Circa due anni fa, a gennaio 2006, una ripresa di iniziativa da parte di associazioni femminili e di donne contro gli attacchi congiunti del governo Berlusconi e della Chiesa alla legge 194 sfociò nella manifestazione di massa di Milano.
Purtroppo quella spinta si esaurì presto: subito prese il sopravvento la scelta suicida di smobilitare la piazza per affidare le proprie istanze (debitamente ridimensionate) ai candidati delle liste elettorali del centro sinistra. Una ripresa di partecipazione e di lotta che dunque finì per svilirsi di fronte alla prospettiva dell’avvento del governo Prodi.
Di lì a breve le aspettative dei lavoratori, dei giovani e delle donne verso il nuovo governo cominciarono a conoscere evidenti smentite e in questo autunno le piazze si sono riempite del disagio di lavoratori e sfruttati e della volontà, sia pur non travolgente, di scendere in campo per manifestare contro le politiche sociali del governo di centro sinistra.
Non è un caso se, in questo contesto, messa da parte la delega al governo Prodi che già ne aveva azzerato la spinta, alcune associazioni di donne hanno ripreso l’iniziativa diretta, in particolare contro la violenza sulle donne.
Ciò che ha rimesso in moto la discussione e la mobilitazione non sono state soltanto le statistiche allarmanti sulla violenza contro le donne e in particolare quelle che scoppiano tra le mura domestiche ad opera di mariti, padri, compagni o ex fidanzati, quanto il fatto che a fronte di questa allucinante realtà, dopo l’assassinio di Giovanna Reggiani compiuto da un rom rumeno, è partita una campagna politica e di stampa nella quale la violenza contro le donne è stata ridotta al fatto degli immigrati che le aggrediscono per strada, dove i violenti contro le donne sono identificati con gli stranieri, dove lo stato e tutte le forze politiche di governo e di opposizione si ergono a difensori delle donne e in loro nome lanciano campagne razziste di repressione, con tanto di ronde padane e squadre fasciste che chiamano gli italiani a difendere le “proprie” donne.
Non a torto le associazioni di donne denunciano in questa campagna la mistificazione e l’occultamento dell’oppressione di genere e scendono in piazza per dire che “la violenza comincia in famiglia”. Se con questa campagna si è puntato a rilanciare in generale l’allarme di un pericolo che viene dall’esterno, dallo straniero, dagli immigrati, dai rom, dai rumeni, la manifestazione ha avuto la capacità di reagire a tutto ciò e di dire che il “nemico” è nelle nostre case, che la famiglia - cellula base di questa società - lungi dall’essere il rifugio di armonia e sicurezza delle pubblicità è il primo luogo dell’antagonismo tra i sessi e delle contraddizioni ed oppressioni che produce la società borghese.
Coerentemente le promotrici hanno respinto l’adesione e la partecipazione di tutte le forze politiche e di singole donne che avevano dato l’adesione al Family Day. Come anche hanno negato il palco e la rappresentanza della manifestazione ai partiti di centro sinistra che hanno votato il pacchetto sicurezza. Hanno mostrato prontezza nell’invitare le donne esponenti di partiti e forze del centro destra ad allontanarsi dalla piazza dove doveva entrare la manifestazione ed hanno contestato la manovra del trio Turco, Pollastrini e Melandri che volevano parlare a nome della manifestazione dagli schermi televisivi.
Anche in questo modo il corteo del 24 ha voluto denunciare che nessuna politica repressiva e razzista può legittimarsi con il pretesto di contrastare la violenza contro le donne per ... “proteggerle”. Al contrario, come si legge in uno dei comunicati di adesione alla manifestazione, “va rafforzata l’alleanza tra donne italiane ed immigrate contro i comuni nemici che ci vogliono mettere una contro l’altra in nome di una “razza” da difendere”.
Senza nasconderci, peraltro, che, a parte qualche apprezzabile ma tuttora isolato riferimento, il richiamo alla partecipazione delle donne immigrate è risultato debole, non adoperandosi di fatto per creare un effettivo ponte di collegamento e di lotta con le donne immigrate, presenti in piazza in piccolo numero. Così come è mancata in generale in questo primo passo una visione e proiezione internazionale della battaglia, cui si deve tendere proprio a partire dalla costruzione di un fronte comune di lotta con le donne immigrate.
Una partecipazione che ha visto in campo molte generazioni, con una buona presenza di giovani donne che hanno portato in piazza la loro rabbia e una certa - sia pur confusa - radicalità (compresa la scelta discutibile di non fare il comizio finale per non vederlo consegnato alle forze politiche di governo). Ciò a dispetto di chi riteneva di trovare in piazza solo le vetero femministe degli anni settanta o di chi, usando lenti deformate, liquida frettolosamente una partecipazione di massa non priva di elementi e potenzialità da sviluppare in avanti.
Nelle assemblee preparatorie la
decisione di una manifestazione di sole donne ha raccolto un ampio consenso, al
di là delle formazioni pregiudizialmente femministe/separatiste. In questo si è
voluto rimarcare che la violenza viene dagli uomini, che chi le opprime sono
uomini e padri di famiglia italiani. Secondariamente che la violenza contro le
donne non conosce confini di nazionalità, vigendo dovunque il patriarcato (e
-aggiungiamo noi- il capitalismo). Infine, soprattutto, che le donne non
intendono delegare a nessuno la risposta, che la questione deve essere
affrontata dalle donne in prima persona.
Un separatismo assunto per dire all’oppressore di sesso maschile ed al sistema patriarcale: siete voi a volerci sottomesse, ma dovete fare i conti con la rabbia e la lotta delle donne. Per dire: “per un giorno almeno riprendiamoci le piazze e le strade, l’azione diretta”.
Inoltre questa scelta ha puntato a svincolarsi da qualsiasi tentativo dei partiti del centro sinistra di “cavalcare” la manifestazione. In questo senso il rifiuto di concedere la delega e la piazza ai partiti - e relative rappresentanti femminili - che stanno al governo (come anche di tenere fuori i partiti del centro destra). Il ragionamento rimbalzato nelle discussioni sostiene che non servono leggi repressive, che le istituzioni non offrono soluzioni al problema (anzi sono responsabili delle politiche che mantengono la subordinazione delle donne). L’aspettativa è quella di un cambiamento culturale che consenta lo sviluppo di una diversa relazione tra i sessi.
In che cosa consiste il
cambiamento culturale? E’ forse la cultura un elemento staccato, che può essere
cambiato a prescindere da tutto il resto?
Alle donne non è bastato andare a lavorare fuori casa per far cadere i vari aspetti della loro oppressione, perché - anche nei paesi capitalisticamente più avanzati - rimangono schiave della casa, esseri umani socialmente inferiori, oggetti sessuali.
Un vero cambiamento è inscindibilmente legato alla spaccatura di tutte queste catene. Esso richiede una rottura profonda dell’ordine sociale, che intanto può incidere sulla cultura e sulla mentalità degli uomini e delle donne, in quanto trasformi radicalmente le basi dell’economia e della società. Una tale trasformazione può avvenire solo dalla lotta diretta di tutti gli sfruttati, non solo dalle donne.
Perché l’appello al cambiamento non si esaurisca perciò in uno slogan, occorre riempirlo di contenuti, di una visione, di un percorso di emancipazione delle donne. Questo percorso proprio per niente può essere separato dalla liberazione generale dell’insieme degli sfruttati.
E dunque sta bene separasi dalle istituzioni e dal governo di centro sinistra, identificandoli come controparti. Sta bene identificare come controparti le forze del centro destra e quelle aderenti al Family Day.
Sta ancora bene presentare agli uomini il conto della propria oppressione ed organizzarsi per difendersi. Ma chiaramente diciamo che non può rappresentare la prospettiva della battaglia di liberazione della donna quella di una lotta delle sole donne, staccata e al di fuori delle lotte dell’insieme del proletariato e degli sfruttati contro la radice comune dello sfruttamento, dell’oppressione, dell’alienazione. La lotta contro la violenza maschile non può darsi separatamente da questo contesto, né può fare a meno di chiamare in causa la sezione maschile del proletariato, cioè di chi partecipa - contro il suo stesso interesse - al dominio di sesso e ai suoi squallidi privilegi. Non può fare a meno di rivolgersi alle donne di ogni altro paese e continente, a cominciare dalle immigrate, per riprendere un percorso di collegamento e di unificazione della lotta tra le donne del Nord e quelle del Sud del mondo, che metta al centro la lotta contro le guerre dell’imperialismo che puntano a rendere schiave intere popolazioni e masse sterminate di donne.
La violenza contro le donne potrà cessare attraverso il rivolgimento generale dell’ordine sociale che la produce, con un programma e un’organizzazione che puntino ad eliminare la causa di questa violenza: che è il capitalismo e la società di classe.
L’istanza per un cambiamento culturale, se restasse svincolata dalla battaglia contro le cause dell’oppressione, contro la divisione di sesso, di classe e di razza, contro le istituzioni e le forze che ne sono artefici, se rinunciasse a darsi questi contenuti, questa prospettiva e la corrispondente organizzazione politica di lotta, lascerebbe il campo libero a operazioni di puro maquillage, aprirebbe le porte proprio alla delega e alle istituzioni che si vorrebbero escludere.
Con questo ragionamento ci
rivolgiamo anche a quelle donne che contro la violenza ritengono utile puntare a
questa o quell’altra “soluzione” legislativa. Questo implicherebbe la
smobilitazione della piazza e il ritorno a casa, come già avvenne nel 2006
quando la spinta a “uscire dal silenzio” e a sedimentare capacità di
discussione e di iniziativa andò a spegnersi nei punti programmatici da affidare
alle candidate del centro sinistra, nelle mediazioni compatibili nell’ambito
degli equilibri della coalizione, in una parola nel piegare le istanze delle
donne alle “superiori” esigenze dello Stato, delle istituzioni e del mercato.
28 novembre 2007