nucleo comunista internazionalista
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Si è svolta a Roma sabato 12 novembre l’assemblea nazionale “100 anni dopo, l’imperialismo italiano interviene di nuovo in Libia. La crisi, la tendenza alla guerra, le politiche antiproletarie e le rivolte” indetta per iniziativa di quella ristretta area politica di classe (il Pane e le Rose, Lotta e Unità, Red Link, GCR) che in particolare ha caratterizzato attorno alla parola d’ordine “il nemico principale è in casa nostra” l’opposizione all’aggressione alla Libia e quella, parallela, al proletariato sul piano interno.
Si è trattato di un utile momento di rassegna e confronto delle rispettive analisi sulla via della chiarificazione dei nodi politici resi evidenti alla prova degli eventi di Libia e tutt’ora irrisolti il cui scioglimento è la premessa per una qualsiasi efficace azione di classe.
La via è ancora molto lunga da percorrere, per giunta sotto l’incalzare degli effetti drammatici della crisi capitalistica mondiale sia sul piano esterno che interno cosa di cui in tutta la dozzina di interventi si è registrata piena coscienza.
La via è molto lunga da percorrere come si potrà verificare dagli atti dell’incontro che prossimamente saranno pubblicati a cura degli organizzatori e a cui vivamente rimandiamo.
Qui di seguito pubblichiamo la traccia su cui è stato svolto il nostro intervento.

17 novembre 2011



Il nostro intervento all’incontro nazionale di Roma 12 novembre
100 anni dopo l’imperialismo italiano interviene di nuovo in Libia: la crisi, la tendenza alla guerra, le politiche antiproletarie e le rivolte”

Abbiamo accolto con favore l’invito alla discussione e all’iniziativa. Discussione che deve servire ad andare fino in fondo sulle questioni aperte, sulle divisioni e sulle impotenze del campo rivoluzionario di classe cui pretendiamo di riferirci, come premessa perché si possa superare la situazione attuale, dove 7/8 mesi di incessanti bombardamenti occidentali sulla Libia non hanno suscitato una mobilitazione adeguata e anzi hanno visto il mondo pacifista e gran parte della cosiddetta “sinistra” giustificare e plaudire all’aggressione.

Noi siamo incalzati dal ritmo degli eventi – sempre più interconnessi sul piano interno ed internazionale – suscitati dalla crisi capitalistica, dove il campo rivoluzionario con molta fatica, obiettivamente, tenta di star dietro senza perdere la testa ovvero senza smarrire la bussola dei principi di classe.

Un primo punto è proprio questo: non c’è credibile difesa contro l’attacco alle condizioni interne indotto dalla crisi se gli “indignati” del mondo intero che se ne vogliono difendere non torneranno a prendere in carico dal giusto punto di vista di classe la battaglia politica contro le guerre scatenate dall’imperialismo che evidentemente sono del tutto connesse a questo quadro generale di crisi.


Intanto da parte nostra diciamo cosa è stata e cosa è la guerra di Libia o per la Libia:

Dunque per noi si è trattato e si tratta di una guerra contro il proletariato libico. Sul Manifesto invece Avnery scrive che la fine di Gheddafi dimostra come tutti i libici lo avessero in odio (e secondo noi l’aver resistito così a lungo in quelle condizioni dimostra esattamente il contrario). Altri, che di per sé si riferiscono al “campo rivoluzionario” e qui ci riferiamo ad esempio al Partito Comunista dei Lavoratori, parlano di “rivoluzione libica”.

Noi diciamo, per la Libia e come generale criterio di vitale orientamento nel più ampio scenario attuale, che su questo è d’obbligo andare a fondo, nel senso di non ammettere alcun tatticismo, alcuna convenienza che copra o ritenga superata e superabile nell’ambiguità un ventaglio di posizioni che non possono stare insieme.


Noi non parliamo genericamente di “rivolte arabe”, come se poi quel che è accaduto e accade nei diversi paesi possa stare e stia sullo stesso piano. Non lo facciamo neanche quando verifichiamo che questa equiparazione è largamente presente nello stesso campo delle forze che nel mondo arabo sono impegnate nella lotta contro l’imperialismo occidentale ed Israele. Non lo facciamo neanche laddove riscontriamo tra i lavoratori immigrati del Nordafrica letture e sentimenti di questo tipo. Noi ci ingeriamo profondamente nelle vicende del Nordafrica e Medioriente, non abbiamo tema di essere per questo “eurocentristri” (bufala colossale per coprire le magagne e preservare unanimismi impossibili). La corretta linea di classe è quella dell’interventismo nostro nella guerra di Libia: l’imperialismo interviene contro il proletariato libico e le masse sfruttate dell’intero continente africano, noi interveniamo sapendo demarcare anche sulla Libia l’opposto schieramento di classe.


Cosa hanno in comune le “rivolte arabe”. Si situano nel medesimo generale contesto di crisi. Un contesto dove in particolare questi paesi del Nordafrica presentavano ritmi di crescita sostenuti, in qualche modo venivano associati al campo di economie non diremmo emergenti ma comunque con sostenute dinamiche di crescita (il riferimento va in particolare all’Egitto), nell’ambito di un continente africano cosiddetto vergine e dove ora i capitali sovraprodotti e inutilizzati del mondo intero confidano di poter trovare le occasioni di messa a profitto per il futuro.

Quel che è accaduto in Nordafrica ci da la misura reale di quella che è stata ed è “la crescita dell’economia mondiale degli ultimi trenta anni”, di cui tanti hanno parlato. Una crescita sempre più polarizzante all’interno delle stesse economie in crescita. Una crescita dove agli indici di PIL che crescono (beninteso crescono in un contesto mondiale di irrisolta crisi), corrisponde invece un incremento dell’impoverimento reale per masse sempre più ampie. E’ questa situazione di fondo che mette in movimento la società, tutte le classi sociali.


Qui le analogie finiscono e i campi si divaricano. Noi abbiamo salutato con favore le mobilitazioni di Tunisia ed Egitto dicendo che si è trattato di lotta “per il pane e per la democrazia”. Intesa questa non come generico e indistinto moto di libertà a prescindere da chi ne fosse il protagonista sociale. Non come generica e generale petizione democratica per la cacciata del dittatore. No. In Tunisia ed Egitto noi abbiamo visto e vediamo la faticosa istanza delle masse sfruttate e del proletariato di quei paesi per rivendicare non “la democrazia in generale” ma “più potere per sé”, pane e potere per i lavoratori che scendevano e scendono in piazza, rivendicazione di poter contare e decidere, di avere un peso sulle decisioni che ci riguardano e che non ci devono essere imposte da poteri esterni e dai poteri interni affittati ad essi. E’ questa la petizione “di democrazia” che, nei paesi dominati dall’imperialismo (non nell’Italia imperialista), ci riguarda, che va nella direzione nostra in quanto pone le istanze “democratiche” (si dica anche così) che interessano e necessitano ai proletari, e lo fa in funzione del passaggio alla prospettiva della rivoluzione di classe non circonchiusa ai singoli paesi ma in grado di innescare e rilanciare più ampie dinamiche della lotta delle classi sfruttate nell’area e al centro dell’impero. Una siffatta “petizione di democrazia” entra necessariamente in rotta di collisione con l’imperialismo e con l’assetto del potere borghese in quegli stessi paesi.


Il nostro criterio per definire i compiti rispetto alle cosiddette “rivolte” in Nordafrica e medioriente non è quello cosiddetto “campista”, per cui se la rivolta si da nel paese alleato all’Occidente è buona, e invece non è buona se si da nel paese canaglia e sotto il mirino occidentale.


Il nostro criterio è un altro: quali sono i protagonisti sociali della mobilitazione, quali ne sono i contenuti, quali sono le classi sociali in campo? Si agita una generica petizione di “democrazia per tutti”, si vuole cacciare il dittatore magari fiutando di poterlo rimpiazzare, si pensa che questa generica petizione democratica possa ricevere l’aiuto e l’alleanza dell’imperialismo, oppure in piazza ci sono i lavoratori che rivendicano “potere democratico” per sé, che in tal senso mettono in causa e si scontrano contro l’intera impalcatura mondiale del potere di classe (interna e internazionale) e mai avranno l’aiuto dell’imperialismo né penseranno di invocarlo?


In Libia abbiamo a che fare con un paese con una popolazione autoctona numericamente ridotta e con una consistente rendita petrolifera. Questo ha fatto sì che in Libia il vero proletariato, impegnato nella produzione e sotto padrone, fosse rappresentato quasi esclusivamente dai lavoratori immigrati provenienti da altri paesi africani. Forse i tagliagole del CNT hanno rivendicato più “potere democratico contro il dittatore” per questi lavoratori, cioè per il proletariato di Libia? Rispondano a questa domanda i sostenitori “marxisti” della rivoluzione libica!


Se quelli che noi abbiamo richiamato sono i corretti criteri per orientarci in Libia, in Siria, in Iran e ovunque, le posizioni che invece accreditano e supportano la cosiddetta “rivoluzione libica” (ma poi siriana, iraniana, etc.) assumono criteri opposti. Si assume la cosiddetta “rivoluzione libica” come generico e indistinto “moto di libertà per la cacciata del dittatore”, si accredita una rivoluzione che innalza “una bandiera politica ma non sociale” (è come quando qui in Italia, facendo ancor peggio, ci si mette insieme tutti contro Berlusconi senza andare a vedere tutto il resto), si rivendicano non le classi sociali in campo (non lo si potrebbe fare se non barando) ma genericamente “i giovani”. Queste cose le abbiamo lette in particolare su scritti del Partito Comunista dei Lavoratori, che tra l’altro hanno la presunzione subdola di richiamarsi al marxismo, quando fanno l’esatto contrario. Il marxismo, fin dal ’48 europeo, non ha mai appoggiato “le classiche rivendicazioni della rivoluzione democratica”, come scrive il PCL, perché invece ha sempre demarcato nel modo più netto in che senso, in quale modo specifico il proletariato fosse interessato e presente allora nella battaglia per la democrazia in quanto battaglia per la libertà di organizzazione e di lotta del proletariato, per sé e non per altri oppressori, mai con l’imperialismo. Come giammai lo fosse dietro “vessilli politici e non sociali”, bensì in funzione della propria prospettiva di rivoluzione in permanenza e della presa in carico dei propri compiti di classe.


Da ultimo abbiamo letto, sempre dal PCL, di una “rivoluzione libica” che avrebbe consegnato il proprio successo della caduta di Gheddafi all’imperialismo. Di una “rivoluzione” che ha avuto ed ha (dall’inizio alla fine, aggiungiamo noi) una direzione contro-rivoluzionaria. Si tratta di paralizzanti volgarità che vanno contrastate e battute nel modo più deciso. Come può una rivoluzione dare il successo all’imperialismo? Se lo da, è una controrivoluzione da cima a fondo. Come può una rivoluzione avere una direzione controrivoluzionaria, senza che mai emerga la supposta contraddizione e lotta, che dunque dovrebbe essere cruenta se di rivoluzione si tratta, tra rivoluzione e controrivoluzione?


Potremmo proseguire, ma si tratta di sostanziare un punto. Attorno ed a partire dal “banco di prova” libico noi riteniamo necessario e tentiamo fra di noi di “vuotare il sacco”, di scornarci apertamente se del caso, avendo bene in testa che “passata” (si fa per dire) la guerra di Libia, rullano i tamburi di una nuova aggressione, di una nuova guerra imperialista attorno alla Siria e dunque al Libano (qualche giorno fa il governo di Sarkozy si è detto pronto a riconoscere il CNT siriano come “legittimo rappresentante del popolo siriano”!), attorno all’Iran.


Non vogliamo, in questa tremenda eventualità che pare stagliarsi, che si replichi il copione sperimentato per la Libia.


Per quello che attiene al nostro campo rivoluzionario di classe potremo ancora tollerare che delle voci che si pretendono addirittura di classe, marxiste, internazionaliste si alzino per dire di “equidistanza” fra poteri e centri di forza imperialisti e paese aggredito, se non di aperta copertura alla criminale crociata democratico-imperialista in atto?


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D’altra parte la guerra di Libia, paese strettamente connesso al cosiddetto “spazio vitale” del capitalismo italiano, si è immediatamente qui riverberata con riflessi e conseguenze sull’intero quadro politico interno, evidenziando almeno iniziali contraddizioni e possibili linee di frattura all’interno del fronte borghese, e a seguire, alla coda delle sue frazioni in via di definizione, fenomeni ancor più ampi e pericolosi di degenerazione della cosiddetta “sinistra” nelle diverse varianti. Noi non dimentichiamo che proprio 100 anni fa e proprio a partire dalla prima guerra coloniale di Libia cominciarono ad emergere nitidamente le tendenze social-scioviniste all’interno del movimento operaio italiano. Strani ricorsi storici!


Alcuni esempi per chiarire. Ricordiamo una copertina di quei super anti-berlusconiani di Micromega raffigurante Gheddafi-Berlusconi-Putin a braccetto, per dire di tre “tiranni” di cui ci si doveva sbarazzare (e qui siamo nel campo della borghesia italiana di stampo badogliano, con le sue componenti che hanno aderito convintamente all’aggressione alla Libia e convinto il Cavaliere e soprattutto la Lega Nord – giustamente recalcitranti nel nome dell’interesse nazionale –, in ciò avvalendosi del suo nutrito codazzo “di sinistra” che va dai Napolitano fino ai supporters “marxisti” dei ribelli cirenaici).


Ora Gheddafi è kaputt e Berlusconi è cacciato, più che a furor di popolo a “furor di borse” potremmo dire. Sotto l’impulso decisivo, sotto i diktat di determinati centri capitalistici, più precisamente quelli che stanno dietro all’Economist, al Financial Times al Wall Street Journal, etc. etc. Quelli di Libero, dal loro punto di vista “patriottico”, per primi hanno smascherato pubblicamente i retroscena della rivolta libica da parte dei cugini d’oltralpe, dei Cameron e del buon Obama, dicendo chiaramente che la guerra di Libia andava a colpire “i nostri interessi nazionali”. Lo stesso Libero del 10 novembre titola molto efficacemente: “Il partito di Wall Street punta ai soldi degli italiani. La finanza Usa detta l’agenda a Roma...”.

Vediamo quindi che sotto la sferza dei fatti, cioè dell’inaudita pressione esercitata sul piano sia esterno (Libia) che interno da parte dei poteri capitalistici...”alleati”, da una parte della borghesia italiana sembra inizi a soffiare un certo vento “antiplutocratico” di resistenza ai “poteri forti internazionali”. I borghesi si scornano: gli uni e gli altri certo ferocemente antiproletari e qui non ci piove. Ci piove invece eccome sul fatto che la parte borghese attualmente sotto scacco si faccia soffiare dai suoi soci...alleati i gioielli di famiglia (diciamo Eni, Finmeccanica, una succosa quota di risparmio gestita dalle banche tricolori, forse la stessa dotazione di Oro...) senza opporre resistenza. E senza tentare di coinvolgere le masse, il proletariato in una nuova edizione di “resistenza nazionale”, di difesa dell’orgoglio e della “dignità nazionale” cioè tradotto in solido dei suoi interessi, dei suoi quattrini.


Qui noi registriamo che, dopo e oltre a “sinistri” e “marxisti” che applaudono alla Nato o comunque supportano la “rivoluzione libica”, affiorano decisamente e fioccano pur sempre “da sinistra”, anche “estrema”, ma questa volta anche nel campo di quanti hanno denunciato “l’aggressione alla Libia”, tutta una serie di prese di posizioni che si situano e convergono sul terreno della “difesa degli interessi nazionali” minacciati ed attaccati dai “poteri forti” extranazionali.

Sicché, sulla Libia (anche nella versione “sinistra” contro i bombardamenti) e poi sull’intero spettro delle questioni, il punto di vista e l’interesse di classe sono smarriti, spariscono, si confondono e si sciolgono nell’ “interesse del popolo”, nel concetto della nazione che dovrebbe rompere le catena della sudditanza rispetto “allo straniero”, sia questo il tedesco, il duo Sarkozy-Merkel o l’America.


Elenchiamo solo alcuni parziali e disparati di questi segnali che nella sostanza convergono, segnali di scivolamento che siamo chiamati ad identificare e ad affrontare di petto e per tempo:




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Concludendo


Al quinto dei punti su cui è stata convocata l’iniziativa odierna ci si chiede se “ci sono responsabilità nei cosiddetti settori politicizzati della classe” per la scarsa o nulla opposizione alla guerra. E’ una domanda evidentemente retorica.


Lo è se, dopo mesi e mesi di bombardamenti Nato sulla Libia, abbiamo potuto leggere cose del genere: “Il mondo intero assiste commosso alle immagini dei ribelli armati accompagnati dalla popolazione affamata e assetata di libertà democratiche che entrano nella capitale Tripoli... queste scene di uomini e di donne del popolo armi in mano che sventolano bandiere col pugno in alto levato, hanno tanta forza che non possono che rievocare le più grandiose vittorie di cui si è resa protagonista la nostra classe” e così via... (fino a dire, nella stessa dichiarazione, che dittatori quali Gheddafi o Assad oltre a negare “i diritti umani” e le libertà democratiche “affamano le masse”!!!). Da quale parte pensate sia venuta una tale descrizione di questo bel quadretto? Forse dagli accoliti di Obama o di Sarkozy o di Berlusconi o di Napolitano o di Niki Vendola? No. La possiamo leggere nella dichiarazione ufficiale di una qualche IV Internazionale (per la precisione se a qualcuno interessa, dal Segretariato della LIT–in Italia Partito Alternativa Comunista, data 27/08/11).


Si potrà dire che si tratta di caricature, di ininfluenti caricature “marxiste”. Certamente è così, sta di fatto però che simili porcherie possono circolare impunemente persino nel limitato perimetro del campo che si richiama al comunismo rivoluzionario. Ma soprattutto esse traducono in forme caricaturali il discorso che in vesti più “raffinate” e se vogliamo intelligenti viene fatto ad esempio da una Rossanda.


Al riguardo noi vogliamo concludere questo nostro intervento con una proposta per la discussione. Recentemente abbiamo postato sul nostro sito un commento a un editoriale molto significativo di Rossanda pubblicato sul manifesto del 23 ottobre. Abbiamo riprodotto il nostro commento in uno spillatino, che chi è interessato può acquistare. E’ un editoriale quello di Rossanda che articola in modo serio le argomentazioni a sostegno della cosiddetta “rivoluzione libica” fino a tracciare una coerente posizione di schieramento sciovinista e imperialista di guerra, democratico “umanitario” e “di sinistra” per le future Libie che ci aspettano.

Ecco, noi vogliamo porre questa questione a tutti i partecipanti all’assemblea: nel prosieguo della discussione impegniamoci a non omettere i macigni che la Rossanda ha sintetizzato efficacemente in poche battute, prendiamo di petto gli argomenti politici della Rossanda (che ci auguriamo qui tutti riconoscano come portavoce della banda “sinistra alternativa” del nemico di classe); ciascuno, ogni singolo organismo si impegni a rispondere e si proceda in questo modo per definire l’asse politico della potenziale ripresa in carico della battaglia di classe contro la guerra imperialista.


Un terreno di battaglia che non può essere omesso per chi vuole credibilmente indignarsi e lottare contro le conseguenze interne della crisi. Questo riguarda non solo l’Italia, perché riguarda quell’accenno di mobilitazione internazionale che abbiamo visto e vediamo oggi in diversi paesi.


Se ci saranno iniziative che vadano in questa direzione, e non a ricordare a Napolitano cosa sta scritto sull’art. 11 della costituzione, nei limiti delle nostre forze non faremo mancare la nostra partecipazione.