ci si è accorti mentre si difendeva la costituzione che gi Stati Uniti, al culmine di un’escalation contro quelli che la stampa occidentale ha definito i “poteri barbarici” della Russia e del governo siriano impegnati nella riconquista della parte di Aleppo ancora in mano alle opposizioni islamiste, hanno recentemente bombardato l’esercito siriano a Deir Ez-Zor in Siria, poi scusandosi per quello che in nessun caso è stato un errore? Ci si è accorti che gli Stati Uniti, dopo aver fomentato la disgregazione della Libia e della Siria, minacciano sempre più da vicino lo scontro diretto con la Russia se questa si ostini a supportare Assad nella riconquista del territorio siriano smembrato e distrutto dalle scorribande criminali degli imperialisti occidentali? Ci si è accorti che in luglio gli Stati Uniti hanno ripreso i bombardamenti sulla Libia, e che l’Italia ha mandato i suoi militari a Mosul per difendere le imprese che si sono aggiudicate l’appalto sulla diga, e recentemente altri militari in Libia “per proteggere i presidi medici” in precedenza inviati? E non saranno forse da “aggiornare” gli appelli pro Costituzione e di tornare con i piedi per terra se leggiamo ancora che l’Italia invierà i suoi militari anche in Lettonia, a ridosso del confine russo? O si avrà il coraggio di ripetere la lagna sull’art. 11? Quanti si appellano all’art. 11 sono al 99% ipocriti (e ci mettiamo dentro anche le “sinistre” a difesa della costituzione) o farabutti (che ripudiano le guerre degli altri mentre conducono e sponsorizzano le proprie).
Se escludiamo un modesto presidio sotto Montecitorio lo scorso luglio contro la ripresa dei bombardamenti americani sulla Libia, nessuna iniziativa con coefficienti di minima ponderabilità ci risulta sia stata assunta su questi temi da quanti si stracciano le vesti per “la Costituzione del ’48”. Abbiamo visto invece sufficientemente raccolta la chiamata a manifestare per il Kurdistan, passando sopra al fatto che le forze curde siriane sono cadute (non è la prima volta) nelle trappola di accettare l’alleanza degli Stati Uniti subendo poi il voltafaccia quando, di fronte all’invasione delle regioni curde della Siria da parte della Turchia, gli Stati Uniti hanno dichiarato che i loro alleati sono i turchi.
In tutto questo noi vediamo che le componenti che hanno a suo tempo disertato la mobilitazione contro l’aggressione imperialista alla Libia e alla Siria in nome di fantomatiche rivoluzioni locali da appoggiare e che oggi continuano a boicottare le iniziative che integrerebbero un “campismo” ieri pro-Gheddafi e ancor oggi pro-Assad e pro-Putin, hanno conseguito al momento l’obiettivo di spegnere l’iniziativa di lotta contro la guerra imperialista. Ciò va a demerito di quanti quelle iniziative avevano coraggiosamente promosso e che oggi decidono di sospenderle per non compromettere “il più ampio coordinamento di forze a difesa della Costituzione”.
Cecità assoluta gravida delle peggiori conseguenze! Mobilitarsi contro la crescente aggressività degli Stati Uniti che accarezzano sempre più da vicino lo scontro diretto con la potenza russa (senza dimenticare la Cina), dichiarando a chiare note che nessuna aspettativa le classi sfruttate ripongono né nello Stato russo – annoverato anch’esso tra i nemici di classe al giusto posto che gli compete svariati gradini al di sotto dei briganti imperialisti occidentali – e neanche nella prospettiva di un mondo “più equilibrato e multipolare” dove le maggiori potenze si accordino per dominare “in pace” il pianeta, solo nella testa dei venduti all’Occidente o degli scemi può significare “campismo”.
Stesso dicasi per quanti tacciano di “campismo” pro-Gheddafi e pro-Assad la sacrosanta denuncia e iniziativa di lotta contro l’aggressione occidentale che ha smembrato e distrutto quei paesi e che prosegue ai giorni nostri in Libia e in Siria.
Questi ridicoli “anti-campisti” mettono in scena un vergognoso “campismo” (nel miglior caso oggettivo) a copertura delle guerre imperialiste dell’Occidente. Guerre cui l’Italia partecipa a pieno titolo con l’invio di militari in Iraq, in Libia, in Lettonia, pur lasciandosi aperte le vie di fuga compatibili con le necessità di presidiare in loco i propri interessi e di assecondare i perentori richiami all’ordine del capobastone stelleestrisce.
Su nulla (figuriamoci poi sulla “difesa della Costituzione del ’48”) noi possiamo e vogliamo convergere con quanti si attestano sulla dismissione della lotta contro le guerre imperialiste del proprio governo, la più vergognosa dismissione dell’internazionalismo di classe!
Né deve sfuggire che le minacce di guerra totale lanciate dai rappresentanti degli Stati Uniti ribattono su un punto ben preciso: “noi non rinunceremo mai al nostro stile di vita”.
Cosa significa? Significa che gli Stati Uniti a nome dell’intero Occidente dichiarano al mondo la propria indisponibilità a cedere lo scettro del potere assoluto in vista di equilibri multipolari.
E’ una minaccia rivolta alle nuove potenze concorrenti, è un monito agli alleati occidentali recalcitranti a seguirli sulle linee tracciate, è un amo lanciato a un fronte interno e innanzitutto alle fasce medio basse dell’intero Occidente proprio quando i morsi della crisi ne scuotono “le acquisizioni dei decenni della prosperità”.
Il colonialista d’altri tempi Cecil Rodhes aveva la spudoratezza di dichiarare che l’imperialismo della Gran Bretagna fosse necessario e giustificato per poter dare una soluzione adeguata alla questione sociale nel Regno Unito; i generali del Pentagono ne ripetono la lezione quando pontificano minacciosi che dominare il pianeta con corazzate, droni e quant’altro senza concedere spazi a nuovi “partners” non è uno sfizio guerrafondaio ma una nuda e cruda necessità, a meno che l’Occidente non si rassegni, in vista di nuovi “equilibri multipolari e di pace”, a regredire dalle condizioni di vita conseguite nel secolo che abbiamo alle spalle e assaporate per alcuni decenni da fasce ampie di popolazione.
Cecil Rodhes e i generali del Pentagono da loro punto di vista hanno ragione, perché non è possibile garantire “lo stile di vita dell’Occidente”, comprensivo della idrovora di profitti che alimenta la macchina del capitalismo occidentale e di quanto esso ha potuto compatibilmente concedere nel recente passato al proletariato interno, senza preservare e rafforzare il dominio dell’Occidente sui paesi dominati respingendo con la guerra ogni tentativo dei dominati di ribellarsi e di nuove potenze emergenti (o ri-emergenti) di inserirsi nel gioco “alla pari”.
Per questo accade che le masse proletarie che in Occidente iniziano ad essere falcidiate dalla crisi prestino ascolto alla propaganda imperialista e vedano concretamente minacciate le proprie condizioni di vita (anche modeste che siano) non dalla schiavitù del lavoro salariato e dalla legge del profitto, ma dai “nemici esterni” che gli imperialisti additano ad esse, siano i “tiranni” di turno del Sud o dell’Est del mondo (dai Milosevic agli Assad...), i “poteri barbarici” della rediviva Russia (e – non dubitiamo – di chiunque altro “attenti allo stile di vita occidentale”), dei “terroristi islamici”, degli “immigrati che ci invadono”... .
Il programma politico del capitalismo imperialista è noto: il nemico è esterno e le classi sociali dell’intera nazione e dell’intero Occidente devono unirsi e compattarsi per combatterlo. E’ un programma che sopprime la lotta di classe all’interno della nazione, per dare massima potenza di fuoco alla guerra imperialista, che, a un dato svolto, diventa non l’opzione di folli malvagi ma l’unica via d’uscita per “liberare” e ridare slancio all’intera macchina del profitto.
Purtroppo ad additare “nemici esterni” quali responsabili delle attuali difficoltà, e corrispondenti “vie d’uscita” che sarebbero valide per “la nazione Italia” e per “un blocco sociale ampio” (la “grande maggioranza del popolo esclusi gli oligarchi” di togliattiana memoria...), è un’intera galassia di pseudo – “sinistri” in vena di “strategie progressive” per “equilibri sociali più avanzati”... . E così leggiamo che il 22 si va in piazza per “la libertà e la sovranità democratica del popolo italiano oggi sottoposta ad un vergognoso attacco da parte dei governi degli USA e della Germania e dalla burocrazia della UE”!!
L’appello del 22 ottobre indica ripari dalla crisi capitalistica che sono inesistenti e che, se perseguiti dal proletariato, integrerebbero la rinuncia al programma di classe e il suicidio politico.
La petizione “contro la distruzione dello Stato sociale”, anch’essa presente nell’appello, non può essere fatta con la testa rivolta all’indietro a sognare “lo Stato sociale” dei decenni passati proprio mentre i governi dell’Occidente capitalistico hanno dovuto iniziare a negarlo alle nuove generazioni per ridurlo drasticamente a tutti.
Né tantomeno intendiamo lasciare spazio alle soluzioni imperialiste, quelle – in campo da Cecil Rodhes in poi – che promettono la presa in carico della questione sociale interna (e uno Stato sociale minimo nelle attuali condizioni di crisi) a condizione che il proletariato occidentale sia disposto a supportare la maggiore aggressività imperialista delle proprie nazioni in vista di un dominio più ferreo sul mondo.
Soluzioni del genere si annidano anche dietro le proposte “per il dialogo con la Russia in vista di un equilibrio di pace multipolare” (annotino quindi PCL e consimili che in quanto scriviamo non c’è l’ombra di “campismi”...), quelle “sovraniste” contro lo strapotere della UE e della Germania, quelle che alludono a “equilibri sociali più avanzati” che chissà perché uscirebbero come d’incanto da un’ “Europa mediterranea” fuori dall’Euro dove l’Italia possa finalmente “esercitare senza limitazioni la sua sovranità nazionale” (in soldoni: proiettarsi come imperialismo indipendente nel suo più prossimo “spazio vitale”).
Tutte queste soluzioni, ben presenti nell’appello per il 22, hanno in comune la prospettazione della (illusoria) possibilità per le classi sfruttate di poter difendere le proprie condizioni di vita nella crisi se solo gli imperialisti più forti di Stati Uniti e Germania concedessero spazio ad altri “partners”, limitando i propri appetiti da Assopigliatutto e non determinando la politica mondiale alla stregua dei propri esclusivi interessi. A tali condizioni diverrebbe possibile per l’Italia ritagliarsi spazi per “esercitare liberamente la propria sovranità e condurre una politica estera finalmente coerente con gli interessi nazionali, con indubbi benefici a cascata anche per le classi lavoratrici”; una politica “di pace” secondo i neo-togliattiani, ma in realtà di affermazione più netta, con quel che all’occorrenza necessita, degli interessi del proprio capitalismo nazionale. Questa pseudo –"sinistra” d’accatto, per chi sa contare, sposa il “realismo” alla Cecil Rodhes e prospetta “soluzioni” che in realtà non mettono in discussione né il capitalismo mondiale né il ruolo imperialista (“di pace” – !? –) dell’Italia.
Quanto allo “stile di vita occidentale” che i generali del Pentagono si preoccupano di preservarci, noi getteremo alle ortiche il consumismo drogato e improduttivo con il quale il capitalismo ci ha avvelenati, mentre sarà possibile per l’intera umanità lavoratrice (non per ristrette fasce di aristocrazia del lavoro collocate in Occidente) accedere a tutto quanto necessita per vivere (ben oltre il più avanzato “Stato sociale”... del capitale) non perché i criminali imperialisti abbiano stretto di un altro giro la corda dell’oppressione e dello sfruttamento sui popoli dominati ma perché il proletariato internazionale delle metropoli e delle periferie sia riuscito infine a alzarsi in piedi come una sola classe per sconfiggere l’imperialismo ed emanciparsi via Rivoluzione dalla schiavitù salariata e dalla legge del profitto. E’ in questa prospettiva, riferita ai bisogni vitali dell’intera platea proletaria mondiale cui ci riferiamo, che siamo in campo qui in Occidente contro i tagli del salario indiretto e differito, contro le sue decurtazioni a danno delle nuove generazioni, contro la discriminazioni a danno della classe operaia immigrata, contro i muri della divisione internazionale del lavoro – e delle condizioni di lavoro e di vita – eretti dallo sviluppo combinato e diseguale del capitalismo.
Noi non siamo “astensionisti per principio”. Alla critica degli strumenti della democrazia borghese e del referendum (mai risolutivo e spesso del tutto inutile se non pericoloso per gli interessi di classe) noi uniamo la considerazione sul merito, e innanzitutto a questa stregua il SI e il NO in ballo il 4 dicembre non rappresentano in nessun caso né un’istanza né un interesse immediato o di prospettiva delle classi sfruttate. Siamo invece presenti in piazza, dove il nostro invito pressante è perché si torni con l’energia che occorre a discutere e promuovere le vere istanze del proletariato e la prospettiva del Comunismo!
18 ottobre 2016