Il resoconto di cronaca sulla manifestazione del 20 ottobre sarà già noto a tutti, sia attraverso i giornali che le immagini in diretta de La 7. Ne riprenderemo di nostro quel tanto che ci serve per svolgere un nostro discorso in merito, che, ovviamente, non ha carattere cronachistico, ma di riflessione e prospettiva politiche, e diciamo pure essenzialmente teorica.
Si è trattato, innanzitutto, di una manifestazione imponente per numero dei partecipanti e, all’interno di questo dato numerico, estremamente significativa per una massiccia partecipazione di lavoratori veri, un po’ di tutte le categorie (dai metalmeccanici al precariato ed anche con una certa presenza di immigrati, per quanto largamente ridotta rispetto a quella che rispose il 4 novembre 2006 all’appello della FIOM), e largamente giovane. La previsione della Brambilla su una sfilata di anziani pensionati o pensionanti è andata buca. Quest’errore di previsione della destra è speculare a quello di una certa sinistra “estremissima”: si faceva il calcolo delle probabilità sulla base della sola automobilitazione dello spompato quadro politico militante del PCDI o del PRC (che, nella manifestazione, ci è sembrato ancor più afflosciato) e non sulla risposta di base che, in qualche misura, accoglie i temi rivendicativi evocati (e, purtroppo, li accoglie da questi soggetti, faute de mieux), ma, in una certa misura, per sé ed indipendentemente –soprattutto in linea tendenziale– rispetto al manovrismo filo-governativo dei direttori d’orchestra. Da qui una presenza inattesa, per molti, dei cosiddetti “invisibili”, giovani precari dispersi e disorganizzati, bersaglio primario di una politica di padroni e governo da almeno due decenni concertata con le direzioni sindacali che, nella loro semi-difesa dei “diritti acquisiti” di chi “c’è già dentro”, hanno scaricato sulle nuove generazioni i costi imposti da chi mena le danze della competitività; questi giovani colpiti ed “assenti” (tanto che fino all’altro ieri li si poteva colpire e, al tempo stesso, descrivere come “bamboccioni”, poco bravi e per questo precari –vedi Sacconi!–, o ancora consenzienti con un sistema meritocratico e “libero” ad essi gradito: precario è bello!). Ed, insieme ad essi, molti lavoratori a schiavitù salariale indeterminata che denunciano le proprie condizioni di difficoltà e che, quand’anche non colpiti dalla precarietà contrattuale, non voltano le spalle al problema, non fanno finta di non saperne niente –come sino a qualche tempo fa– ed, anzi, lo denunziano come condizione che pesa sull’insieme della classe.
Questo dato, assolutamente non scontato per molti all’inizio della mobilitazione per essa, ci fa largamente piacere. Come mai?, si dirà, viste le nostre acerbe critiche all’impostazione ad essa data dagli organizzatori. Proprio qui sta un primo punto da chiarire, soprattutto rispetto a coloro che (a nostro avviso sbagliando, come diciamo nel volantone da noi distribuito), hanno scelto di disertarla in quanto “foglia di fico pro-governativa”. Crediamo di aver appreso da tempo dal marxismo a distinguere nettamente le aspettative e le richieste delle masse da quelle delle “loro”direzioni, pur senza tirarla nel senso di una astratta contrapposizione tra massa “pura”, e di per sé comunista (mai esistita od esistibile sotto questo aspetto), e direzioni capitolarde e traditrici che basterebbe (dio sa come!) “sostituire”. La rottura tra masse in lotta e tali direzioni si dà sempre nel corso della lotta stessa, che, di regola, sono sempre direzioni non nostre a cercare di dirigere, per cavalcarle e sviarle, ed anche o persino ad “organizzare” nel necessario tentativo di dar voce all’esigenza di essa onde poter svolgere il proprio ruolo di agenti borghesi in seno alla classe operaia (Lenin). Vedere solo la “crosta” delle direzioni (provvisorie) borghesi e non il magma esplosivo di classe che ci sta sotto (su questo disse bene Trotzkij) non porta molto lontano: porta alla separazione non da tali direzioni, se non da un punto di vista”principiata” infantile, ma dalla classe.
Certamente, se, in luogo di questa manifestazione, se ne fosse potuta fare un’altra realmente alternativa e di massa nel senso di una decisa rottura con l’equivoco dei “nostri segnali al governo”, ci saremmo decisamente schierati per essa. Ma, anche in questo caso, non separandola o contrapponendola a quella quota di massa attardata su posizioni confuse, conciliatrici. E certamente saremo, come abbiamo detto, a fianco di ogni e qualsiasi lotta che si ponga intenzionalmente su questo terreno (ed abbiamo chiamato i partecipanti al 20 ottobre a fare altrettanto), quale si preannunzia quella dello “sciopero autoorganizzato” del 9 novembre, che si pone su basi programmatiche più avanzate, non preventivamente ricattabili dagli SOS di Prodi; ma sempre in chiave fronteunitaria. Diremo anche molto di più: al di là di questi due schieramenti, resta una larga fetta, ultramaggioritaria al momento, di lavoratori che non trascuriamo ed ai quali ci rivolgiamo e chiamiamo tutti a rivolgersi: la massa degli illusi che hanno sottoscritto il referendum sindacale od anche si apprestano a sottoscrivere... Veltroni, quando non di peggio (se mai possibile), ma che, al pari di tutti gli altri lavoratori che già si muovono più in avanti, soffrono dei problemi comuni che ci attanagliano, che non sono degli eterni pacificati col sistema, ma saranno costretti, essi stessi, a muoversi contro di esso in ragione dei propri interessi di classe. Resta integralmente valida, per noi, l’impostazione comunista del problema fronteunitario.
Chi ha convocato la manifestazione non ha avuto tema di dichiarare apertamente il perché e lo scopo di essa. Il perché: la crescente insoddisfazione di massa per misure governative in nessun modo venute incontro alle (ingenue) aspettative di una risposta ai propri bisogni di classe. Lo scopo: offrire ad essa uno sfogatoio per farla rientrare nella logica di un ri-accorporamento col “centro-sinistra” (ed anche, con pari ingenuità, forse, da parte di alcuni, nel tentativo di strappare effettivamente qualcosa in più dal governo “amico” pressato dalla piazza: non si tratta solo di una bieca manovra illusionistica a risultati pregiudizialmente zero, ma di un tentativo perfettamente (sotto)riformista di conseguire dei risultati reali facendo “pesare” la classe “rappresentata” entro i limiti compatibili col sistema). Ma quando entra in campo sul serio la massa il gioco può sfuggire di mano. Accadde, in Russia, al movimento guidato dal pope Gapon; accadrà, e già si sta preannunciando, con gli attuali sotto-pope della “sinistra radicale”.
Il sentimento della piazza non si è ancora concretamente manifestato come rottura di fondo con l’indirizzo delle direzioni di essa, ma il semplice fatto di essere in tanti per le proprie ragioni ha “colorito” la manifestazione in modo “leggermente” diverso da quelle “prescritte”. “Chiedere” al governo “amico” qualcosa con la mano tesa per l’elemosina è un conto; far pesare la propria presenza di massa per dire “ci siamo”, vogliamo pesare, è un altro. Noi non intendiamo enfatizzare oltre misura questo secondo aspetto, che abbiamo rilevato nella manifestazione, ma ne vediamo i prodromi. Bene il “segnale” al governo (questo era il sentimento della massa), ma di che segnale deve trattarsi? In più di qualche settore è affiorata la consapevolezza che non si tratta di rilasciare “deleghe in bianco”, che il segnale riposa su una mobilitazione concreta non decisa ad arrendersi ai giochi della Realpolitik governativa sempre più fragile e franante di suo, che si tratta di una pressione di classe che intende farsi valere. Ciò potrebbe essere l’inizio di un percorso diverso. Come abbiamo ribadito nel nostro volantone, la classe può imporre realmente delle proprie esigenze, sia di fronte a governi di “centro-sinistra” che di destra, se riesce a mettere in campo una propria forza rivendicativa (siamo lontani dalla “rivoluzione”, ma è un passo verso di essa), non pietendo, ma imponendo, per l’appunto. E’ significativo, a questo proposito, il passaggio di un’intervista comparsa sul Manifesto del 21 ad un ragazzo con la bandiera Filcams-CGIL, interprete di un sentimento ed un bisogno abbastanza avvertibile nella manifestazione: “Stiamo smettendo di pensare che qualcuno ci regali qualcosa, bisogna smetterla di piangerci addosso, perché nessuno ci aiuta”(se non ci aiutiamo da noi, n.n.). Se hai qualcosa da pretendere, devi muoverti in prima persona”, devi muoverti come classe e per la classe, in modo indipendente ed antagonista rispetto ad ogni e qualsiasi governo. La conseguenza del ragionamento ce l’abbiamo messa noi, ma essa sta alla base di questa splendida dichiarazione.
Il percorso verso questa consapevolezza è estremamente arduo ed accidentato. Se c’è una (facile) previsione che si può fare per il futuro, è che la famosa “sinistra radicale” che si appresta a costituirsi come semplice “sinistra” (compresi nel mucchio quelli che hanno disertato il 20 ottobre –da Mussi a... Pecoraro Scanio (che non sapevamo neppure essere “di sinistra”, ma tant’è), sarà licenziata dal governo attuale in caduta libera e non rientrerà affatto nell’ordine dei nuovi organigrammi di una “sinistra riformista” veltroniana a misura di Marchionne. Quando essa sarà, come si merita, messa nell’angolo, dopo aver efficacemente svolto il suo ruolo cloroformizzante per la classe, non c’è dubbio che assisteremo ad una messinscena “classista pura”. Solo che PRC, PDCI e soci, non si potranno schiodare da una prospettiva di “opposizione” di lotta e di governo per “ripristinare” le condizioni di una rinnovata compagine di governo “amica” dei lavoratori. Giammai una prospettiva di attacco rivoluzionario al sistema. Una “opposizione estrema” al quadro politico dato per... rientrarci a pieno titolo. Che dirà, allora, il ragazzo di cui sopra, e con lui i tanti che sentono lo stesso problema da lui espresso?
Oggi ci si può illudere di concorrere a salvare, e condizionare assieme, il governo Prodi, se non proprio “amico” perlomeno “non ostile” alle esigenze della classe mettendo in campo la propria presenza in modo attivo. Il dopo–Prodi renderà più arduo il gioco dello sfruttamento di tale presenza per piegarlo a giochi parlamentaristici di “coalizione variopinta”, “plurale”, perché PD, Sindacato di Epifani, grandi poteri del capitale pronti a promuovere un “nuovo centro-sinistra” (ciascuno da un suo ruolo diversificato e non omologabile) si porranno come compito a tal fine quello di tagliare preventivamente i condizionamenti dei “rami secchi” della cosiddetta “sinistra radicale” che ne incepperebbero i disegni di vera riforma (forcaiola) del sistema complessivo. Grazie, dunque, a questa “sinistra” per quel che essa ha dato di positivo nella fase precedente –una buona dose di cloroformio alla classe!–, ma adesso basta. Per chi veramente fosse preso allo spasimo dall’unica certezza “concreta” su cui muoversi, quella antiberlusconiana (il fronte dei contro), valga questa indicazione: se davvero volessimo evitare il ritorno di Berlusconi od anche inediti seguiti in peggio seguendo questa logica “realista”, non ci resterebbe che impostare la faccenda su un blocco di forze più “moderato”, cioè forcaiolo, con un esecutivo decisionista e libero da ipoteche “massimaliste”; solo a questo patto si può ipotizzare, infatti, un deciso appoggio al neo-“centro-poco sinistro” da parte dei poteri che contano. I “realisti” sono avvertiti. Sarà ben difficile, nella fase che si prepara, riproporre l’attuale pizza capricciosa a base di un tot di Bertinotti ed un tot di Mastella o Di Pietro per condire la pasta (avvelenata). Anche nell’ipotesi di un ritorno di Berlusconi in grado di ridar fiato a lotte di massa strumentalmente rimesse in campo per mutare la situazione “dal basso”, non ci pare pensabile che ciò possa servire a ricucire i vecchi panni ristabilendo il legame tra moderati e “massimalisti” dell’Unione. Potrebbe, anzi, anche darsi, in linea teorica astratta, che proprio questo “rilancio della lotta” finisca per dare ulteriore slancio alle tendenze di fondo più moderate, che, in ogni caso, si guarderanno bene dall’”estremizzare” oltre misura le “spinte dal basso” di cui intendono tener ferme le redini nelle proprie mani. Più che mai s’imporrebbero, nella lotta contro il neo governo di destra, una piattaforma rivendicativa ed un programma politico capaci di fare i conti a fondo con l’”antiberlusconismo” moderato, istituzionale ed il suo gioco di concorrenza con l’avversario nella gestione del potere su basi fondamentalmente condivise con esso (salvo diverse modalità di attuazione, diversi dosaggi... di sacrifici tra le diverse “parti sociali” in un quadro generale comunque immutato, e salve tutte le chiacchiere su “pulizia”, “non incompatibilità di interessi” e balle varie).
Con la sua solita intelligenza (gliene diamo facilmente atto), la Rossanda ha posto un problema cruciale: non basta protestare, non basta scendere in piazza, ma occorre concretizzare tutto ciò in un preciso programma rivendicativo autonomo. Benissimo. Il problema, però, è che tale programma non costituisce una sorta di artificio tecnico, ma si collega ed è indissociabile da un preciso programma politico ai attacco comunista al capitale. Ossia: il grimaldello rivendicativo può diventare qualcosa di unificante e concreto solo a patto di riferirsi realmente all’antagonismo di classe, che riguarda non solo e non tanto il rapporto coi “padroni”, ma con tutto l’apparato politico e statale di cui esso è espressione. Questo è il solo “realismo concreto” che conosciamo. E ad esso precisamente si oppone tutta la melma dell’attuale “Sinistra”, oggi divisa in più rivoli e domani, forse, molto forse, unificabile per “pesare qualcosa”, salvo che rinunziando a priori a pesare come forza di rottura rispetto al sistema attuale.
Perciò i segnali di
insofferenza dal basso che cominciano a tradursi in presenza di massa
nelle piazze devono cominciare a tradursi in autoorganizzazione
a tutti i livelli, riprendendo il filo di un proprio programma politico
anticapitalista. Ce la faranno? Ce la faremo? Al di là di tutti i pesi
morti che incombono su di noi (una tradizione “riformista” soporifera
entrata sin nelle ossa della classe, il venir meno di un tessuto
collettivo di incontro tra i “soggetti” in questione per organizzarsi etc.),
è lo stesso decorso obbligato del capitalismo mondiale globalizzato
a darci una mano: voi, cari signori!, per mandare avanti la vostra baracca
che fa acqua da tutte le parti siete costretti a bastonare sempre di più
la nostra classe. Ma, attenti!, anche il cane più paziente alla fine può
mordere. Il “problema Italia” (tuttora sentito dai più come separato)
s’inscrive entro un quadro mondiale di sommovimenti enormi in cui
si sta assistendo ai primi segni ultratangibili di un’eruzione
antagonista di classe. Lo sbocco capitalista va inevitabilmente nel
senso di una “soluzione” del problema che comporta il rischio (o
l’opportunità, vedi Bush) di una terza guerra mondiale “regolatrice”. La
percezione di ciò, nella massa presente a Roma, è tuttora infima
(vedi la sordina sui temi della guerra infinita), ma crescentemente essa
dovrà fare i conti con essa. Non si possono difendere gli “stabili”
astraendo dai precari; non si possono difendere i “nostri” lavoratori
astraendo da tutti gli altri sotto l’inesorabile knut imperialista.
Questo il tema cui la manifestazione di Roma ha portato, come che
sia, un suo primo apporto. Alle ridotte minoranze comuniste
presenti spetta il compito di portarlo avanti, superando in avanti anche
le ragioni delle divisioni al proprio interno, frutto non di “personalismi
settari”, ma di una generale immaturità del movimento e del
“partito” che dovrà essere(e lo sarà!) colmata.
25 ottobre 2007