nucleo comunista internazionalista
interventi




Manifestazione del 4 aprile 2009

PER L’INDIPENDENZA POLITICA
DEL PROLETARIATO
CONTRO LA CRISI DEL CAPITALISMO


Oggi siamo nuovamente in piazza dopo che moltissimi lavoratori hanno scioperato e manifestato in questi mesi con i sindacati di base e con la Cgil.

La crisi del capitalismo avanza e dal piano finanziario e di borsa invade il campo della produzione e del lavoro. Tutti i governi, di qualunque colore politico borghese siano, ne scaricano in vari modi le conseguenze sulla classe lavoratrice. Altre ricette dal loro punto di vista non esistono: il capitale deve schiacciare ancor di più il lavoro salariato perché è da lì che può spremere il valore vero, soprattutto quando finisce in fumo quello fasullo generato dalla speculazione.

Sparge illusioni chi lancia slogan come “salviamo l’Italia”, “mobilitiamo insieme imprenditori e lavoratori”. Perché nella realtà non è data una “soluzione” che salvaguardi il capitalismo, la sua finanza, la sua speculazione (“da riformare”!) e insieme ad essi l’occupazione e il reddito dei lavoratori; meno che meno è data quando le banche crollano e la produzione si inceppa. I lavoratori occidentali hanno potuto migliorare la propria condizione nella fase di affluenza del capitalismo, pagata con le distruzioni e i massacri della seconda guerra mondiale. Da alcuni decenni, però, le conquiste ottenute sono negate alle nuove generazioni, e ora, con la crisi, sfumano per tutti!

Neppure si contrasta l’attacco ai lavoratori lamentando che il governo Berlusconi “non fà abbastanza”, non prende esempio dagli altri governi che invece “si impegnano tempestivamente e a fondo per uscire dalla crisi”, il che determina “un ulteriore svantaggio competitivo dell’Italia rispetto agli altri paesi EU e di tutto il mondo”.

Quali sarebbero i “governi che agiscono tempestivamente”? Quello del “campione del cambiamento” Obama? Un cambiamento che negli Stati Uniti si annuncia con oltre 500.000 posti di lavoro tagliati via ogni mese (nel solo settore auto si sono già persi negli Usa 400.000 posti di lavoro e sono state chiuse 24 fabbriche in Stati Uniti e Canada)! Obama licenzia i manager dell’auto, ma intanto impone ai lavoratori altri tagli occupazionali e contributi per la pensione “pagati” con le azioni di GM e Chrysler (già crollate in borsa)! E che dire dei piani approntati per un rapido dispiegamento della Guardia Nazionale a Detroit (quando si dice “la tempestività” di Obama) se un giorno i proletari licenziati scegliessero la via della lotta contro queste ricette?

Indubbiamente la crisi in atto ha preso il via dal capofila mondiale del capitalismo imperialista, gli Stati Uniti, e dunque, oggi, gli effetti più acuti –in Occidente– si manifestano innanzitutto lì. Nondimeno semina ancora una volta illusioni tra i lavoratori chi, di fronte alla realtà di un capitalismo mondiale che attacca ovunque i lavoratori, preferisce vedere “un ritardo italiano”, vuole distinguere tra governi borghesi “cattivi” (contro i quali chiamare alla mobilitazione) e governi borghesi buoni o “amici” (cui concedere, magari, libertà di manovra e sostegno)!

Se oggi, in questo svolto drammatico di crisi, il fronte padronal–governativo in Italia è forte e coeso come non mai contro il mondo del lavoro (anche perché gode di consensi fin dentro la nostra classe, come hanno dimostrato le recenti elezioni) e se il fronte del lavoro è invece disorientato e segnato dalla divisione politica (prima ancora che da quella sindacale: si pensi al consenso operaio alla Lega Nord) ciò è dovuto proprio alle politiche che “da sinistra” e dal sindacato hanno assolto e dato il via libera ai governi “amici dei lavoratori”. Non è possibile chiamare alla mobilitazione a quinquenni alternati e a senso unico, solo quando al governo c’è Berlusconi e non anche se a soddisfare le richieste confindustriali è il governo di centro–sinistra. Questa politica disperde la forza del proletariato. Prima la smobilita davanti al governo “amico” e poi la richiama in campo contro bersagli che rappresentano solo una parte del problema mentre ne nascondono la radice.

Oggi le compatibilità capitalistiche reclamano che l’intervento dello Stato si concentri al sostegno delle banche e delle imprese (con aggravio enorme del debito pubblico) come unica strada per la possibile ricaduta di effetti positivi per i lavoratori. Quali conseguenze comporta per i lavoratori accettare queste compatibilità del capitalismo in crisi, invece di attrezzarsi a combatterle? Che significa stare in piazza per difendere “la competitività dell’Italia” che il governo metterebbe a rischio? E’ la negazione di ogni solidarietà e unità internazionale tra lavoratori, che oggi invece sono chiamati a difendersi tutti insieme come classe internazionale dall’attacco globale del capitalismo, che non risparmia alcun paese. Senza dimenticare che la crisi, che ora è arrivata qui, è stata per decenni scaricata “lontano da noi”, contro le popolazioni delle periferie, con la rapina e le guerre criminali cui l’Italia ha partecipato anche con i governi “amici” (in Jugoslavia e in Afghanistan). Riflesso di queste guerre ininterrotte è l’onda inarrestabile degli immigrati, sulla cui condizione la crisi si abbatte in modo ancor più drammatico (vedi anche le recentissime aggressioni razziste nella periferia di Roma). Parlare delle guerre esterne non è parlare d’altro rispetto all’assalto che ora dobbiamo attrezzarci a respingere qui all’interno del paese. I capitalisti scatenano la corsa alla competitività anche per annullare il protagonismo politico dei lavoratori; noi abbiamo bisogno di riconoscerci non come concorrenti ma come alleati di un unico fronte internazionale di lotta per riconquistare il nostro protagonismo.

Ma quand’anche si volesse fare spallucce a tutto ciò, la rincorsa della “competitività” resta una micidiale illusione. Cosa farebbero “i concorrenti”, starebbero a guardare o non farebbero altrettanto? Domandiamo: se questo o quell’altro paese o l’intero Occidente trovassero il modo di evitare per sé –magari per qualche tempo– gli effetti più penalizzanti della crisi, se inasprendo il giro di vite e la rapina contro i popoli delle periferie trovassero ancora le risorse per attuare “politiche sociali” sul fronte interno, ciò avverrebbe in un contesto mondiale in cui si ricomponga l’ “armonia” di “una ripresa economica per tutti” o non sarebbe piuttosto il frutto di margini strappati in una contesa che rilancerebbe sempre più in alto la crisi senza alcuna possibilità di evitarne infine il salto dalla competizione commerciale alla guerra? Quale prezzo verrebbe chiesto in cambio ai propri lavoratori dallo Stato che riuscisse ad attrezzarsi per compensare effettivamente i colpi della crisi con una vera politica sociale?

Senza preoccuparsi delle disastrose esperienze passate, “da sinistra” si reclama apertamente l’aiuto e l’intervento dello Stato per “un nuovo new deal” che prenda in carico l’intero sistema del capitale varando al tempo stesso misure per i lavoratori. Ai quali si chiede di scendere in piazza non contro il capitalismo e il suo baluardo statuale (come in vari paesi del mondo la massa proletaria inizia necessariamente a fare, dalla Grecia, alla lontana Martinica, alla Francia, a diversi paesi dell’Est, all’Irlanda, etc.), ma per “un nuovo new deal”, cioè per un capitalismo “progressista”, per uno Stato che con le sue “politiche sociali” risolva i problemi dei lavoratori. E’ la peggiore delle illusioni. Essa nasconde che i maestri dell’interventismo sociale dello Stato a difesa del capitalismo sono stati Mussolini e Hitler e che tutti essi, sia gli statalisti autoritari “cattivi” e sia quelli democratici e “progressisti” –europei e d’oltre/atlantico– “buoni”, negli infami anni 30 (altro che “trenta gloriosi”!) poterono con queste politiche legare i lavoratori al carro, alle sorti, alla competizione del proprio capitalismo nazionale e in tal modo condurli al macello della guerra mondiale, unica vera soluzione che il capitalismo conosca alla sua propria crisi!

I lavoratori sono chiamati alla lotta contro l’attacco del governo Berlusconi e di Confindustria e –per poterli combattere veramente– a respingere insieme le contro–soluzioni “progressiste” già rivelatesi fallimentari. Soprattutto sono chiamati a combattere sin d’ora ogni prospettiva di inquadramento e intruppamento nazionale della classe lavoratrice, cui mirano gli uni e gli altri. Sono chiamati a riconquistare il proprio coraggio, la fiducia nella propria forza, la fierezza e lo spirito d’indipendenza della propria classe contro il capitalismo e il suo Stato, per il socialismo.

LEGGETE IL NOSTRO OPUSCOLO SULLA CRISI CAPITALISTICA E CONTRO LE POLITICHE, SUICIDE PER IL PROLETARIATO, CHE RECLAMANO “DA SINISTRA” “UN NUOVO NEW DEAL”

NUCLEO COMUNISTA INTERNAZIONALISTA