nucleo comunista internazionalista
interventi




volantone per la manifestazione FIOM del 16 ottobre 2010



falcemartello ALLA FORZA DEL CAPITALE
SOLO SI PUO’ RISPONDERE
CON LA FORZA DELLA CLASSE.
E ALLORA,
A CHE PUNTO SIAMO?



Tutti quanti qui, lavoratori e compagni, presenti in questa piazza siamo consapevoli della gravità e della portata dell’aggressione a tutto campo che la classe lavoratrice sta subendo, tanto sul piano sindacale che su quello più generale e politico. Si mira a frantumare le linee di difesa collettive dei lavoratori per sottomettere la nostra classe alle necessità del capitalismo. In balia della universale concorrenza in cui i proletari sono giocati gli uni contro gli altri al di sopra di ogni confine fra territori e Stati di cui il Capitale si fa un baffo, ma entro le cui gabbie divisorie i lavoratori – gli schiavi salariati – dovrebbero restare in eterno inchiodati.

L’iniziativa della Fiat è “rivoluzionaria” in quanto punta senza mezzi termini alla capitolazione della classe ai piedi delle “superiori esigenze della produzione”; e lo fa procedendo in rottura col tradizionale metodo di cui la borghesia italiana è maestra, cioè quello di imporre i suoi interessi attraverso l’ ”arte” delle infinite mediazioni, dei “tavoli concertativi”, dei “dialoghi fra le parti” e via vasellinando.

Segno dei tempi. Quelli dettati dalla crisi capitalistica mondiale, a Detroit come a Torino, ovunque. Prendiamone atto, se non ci si vuole ridurre, impotenti, ad imputare ad un Marchionne (fra l’altro dopo averlo incensato, perfino dall’ ”estrema sinistra”, fino all’altro ieri come “dirigente illuminato”), o ad un altro funzionario del Capitale, una particolare “cattiveria” o “incomprensione” delle “particolarità sociali” del capitalismo italiano ed europeo che un buon manager dovrebbe invece rispettare e salvaguardare (lamento che sentiamo ripetere da fin troppi esponenti della “sinistra” sindacale e politica).

Segno dei tempi. Giacché la crisi capitalistica mondiale, che non è una “invenzione” o un pretesto dei padroni, né è da essi provocata (essendo piuttosto conseguenza ciclica della produzione votata al profitto), riduce all’osso i margini materiali (certo non le relative illusioni...) su cui sono stati possibili le mediazioni e i compromessi sociali. Sui tavoli della concertazione oggi, se e quando si danno, si contratta piuttosto l’entità delle concessioni che il capitale reclama dal lavoro salariato.

E alla forza del capitale solo si può opporre altrettanta forza, giusta e contraria. Un’alternativa diversa non esiste.

Il capitale getta insomma sul piatto della bilancia la sua spada. In testa il “rivoluzionario” Marchionne, che procede senza mascherare il suo fine o indorare la pillola, mirando invece diritto al cuore. Bisogna riconoscere che, in questo esercizio e dimostrazione di forza da parte del capitale, abbiamo dovuto incassare autentiche umiliazioni di classe. Altro non si può dire di quando si arriva al punto di... chiamare la Questura perché “sia fatta giustizia” contro le provocazioni padronali. E qualcuno ha pure presentato come “vittoria operaia” una simile situazione: sì, vittoria di Pirro. Questo va detto, pur dando atto agli operai della Fiat dell’attacco fronteggiato, affinché divenga possibile inziare a reagire a questa situazione.


Tutti siamo qui, rispondendo all’appello di una Fiom sotto assedio, un assedio a cui peraltro contribuisce la politica della sua stessa casa-madre Cgil (e bisognerà pur scioglierla questa “incongruenza”), per iniziare a costruire un solido argine all’offensiva padronale, per ritornare a far pesare gli interessi e le aspirazioni del Lavoro, per cambiare i rapporti di forza nella società.

Ma per riuscire effettivamente a mettere in campo una risposta all’altezza della situazione occorre prima di tutto riflettere in profondità e rispondere ad una questione che non ci si può illudere di scansare: come mai e perché una aggressione come quella che la classe lavoratrice sta subendo trova una reazione così debole da parte della massa stessa? Come mai e perché le energie e la rabbia dei lavoratori restano frammentate e si esprimono in una serie di lotte in ordine sparso, incapaci di trovare uno sbocco unificante e davvero incisivo?


cina-USA 2010

Non valgono qui le facilonerie o le illusorie scorciatoie.

Non è che la classe operaia si è improvvisamente infiacchita. Non è che, dopo aver lottato riuscendo a migliorare nei decenni passati la sua precedente condizione, di punto in bianco ha smarrito sé stessa, si è come svuotata di ogni vitale energia proprio quando è arrivata la scossa della crisi a far tremare l’intero sistema (la crisi è venuta come doveva venire, perché ciò rientra nell’ordine “normale” delle cose sotto il capitalismo, così come per esso è “normale”, anzi salvifica, la guerra).

La realtà è che la massa dei lavoratori si muove con spirito di estremo realismo, ragiona sul quadro economico e politico che ha davanti e, sulla base della sua esperienza (e quella del “governo amico” ha lasciato in ricordo non poche scottature), trae come può, in assenza di un solido riferimento e indirizzo di classe, le sue conclusioni. Questo estremo realismo fà sì che risponda alle ricadute della crisi sulla sua pelle seguendo le uniche strade che appaiono concretamente percorribili: la difesa nel chiuso recinto del proprio stabilimento, del proprio territorio, l’implorazione alla trafila delle “autorità” locali e nazionali, l’implorazione allo Stato “per non

essere abbandonati”, i ricorsi legali e gli appelli alla giustizia come surrogato di una forza di classe che difetta e che nessuna direzione sindacale e politica si azzarda ad organizzare e chiamare in campo. I lavoratori avvertono soprattutto la mancanza e il vuoto spaventoso di una prospettiva generale, di uno sbocco politico plausibile in cui possano confluire i loro interessi e le loro aspettative e che sia realmente alternativo alle politiche borghesi che occupano il campo.

In una tale situazione rischiano di trovare credito in settori non irrilevanti di lavoratori perfino i discorsi e le proposte di super-bonzi tipo Cisl, che vertono sul legame estremo del lavoratore al profitto della “sua” azienda e sullo smembramento della classe in una miriade di interessi territoriali. Un discorso che poi non è molto lontano, sul terreno sindacale, dall’agitazione di stampo leghista (in verità nemmeno la Cgil in linea di principio ha da contestare granché nel merito su questo).

Ebbene cosa è stato messo in campo dallo stesso fortino Fiom sotto assedio, per non parlare della disastrata sinistra politica più o meno “radicale”, dal punto di vista della prospettiva generale, dello sbocco politico su cui incardinare la battaglia di resistenza? Esclusa una reale organizzazione della lotta di classe, che ogni tanto viene vagamente evocata, resta la vana ricerca di una sponda politica fra le opposizioni al governo a cui offrire una massa d’appoggio.

Il filo del ragionamento dal Fort Apache dei vertici della Fiom e della “sinistra”, “radicale” e non, suona più o meno così: causa di tutti i guai per i lavoratori e “per il paese” è il governo Berlusconi (mai e poi mai la oggettiva crisi del sistema che scoppia indipendente da ogni volontà, persino quella dei padroni, parola di un tale Carlo Marx). Governo Berlusconi che, per giunta, tiene bordone alla parte “più retriva” del padronato (che nel caso di Marchionne sarebbe però la parte ex –“illuminata”...), che è inoltre governo liberticida e “illiberale”, etc. etc.. La lotta dei lavoratori perciò è “per la democrazia”, per la “difesa” dei “Diritti” e della “Sacra Scrittura” della Costituzione borghese, e su questa base è prospettato il famoso sbocco politico del movimento. Cioè, in realtà, le energie e la forza potenziale dei lavoratori, invece di organizzzarle e organizzarsi per un’efficace battaglia di classe, vengono messe a disposizione come massa utilizzata per un ricambio di governo alla coda e al servizio (involontario certo) delle manovre che centri di potere interni ed internazionali stanno da tempo tessendo per defenestrare il Cavaliere di Arcore.


Intendiamoci bene: impostare una lotta contro il governo Berlusconi è sacrosanto e necessario.

Solo chiediamo: contando su quali forze? sul PD, sui Casini, sui Montezemolo, su quelli dell’Economist e del Financial Times o addirittura come sembra... sul leader della Confindustria? Per “condizionare da sinistra” un nuovo Ulivo o qualcosa di simile? I conti decisamente non tornano e su questa strada la prospettiva c’è in effetti: è quella di finire un’altra volta cornuti e mazziati.

Quanto alla retorica sulla Costituzione, sui Diritti etc., su cui tutti a “sinistra” si scatenano, come è possibile omettere alcune elementari evidenze? In Italia, che è Repubblica democratica costituzionale con tanto di art.1, vigono da anni e anni condizioni di lavoro schiavista. Abbiamo dovuto aspettare Rosarno per “scoprirlo”... e per non fare niente, oltre a tanta retorica a buon mercato, se è vero come è vero che ancora una volta lo sciopero dell’8 ottobre scorso degli immigrati delle zone di

Napoli e Caserta(che lottano per strappare 50 euro per una giornata di 10 e passa ore di lavoro nei campi e nei cantieri) è stato costretto a svolgersi nell’isolamento dai lavoratori bianchi. Abbiamo inoltre vigente e non abrogato l’art. 11, eppure tranquillamente facciamo la guerra in Afghanistan sotto Berlusconi così come abbiamo bombardato la Jugoslavia sotto il governo D’Alema.

E allora, quando la si pianterà con la retorica insulsa sui Diritti eterni, che dovrebbero essere in eterno garantiti dai governi borghesi e non invece difesi e strappati come sottoprodotto di una reale lotta di classe per gli interessi immediati e politici generali del proletariato?

Ma le motivazioni dello smarrimento nel quale ci dibattiamo sono ancora più profonde e non contingenti. Con esse occorre fare i conti.

Non è semplicemente “correggendo” una inetta e bancarottiera direzione sindacale e politica dei tradizionali referenti e fiduciari della classe lavoratrice, i quali altro orizzonte non hanno e non sanno prospettare che quello di “un giusto compromesso”, di una “equa ripartizione” dei sacrifici (orizzonte a cui non va oltre lo stesso vertice della Fiom), che si può sperare di uscire dalle attuali secche. Si possono sostituire dirigenti e vertici, ma, se i fondamenti basilari politici di fondo non vengono ribaltati, il prodotto, alla fine, non cambia.

Nel processo accelerato della crisi vengono al pettine le illusioni maturate precedentemente sullo sviluppo progressivo del capitalismo (della “nostra” nazione, della “nostra” azienda), entro il quale conseguire un altrettanto progressivo miglioramento delle condizioni materiali dei lavoratori ed insieme una estensione della propria influenza nella società. Illusioni che i fatti si stanno incaricando di disperdere, ma che ancora gravano sulla massa dei lavoratori. Lavoratori via via abituati a non contare più sulle proprie forze di classe, soprattutto abituati a pensare ed agire come “classe nazionale”, legata quindi alle buone sorti del proprio capitalismo (della nazione, della azienda), e non invece a sentirsi ed essere un reparto di una classe internazionale, del proletariato internazionale ai cui destini riferirsi. Una classe lavoratrice che è stata deprivata e disarmata del suo scopo, della sua prospettiva storica, che è quella dell’emancipazione dal Capitale, del potere della società nelle sue mani, del socialismo.

Tutto questo si paga. Lo stiamo pagando.

Quel che è peggio è che, nonostante tutto un quadro storico e materiale, cioè un assetto del capitalismo mondiale che sta fragorosamente cadendo senza possibilità di ritorno al “buon tempo andato” dello sviluppo progressivo, si pretende di organizzare una plausibile resistenza all’offensiva padronale attraverso una lotta proprio per... tornare indietro nel tempo. Sentiamo affermare ad esempio da dirigenti Cgil (dell’Ires/Cgil) che bisognerebbe battersi per difendere o ristabilire “il modello europeo di relazioni industriali in cui per varie vie il sindacato ha potuto/saputo condizionare le strategie dell’impresa ed emancipare il lavoro!!! Il lavoro si sarebbe dunque “emancipato” qui in Italia ed in Europa, grazie alle buone-vecchie-care-tradizionali relazioni industriali, e noi non ce ne siamo nemmeno accorti! E dovremmo batterci per tornare indietro a re-emanciparci di nuovo! Altri ancora (R. Fantozzi per Rifondazione Comunista) dice che “la posta in gioco è la distruzione di qualsiasi idea di mediazione sociale” per cui, compagni: lotta dura per il diritto... alla “mediazione sociale”! E sono solo esempi per dire di una mentalità inveterata, ancor prima che di una politica di cui sbarazzarsi al più presto.


Mettiamoci all’altezza dei tempi segnati dalla crisi capitalistica mondiale: lavoriamo per mettere in campo e far pesare sul serio la forza che la massa lavoratrice ha in sé una volta chiamata allo schieramento e alla battaglia per i suoi autonomi ed indipendenti interessi di classe. Riappropriamoci della prospettiva storica che, oggi più che mai, è davanti al Lavoro salariato: l’emancipazione dalla dittatura del profitto, dal capitale. Guardiamo, finalmente, più in là dei confini nazionali dentro cui ogni via d’uscita sembra preclusa. Unifichiamo sul serio l’organizzazione e la lotta con i lavoratori immigrati. Cominciamo a tessere le fila di uno schieramento di classe internazionale che deve saper trovare i suoi militanti, le sue energie, la sua passione ovunque, dall’America alla Cina.

Sono questi i compiti da prendersi in carico in tutte le piazze in cui, dalla Francia alla Spagna, dalla Grecia al Sudafrica, dalla Cina a Panama, dal Bangla Desh alla Romania, i proletari iniziano a rispondere come sia contro i colpi della crisi. Sono questi i compiti che ci stanno di fronte affinché l’avvenire possa essere finalmente conquistato nelle mani del proletariato internazionale e mai più appartenere al capitale, cioè all’oppressione, alla crisi, alla guerra!

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