nucleo comunista internazionalista
interventi



Sciopero generale dei sindacati di base

Lo sciopero generale del 9 novembre indetto dai sindacati di base contro il protocollo sul welfare e la legge finanziaria del governo Prodi ha avuto una buona riuscita.

Il risultato positivo di una giornata di lotta partecipata da moltissimi lavoratori non era affatto scontato. Non sempre negli anni passati gli scioperi del sindacalismo autorganizzato hanno avuto la stessa valenza, riuscendo in genere a coinvolgere solo piccole minoranze di lavoratori più avanzati e di compagni.

La giornata del 9 ci conferma che lo sciopero del sindacalismo di base sta acquistando una certa forza, sia pur relativa, soprattutto per il segnale di richiamo che esso lancia verso la massa più ampia dei lavoratori. Lo abbiamo visto in particolare in questi anni di governo Prodi, nei quali i vertici di Cgil-Cisl-Uil stanno tenendo bordone all’esecutivo di centro-sinistra, mentre profondono cloroformio alla massa operaia per disporla ad accettare quanto è stato motivo di opposizione e mobilitazione contro il governo di centro-destra.

Noi non ci sogniamo di dire che lo sciopero del 9 abbia bloccato la macchina produttiva del paese né tanto meno l’industria (eccezioni a parte). Ma una cosa è certa: quand’anche parziale e a macchia di leopardo, si è trattato comunque di un sciopero vero. Uno sciopero partecipato nei trasporti e nei servizi delle grandi città. Che ha coinvolto in generale moltissimi lavoratori e proletari del settore pubblico, dove molti servizi sono gestiti in appalto e subappalto a ditte e cooperative private (si pensi alle mense scolastiche) i cui lavoratori erano presenti in piazza con i loro striscioni. Così come erano in piazza gli striscioni di lavoratori precari di diverse realtà del settore pubblico e privato, dagli ospedali ai call center. Una manifestazione, quella romana, poco partecipata da realtà lavorative dell’industria, ma comunque capace di richiamare la partecipazione da alcune grandi fabbriche metalmeccaniche (così dalla Fiat di Cassino) e dalla provincia. Con vari spezzoni, inoltre, di lavoratori immigrati e una significativa partecipazione di giovani studenti medi e universitari.

Il 9 novembre è stato avvertito da tutti (anche dai lavoratori che fanno riferimento ai sindacati tradizionali e anche da chi osteggia in generale le mobilitazioni dei lavoratori) come uno sciopero magari limitato ma reale, come una giornata di protesta di una parte di lavoratori contro il governo Prodi, con la quale in ogni caso era d’obbligo fare i conti, perché si sapeva -e poi lo si è visto- che la protesta non sarebbe stata né marginale né invisibile.

Gli stessi vertici di Cgil-Cisl-Uil intuivano che l’insoddisfazione dei lavoratori per le politiche del governo Prodi avrebbe potuto mettere le ali allo sciopero dei sindacati di base, soprattutto nei settori del loro primo e tradizionale insediamento ovvero nel pubblico impiego e nella scuola. Proprio per questo le direzioni di Cgil-Cisl-Uil, dopo la firma degli accordi del 23 luglio e la complessiva gestione del referendum a sostegno del governo Prodi e dei protocolli sottoscritti, hanno chiamato allo sciopero pochi giorni prima del 9 novembre prima il pubblico impiego e poi la scuola. Esse hanno bensì dato il via libera alla finanziaria dell’anno scorso e a quella ora in discussione, ma, auto-contraddicendosi, sono state costrette a prendere l’iniziativa perché i soldi del famoso rinnovo contrattuale del pubblico impiego ancora non si vedono e perché, pur dopo la manifestazione del 20 ottobre, il governo, in linea con i protocolli del 23 luglio, punta a prorogare all’infinito la condizione di centinaia di migliaia di precari delle pubbliche amministrazioni.

Lo sciopero, lo si è detto, è stato parziale. Ciò non toglie, però, che i lavoratori coinvolti fossero lavoratori e proletari in carne e ossa e soprattutto in lotta contro la politica del governo Prodi.

E dunque il dato reale di questa caratterizzazione parziale non giustifica gli atteggiamenti di chi, sbagliando completamente la mira, liquidi in generale gli scioperi dei sindacati di base -e se non basta anche iniziative di più ampio coinvolgimento- come mobilitazioni marginali, circoscritte ad ambiti di milieu politico o comunque a lavoratori del pubblico impiego che in quanto tali sarebbero molto lontani dalla vera massa proletaria e dal suo effettivo senso di classe.

E’ vero che spesso i sindacati di base esprimono una visione ristretta, quando non corporativa, propria dei lavoratori che organizzano e rappresentano (si pensi in particolare alla scuola). Ancora è indubbio che i comunisti nulla concedono a questa esiziale ristrettezza affinché essa possa essere superata in avanti, perché possa vedersi che la radice dei propri problemi è la stessa dei problemi che attanagliano l’insieme della classe lavoratrice, che non esistono scorciatoie e soluzioni “a parte” e “specifiche” per sé, ma solo una difesa e una tenuta generale del mondo del lavoro grazie all’unificazione della forza e delle lotte attorno al suo asse centrale che è la classe operaia dell’industria.

Ma declinerebbe pericolosamente verso lo zero (ovvero verso la sfiducia e verso lo svilimento della propria partecipazione alle stesse lotte riconosciute come “proletarie doc”) il senso di classe di chi muovesse da questo dato per liquidare banalmente i tentativi messi in campo da queste forze sindacali e da quanti lavoratori con esse si organizzano, invece che prenderne in carico la positiva spinta di lotta contro il governo Prodi e contro il padronato, per contribuire a superare parzialità e limiti sempre presenti in ogni mobilitazione.

Nei ragionamenti e negli umori della piazza del 9 novembre, venivano visti in contrapposizione lo sciopero del sindacalismo di base e la manifestazione del 20 ottobre indetta da Manifesto, Liberazione e Carta e supportata (in parte) dalla cosiddetta “sinistra radicale” che sta al governo. E infatti nella piazza del 9, convocata su basi programmatiche più avanzate e innanzitutto svincolate dal ricatto del governo “amico” di centro-sinistra, c’erano quelle forze che non hanno partecipato al 20 ottobre (a nostro avviso sbagliando), dichiarando di non voler fare la foglia di fico di una manifestazione convocata su una piattaforma dichiaratamente pro-governativa.

Anche chi tra questi compagni ha stabilito una corretta linea di continuità tra la vittoria del NO al referendum sui protocolli in alcune significative realtà lavorative, le manifestazioni autorganizzate degli immigrati del 27 e 28 ottobre (di cui pure riferiamo sul nostro sito) e lo sciopero del sindacalismo di base, vede invece la piazza romana del 20 ottobre “in contrapposizione ad una vera lotta contro la precarietà”.

Ora è giusto denunciare la manovra dei promotori del 20 ottobre che tende a canalizzare il dissenso entro il quadro politico dato in via di ulteriore spostamento a destra, e punta a prevenire ed evitare che l’iniziativa dei lavoratori maturi passaggi di rottura verso una ripresa di indipendenza politica della classe. Ed è giusto denunciare il pericolo di imbrigliamento della capacità di difesa e di lotta dei lavoratori entro le secche istituzionali e i vincoli che derivano dal ricatto di un governo “meno peggio” che sarebbe in qualche modo condizionato “da sinistra”. Ma, nondimeno, ci sembra insufficiente rilevare che nel “popolo della sinistra del 20 ottobre” c’è scarsa consapevolezza di tutto ciò, per volgere sostanzialmente le spalle a quella piazza e guardare altrove.

Noi che siamo intervenuti nella piazza del 20 ottobre (così come abbiamo partecipato a quella del 9 novembre) non vi abbiamo visto soltanto la piattaforma di convocazione e i programmi ben noti delle forze che l’hanno promossa. Vi abbiamo visto anche una coincidenza non perfetta tra la piattaforma dei promotori e il significato reale assunto dalla piazza.

I “consapevoli” bene avrebbero fatto a dedicare un’attenzione e un intervento significativi verso gli “inconsapevoli”, per raccogliere e valorizzare la premessa data di un percorso della piazza del 20 potenzialmente diverso da quello delimitato dai suoi organizzatori.

E’ quanto abbiamo scritto nel nostro commento alla manifestazione del 20 ottobre, cui rimandiamo. Limitandoci qui a ricordare che la rottura tra masse in lotta e direzioni riformiste si dà necessariamente nel corso della lotta, alla quale non mancheranno mai, se non alla fine del percorso e in prossimità della rottura stessa, direzioni non nostre che puntino a dirigerla per svilirla e deviarla.

Anche perché aspetto decisivo della rottura è proprio la partecipazione della massa, la mobilitazione dell’insieme della classe e l’unificazione di tutte le sue forze che le consentano di “rovesciare il tavolo e imporre nuove regole del gioco”. Il fatto che il 20 ottobre si fosse così tanti, senza deleghe in bianco assolute a chi ripropone la via del manovriamo istituzionale, è andato abbastanza oltre la “prescrizione” degli organizzatori che puntava a mettere in scena la lamentosa richiesta al governo “amico” perché conceda infine qualcosa, e ha colorato piuttosto la piazza di un altro significato: siamo qui in tanti e vogliamo far pesare la nostra presenza di massa.

Si tratta soltanto della potenzialità (in genere sempre data, soprattutto se è teso l’arco del disagio dei lavoratori) di un inizio di un percorso, peraltro estremamente arduo e accidentato. L’insofferenza dal basso ha iniziato a tradursi il 20 ottobre in presenza di massa in piazza e questa presenza di massa ha a sua volta necessità di tradursi in auto-organizzazione a tutti i livelli.

In tal senso, a differenza di quanti, vittime a nostro modesto avviso di una visione ristretta e di un’ansia auto-referenziale, voltano le spalle alla massa del 20 ottobre perché tuttora attardata dietro direzioni “ingraiane”, noi, che abbiamo criticato la piattaforma del 20 ottobre nel volantone distribuito ai manifestanti, vediamo tutti questi passaggi di mobilitazione e di piazza, del tutto a prescindere dalla caratura politica di chi li abbia convocati, come un unico vitale serbatoio di forze da unificare e di cui favorire gli ulteriori passaggi in avanti.

Il movimento di classe è uno solo, anche se procede inizialmente e per lungo tratto del percorso per ranghi paralleli, talvolta tra loro scarsamente comunicanti e separati quando non addirittura ostili (si pensi alla concorrenza e contrapposizione che viene continuamente alimentata tra lavoratori italiani e immigrati). L’unificazione non calerà dal cielo della spontaneità del movimento e spetta ai comunisti “consapevoli” lavorare concretamente perché essa possa darsi, perché il proletariato possa costituirsi -non senza essersi ri-dato il proprio partito- in un unico potente movimento di lotta, in una sola classe, in un solo soggetto politico. Oggi le sue forze, sparse e disorientate ma in nessun caso indefinitamente spente, stanno tanto nella piazza del 9 novembre che in quella del 20 ottobre, stanno nelle piazze degli immigrati, nei No al referendum, negli scioperi dei metalmeccanici e di altre categorie per il rinnovo del contratto, nella manifestazione di Genova. Queste forze stanno anche in quanti lavoratori e proletari sono in generale più attardati nel prendere in carico con decisione la necessità di non delegare nulla e di mobilitarsi subito in prima persona e dunque stanno in quanti hanno votato SI al referendum, non certo perché vedono risolti i propri problemi. Stanno infine in quanti lavoratori e proletari non da ieri, di fronte alla desolazione della cosiddetta “sinistra”, hanno iniziato a cercare altrove e a destra una via d’uscita ai propri problemi.

Lo sciopero del 9 è portatore di una piattaforma più avanzata, che non tace i temi dell’aumento delle spese militari e della guerra. È inoltre portatore della decisiva spinta all’autorganizzazione, che per noi non significa necessariamente costituire il sindacato di base ove ne difettino le condizioni e le premesse utili, sì invece assumere e organizzare il protagonismo diretto dei lavoratori ovunque, anche dentro le organizzazioni tradizionali nelle quali sia presente e organizzata la parte più ampia e combattiva dei lavoratori.

I fattori di avanzamento conquistati dal sindacalismo di base non devono divenire motivo di separazione dalla massa “inconsapevole”. Al contrario devono essere portati e fatti vivere nella massa attraverso la più accorta politica fronteunitaria tra e verso l’insieme dei lavoratori, in grado di dare battaglia nel modo più efficace alle direzioni sindacali compromesse con il rispetto delle compatibilità del capitalismo.

Qualcosa del genere ci sembra sia accaduto presso la società di handling Flight Care che opera negli aeroporti di Fiumicino e Ciampino dove il 9 novembre insieme ai sindacati di base hanno scioperato anche le rappresentanze aziendali di Cgil-Cisl-Uil. Non ce ne frega niente dell’ammucchiata di sigle né ci commuove l’abbraccio fraterno tra esse. Ci interessa che per vincere è necessaria la mobilitazione unitaria di tutti i lavoratori non solo alla Flight Care ma ovunque.

18 novembre 2007