Il 25 ottobre del Partito Democratico è stato indubbiamente un successo numerico, una manifestazione da annoverare tra le più grandi degli ultimi anni, quand’anche non paragonabile alla massa oceanica del ‘94 (contro la riforma delle pensioni del primo Berlusconi) o a quella del 2002 (a difesa dell’articolo 18 attaccato dal Berlusconi bis), dove era effettivamente credibile un’affluenza a sette cifre. Negli ultimi tempi, peraltro, più d’una volta le piazze si sono riempite di una partecipazione molto ampia di giovani e di lavoratori e siano anche queste annotazioni un contributo affinché si possa tradurre la quantità in vero protagonismo politico.
Dunque, come per l’11, la prima registrazione che facciamo riguarda la riuscita numerica e la soddisfazione del popolo dell’opposizione al governo Berlusconi per essersi finalmente messo in moto. Ma, come per l’11, alla riuscita numerica ha corrisposto –per chi scrive– una piazza “da vero dramma” non tanto per i contenuti –lo si sapeva– ma per il segno della partecipazione, con una certa sorpresa da parte nostra –non lo nascondiamo– nel vedere la base proletaria del fu Partito Comunista Italiano trasformata in massa amorfa e “depurata” da ogni traccia dell’identità di chi ancora venti anni fa si richiamava al comunismo (nella vulgata staliniana, e il particolare non è per noi insignificante).
Una partecipazione da scampagnata generale e familiare, di “popolo” annaspante in un marea umana di ceto medio poliedrico, con tanti lavoratori (e molti pensionati) –questo è certo– che però caratterizzavano fin troppo debolmente la piazza in quanto piazza e massa di lavoratori portatori delle proprie istanze. Bandiere del partito bianco rosso e verde, nessun altro vessillo identitario che non fosse colorato e contrassegnato dai colori della bandiera nazionale. Qualche partecipante isolato con maglietta del Che Guevara (forse per aggirare il divieto del rosso, con l’effetto in quel contesto di richiamare piuttosto il souvenir di una vacanza cubana), ma niente che non fosse tricolore. Tutto ordinato e nazionale, da parata.
Nell’arena del Circo Massimo una serie di colonne gigantesche con vari slogans/pensierini: “Con l’Europa per fermare la febbre del pianeta”; “Ospedali più efficienza meno liste d’attesa” (perché c’è qualcuno dello schieramento avverso che dice il contrario?); “Giovani diamo credito alla creatività” (demenziale, ed è un complimento); “Stipendi e pensioni così non và” (ma va?); “Siamo tutti Saviano” (eroico); “Liberiamo il paese da tutte le mafie” (si, ma sempre dalla parte dei poteri forti); “Subito un piano straordinario infrastrutture d’interesse europeo”; “Ripristino del credito d’imposta per le imprese del sud”, and so on.
Se l’11 erano tanti “globuli rossi” anemici, al confronto questa massa così preponderante –chiamata a sostenere la nuova frontiera del “riformismo” non più “comunista” né “di sinistra”, ma “a metà” con ex–democristiani– appare in procinto di morire dissanguata. Certo non è che marciasse cantando all’unisono l’inno nazionale, ma qualche frangia l’ha pure fatto e d’altronde come non comprenderla se il comizio finale di Veltroni ha chiuso con lo slogan “un’altra Italia è possibile”? Se gli interventi che dal palco l’hanno preceduto erano tutti uniformati a questo input? Quello della poliziotta del sindacato di polizia ha denunciato i tagli alle forze dell’ordine, lamentando che nelle esercitazioni non si possono sparare più di dieci colpi (sarà per questo che il tifoso laziale è stato ucciso!) e altri dettagli del genere. L’operaia tessile ha fatto una denuncia con tono sconsolato, di chi lamenta una condizione ma non vede alcuna prospettiva. Anche l’immigrato di Villa Literno, più combattivo nel tono, ha finito per approdare alla stessa pietas.
E’ proprio alla luce di questa partecipazione che contestiamo a Veltroni che quella del 25 ottobre 2008 sia stata “la prima grande manifestazione del riformismo in Italia”.
Cosa si vuole dire? Che il Pci era un partito rivoluzionario? Che il Partito dei Democratici di Sinistra e poi i Democratici di Sinistra cancellato il partito (denominazione che può tornare una volta soppressa ogni aggettivazione “comunista” e “di sinistra”) erano anch’essi rivoluzionari e “non ancora” riformisti o cos’altro diavolo? O ancora si vuole dire che solo il mix di democristiani, ex–(o “mai stati”)“comunisti” pentiti e “socialisti” disposti anch’essi a scordarsi il proprio nome esprimerebbe il “riformismo doc”?
La realtà è che il partito di Togliatti e Berlinguer non è stato, se non nelle origini ribaltate dal corso successivo –lo stalinismo di cui sopra, a sua volta riflesso della internazionale controrivoluzione–, né veramente comunista, né rivoluzionario, ma riformista a tutti gli effetti. Anzi, si metta l’anima in pace l’Obama italico, è stato il vero ed unico partito riformista, al cui cospetto l’attuale accolita democratica, venuta al mondo sotto il segno del governo Prodi, vanta titoli “riformisti” che stanno al di sotto dello zero, se riformismo significa ancora riforme a vantaggio delle classi sfruttate (di un sistema per noi irriformabile nei connotati essenziali) e non vaniloquio quanto a riforme reali. Oggi ci si pretende riformisti senza ombra di riforme in solido per i lavoratori e anzi essendo fautori di autentiche “controriforme” che “modernizzano il capitalismo”. A tale stregua anche la destra diventa “riformista”. Potremmo concordare con Veltroni sulla “prima manifestazione del riformismo”, solo se si ammettesse che quando si evoca il riformismo “operaio”–borghese del Pci, ci si riferisce in realtà molto più prosaicamente alla razionalizzazione del capitalismo contro i lavoratori e gli sfruttati, chiamati nondimeno a sostenerla come il “meno peggio” possibile.
Il vero riformismo del Pci è consistito invece nell’assunzione dell’orizzonte del capitalismo nazionale “dal punto di vista operaio”, il che vuol dire in cambio di miglioramenti reali per le classi sfruttate, che proprio in virtù di ciò vi hanno aderito con l’orgoglio della propria militanza di classe (mentre in realtà si sottomettevano progressivamente e “progressisticamente” alla borghesia, così deprivandosi della forza necessaria per poter difendere oggi quei miglioramenti). Questo vero riformismo, mano mano che il capitalismo declinava dall’affluenza alla crisi, ha sospinto sempre più nell’angolo gli interessi dei lavoratori e i lavoratori in carne ed ossa nello stesso partito, e in tal modo ha predisposto la Bolognina, gli arretramenti successivi e questo 25 ottobre, che non promette né rivendica “riforma” alcuna –anzi!–, se non nel senso stravolto di cui sopra, buono per la sinistra e per la destra.
Ricordiamo inoltre, per quanti non sono disposti a riscrivere la storia secondo il credo democratico, che il riformismo contempla pur sempre la lotta vera di un proletariato che si organizza per migliorare la propria condizione nel capitalismo. Noi abbiamo sempre combattuto questo corso, fondato sull’accettazione del capitalismo da parte della massa proletaria organizzata nel Pci, dove il conseguimento di reali miglioramenti in decenni ormai lontani è avvenuto al prezzo del progressivo snaturamento della organizzazione politica e sindacale della classe operaia, che infine rimane priva di difese. Di questo corso la piazza del 25 ottobre è niente più che il coerente triste epilogo: giammai “primo vagito di riformismo”, sì invece l’unica sua versione “di sinistra” possibile ai giorni nostri, versione residuale e miserabile in quanto tale. In essa l’organizzazione di classe si presenta dissolta e la capacità di lotta, anche solo riformistica, –transitoriamente– azzerata.
Queste nostre annotazioni, ovviamente, risulteranno cavillose e inutili a certi commentatori del 25 ottobre collocati alla sinistra del Pd, che vedono cose tanto dubbie quanto calzanti ai sogni di “chi le ha viste”.
Vendola ha parlato di “un enorme potenziale cui non corrisponde una piattaforma politica”. Gabriele Polo di una manifestazione “sicuramente più radicale di chi parlava dal palco”. Beninteso, le potenzialità ci sono sempre e dunque anche nella piazza del 25 ci sarebbero, purché, però, si voglia capire a quali condizioni esse possono mettersi in atto. Queste condizioni stanno nel completo ribaltamento di scenografia e contenuti di quella piazza, che sia imposto dal prorompere del punto di vista di classe e della necessità di organizzarsi per farlo pesare; stanno in una coerente battaglia politica data, anche in quella piazza, a tal fine.
Polo e Vendola, i cui commenti possono essere letti sul manifesto del 26 ottobre, associano ai numeri “straripanti”, con relative “potenzialità” e maggiori “radicalità”, la “vaghezza della proposta politica”, “l’assenza di una piattaforma”, la “minore radicalità di un palco che resta al di sotto della sfida necessaria e non all’altezza della terribile ricetta nazional–populista di Berlusconi”. Sarebbe ora la “sinistra” –beninteso, quella, non malata di “minoritarismo identitario”, degli ex–bertinottiani e della linea editoriale de lmanifesto– a proporsi con le giuste dosi di “proposta politica” e di “radicalità”. Ragionamenti che non colgono nel segno e, con la scusa della vaghezza, decampano dalla battaglia che a quel palco va data.
Pur avendo rilevato in premessa i contenuti deprimenti della manifestazione, ciò non significa affatto che ne sottovalutiamo il senso e la portata, o che concludiamo il tutto a risatina, mentre il programma e la prospettiva del Pd ci sembrano chiarissimi. Se i commentatori sopraccitati non lo rilevano è solo perché agognano una “nuova alleanza” con quel palco, che sia soltanto un po’ “meno vago” e un po’ “più radicale” (ma non troppo) secondo i propri desiderata, confidando per questo di poter far leva sulle aspettative della sua base. Quando si dice “calcolo” ancora una volta sbagliato.
Il quadro delineato dal 25 ottobre è tutt’altro che “vago” (vago, senza virgolette, è chi non lo denuncia). In esso l’opposizione “a Berlusconi” ruota attorno al messaggio che chiama a “salvare l’Italia” una base –invero quel che oggi ne residua– fino a non molti anni fa attrezzata per difendere con la lotta gli interessi della propria classe.
Salvare “l’Italia” da chi? Dal capitalismo e dalla sua crisi che i padroni ci vogliono far pagare? No! Da Berlusconi. Perché Berlusconi “fa male all’Italia” (mentre Prodi gli “ha fatto bene”). Il messaggio chiama quel “popolo”, un tempo istruito alla lotta, ad annullare ogni velleità di critica sistemica e “bipartisan”, a riconoscersi come “popolo progressista e democratico”, il cui compito non è quello di difendersi come classe distinta da un attacco più che reale, ma di “salvare il paese”... da Berlusconi.
E, infatti, poiché “Berlusconi” “fa male all’Italia”, ecco i “più militanti” del Pd che intonano nei cortei “fratelli d’Italia”; ed ecco Veltroni che subito traduce l’accorato fraseggio in nuovo inno delle proteste di piazza (visto tra l’altro che si è alla continua ricerca di nuovi improbabili canti da spendere, dopo aver abrogato quelli storici dei lavoratori. Che c’è di meno vago che sostituire “Bandiera rossa” con “fratelli d’Italia”?!). Chi “fa male all’Italia” è solo e soltanto Berlusconi, e nel discorso di Veltroni non troverete denuncia degna di questo nome né contro Confindustria, né contro i poteri capitalistici estesi ben oltre il perimetro nazionale.
Se questa paccottiglia nazional–“buonista” “anti–berlusconiana” non sta in piedi come preteso “riformismo in fasce”, ciò non significa che non esprima una piattaforma politica ben precisa. Che dire della “pressante” richiesta al governo di centro–destra di detassare i salari e le pensioni? Che innanzitutto è una rivendicazione avanzata in modo molto strano, sia perché è rivolta esclusivamente al governo e non tocca neanche di striscio Confindutria (che intanto vuol liberarsi le mani dai vincoli della contrattazione nazionale per frammentarla in vista di un selettivo –quand’anche non totalmente generalizzato– contenimento ulteriore dei salari), e sia perché la tromba di Veltroni e soci attacca bensì su salari e pensioni ma, già alla seconda strofa, si sposta sulla crisi che colpisce le medie imprese da sostenere e solo qui la suonata diventa ampia e completa. Ma, a parte queste annotazioni, c’è un’altra piccola questioncina. Signori, che oggi strillate su salari e pensioni, perché avete fatto esattamente il contrario quando fino a pochi mesi fa eravate al governo? Il vostro “taglio del cuneo fiscale” è stato più che reale per le imprese, ma la vostra “riforma” della tassazione dei redditi da lavoro dipendente, diretta e indiretta, statale e locale, ha nella generalità dei casi aumentato il prelievo anche a carico dei redditi più bassi. Allora, ci dite come si chiama questo gioco per cui quando state al governo regalate alle imprese e tartassate i lavoratori, mentre invece dall’opposizione dite che bisogna aumentare salari e pensioni? Il vostro è un gioco sulla pelle di chi lavora. In piazza Veltroni ha tirato l’applauso su Prodi che, a differenza di Berlusconi, “ha fatto bene all’Italia”. Certo ha dovuto prenderla alla larga, riferendosi all’ “ingresso nell’euro” piuttosto che alla recente esperienza di governo del centro–sinistra, e l’applauso tirato su Prodi non ci è sembrato molto convinto. Ma il “popolo del Pd” è avvertito: per quanto dall’opposizione si possa agitare la questione salariale, una volta al governo “l’Italia si salva” con le cure alla Padoa–Schioppa. Attenzione dunque a cantare inni nazionali, portare il tricolore, battere le mani ai poliziotti, perché al fondo di tutto questo anche nel programma “anti–berlusconiano” c’è che “il paese si salva” facendo pagare la crisi o il risanamento o qualunque altra “necessità” del capitalismo ai lavoratori!.
Il vuoto di questo “anti–berlusconismo” (molto comodo: si dice tutto il male di un singolo personaggio per sviare ogni seria critica a un intero sistema) emerge con chiarezza sulla questione della crisi finanziaria; dove gli unici accenni fatti da Veltroni sono quelli che denunciano abbastanza genericamente l’ “insufficienza” dei provvedimenti adottati dal governo. Non ha detto niente, invece, sul capitalismo stesso e su una crisi che ne svela il marcio. Lo slogan finale recita addirittura “un’altra Italia è possibile”. Ovvero: è omessa ogni critica di sistema al capitalismo perché non è il capitalismo ad andare sotto accusa, a rivelarsi come un sistema antisociale che arricchisce pochissimi e colpisce gli altri; è soltanto l’Italia che non va... perché c’è Berlusconi.
Quale altro senso dare alla totale assenza di riferimenti allo scenario internazionale (e alla radice internazionale dei problemi “interni”)? L’unico accenno più che stantio va ai soldati americani che “diedero la vita per liberare l’Italia”: da un lato si chiama la piazza all’unica memoria concessa e “in linea” con il discorso generale, quella della resistenza e dell’antifascismo; dall’altro si torna a dire che, se Berlusconi fa spallucce sull’antifascismo, Obama invece non le farebbe. Semplicemente penoso! Ma non sarebbe stato più pertinente dire qualcosa su quei “bravi ragazzi” americani, che spesso insieme ai “bravi ragazzi” italiani, mietono stragi ogni giorno in Iraq, in Afghanistan, in Siria? Nulla e niente di tutto questo. Nulla e niente che associ i problemi dei lavoratori e degli sfruttati in Italia a quelli delle popolazioni oppresse e sofferenti in tutto il mondo. Beninteso non sono condizioni e problemi immediatamente assimilabili, ma nondimeno collegati dalla comune radice di un’offensiva contro il mondo del lavoro, che, lungi dall’essere esclusivamente “berlusconiana”, muove dal cuore dei poteri capitalistici mondiali, quelli italiani compresi –e più propriamente dalle necessità impersonali di un sistema antisociale in crisi–, e colpisce l’intero pianeta. Veramente si può fare tabula rasa delle –invero timidissime– proiezioni di solidarietà dei movimenti no global e no war verso le popolazioni oppresse dall’imperialismo per capovolgerle come un calzino nel loro contrario, cioè nello slogan “un’altra Italia è possibile”? Non sarà che l’Italia, oltre quanto sopra, “si salva” schiacciando sempre di più sotto il tallone dell’Occidente le popolazioni del Sud e dell’Est del pianeta (a cominciare dai lavoratori immigrati), schiacciamento economico e militare (esterno e interno) cui i neo–democratici hanno sempre ben contribuito, dal governo e dall’opposizione, alla faccia di tutte le manfrine buoniste di Veltroni sull’ Africa?
E dopo i “bravi ragazzi”, americani... e italiani, copiosi ringraziamenti anche alle forze dell’ordine? Ci si metta allora il cervello in pace e si abbia il coraggio di ringraziarli anche per i pestaggi sempre più frequenti che riservano in particolare agli immigrati, e per le brillanti operazioni in stile cossighiano che abbiamo visto sotto il senato contro gli studenti!
Per tirare il filo, in questo comizio noi non abbiamo visto “una piazza più radicale” e anzi diciamo senza mezze parole che una massa che plaude alla difesa della propria nazione e delle proprie imprese ci consegna il senso amaro di prodromi di intruppamento nazionalistico di quel residuato di classe che transita nel Pd. Non ce ne spaventiamo e cerchiamo di portare la nostra battaglia anche rispetto a questa parte di lavoratori e proletari proprio per contrastare quell’infausto approdo, del tutto interno al novero delle possibilità dello scontro che si apre. La leva utile (non certo la “maggior radicalità”) che abbiamo colto nella piazza sta nel fatto che il discorso di Veltroni, pur con tutta l’enfasi spesa, non scioglieva l’interrogativo che spontaneamente serpeggiava e che ci fa dire che il nazionalismo democratico del Pd appare lontano dall’essere percepito come risposta fino in fondo credibile dalla sua stessa base: “Ma allora che facciamo?” “Se non diciamo le cose chiare fino in fondo, perdiamo un’altra volta.” “Bene dar giù a Berlusconi, ma quale sarebbe la nostra azione di governo?”. Avendo raccolto questi interrogativi a mezza voce, non ci spingiamo oltre nell’interpretare gli inquietanti silenzi di chi li ha formulati e l’assenza anche soltanto di un inizio di risposta collettiva. Una cosa è certa: per quanto Veltroni continuasse a ripetere che il neonato Pd avrebbe aumentato i suoi voti alle elezioni di aprile, i commenti erano e sono concentrati sulla sconfitta e sulla difficoltà di poterla recuperare. Ovvero: “come, con quale politica si può tornare a vincere”. Veltroni non è stato vago in proposito. E noi, che sappiamo fin troppo bene, senza bisogno di andare al Circo Massimo, che la base del Pd è tanto consapevole che la sconfitta è venuta –e ritornerebbe– dalle finanziarie del governo Prodi, quanto incapace di prendere in carico questa questione anche solo per un inizio di riflessione collettiva, chiamiamo anche quella base a fare un bilancio sul governo Prodi, affinché si comprenda per tempo che i patriottici salvataggi antiberlusconiani, soprattutto in tempi di crisi, lungi dal costituire un riparo, vanno a parare in nuovi sacrifici richiesti e imposti ai lavoratori –e i sacrifici sono tali anche se a imporli è il governo “democratico”–, preparano il disarmo completo di ogni difesa delle classi sfruttate –che ancora una volta verrebbero indotte a confidare in un presunto governo “amico”, “migliore” o “meno peggio” di Berlusconi, per una soluzione dei propri problemi che invece non verrà–, sono forieri di ulteriore frammentazione, divisione e potenziale contrapposizione tra lavoratori, una parte dei quali viene sempre più spinta a cercare soluzioni nella Lega Nord se non direttamente nel partito di Berlusconi e Fini.
Una conferma di questo non entusiasmante stato dell’arte la leggiamo proprio su l’Unità del 25 ottobre che intervista il vicesindaco di Breganze (Vicenza). Egli è salito sul pullman verso Roma per partecipare alla manifestazione del Pd “come piccolo–medio imprenditore preoccupato perché il governo sembra attento soltanto alle logiche della grande industria”. Vi è salito senza i suoi 50 dipendenti (n. l’azienda produce macchine industriali per il tessile) e a domanda risponde: “Le sembrerà strano ma i miei dipendenti se dovessero scegliere di andare in piazza preferirebbero una manifestazione della Lega. E’ cambiata la pancia di questo paese”. Noi concludiamo questa nota, ripetendo ancora una volta a chi era in piazza il 25 ottobre che la politica di “salvataggio dell’Italia” (alla Prodi/Padoa–Schioppa per intenderci) supportata da una parte di lavoratori al canto dell’inno nazionale non farebbe altro che acuire la divisione con altri –non pochi– lavoratori che sono stati costretti a guardare altrove –e magari a cantare “va pensiero”– proprio a causa delle politiche “amiche” dei governi di centro–sinistra. Proprio per questo la politica che si annuncia con lo slogan “salviamo l’Italia” va combattuta, al pari del suo corrispondente alla scala ridotta (“salviamo il Nord con la riforma federalista”), ragionandone in ogni occasione data con i lavoratori e i proletari che si illudono di poter trovare soluzioni nell’una o nell’altra. Lo possiamo fare rimettendo in campo la politica di classe che metta al centro con decisione e orgoglio non “il salvataggio dell’Italia” (cioè delle banche, dei padroni –grandi o meno– e degli affaristi di ogni specie) ma la difesa degli interessi generali della classe che lavora e produce. Di questa politica c’è bisogno per poter riunificare le nostre forze e organizzare su queste basi l’unico reale argine contro l’attacco del padronato e del governo Berlusconi, contro il capitalismo e la sua crisi.
7 novembre 2008