1) Conveniamo di dare questo nome al problema attuale di quello che, in altra epoca, si presentava come “questione nazionale e coloniale”. Il pieno dispiegarsi dell’imperialismo ha comportato (per vie tutt’altro che spontanee e naturali, bensì attraverso un ciclo di lotte cruente protrattesi fin oltre la morte storica del “vecchio colonialismo”) la fine della vecchia forma di dominio ed oppressione, come non più consona ai meccanismi ed ai fini del movimento del capitale. Ciò non significa, d’altra parte, negare l’esistenza di problemi di “liberazione nazionale” e di istanze “anticoloniali”, se non altro perché lo stesso imperialismo, pur non più paleo-colonialista, tende a riprodurre aspetti di oppressione nazionale e coloniale rispetto a certi paesi “naturalmente” sottoposti al suo dominio “indiretto”. Il punto, certamente, è che non potremmo risalire alle origini dell’oppressione attuale ed all’individuazione delle strade di liberazione da essa, rincorrendo schemi proprî di una fase ormai definitivamente passata (di capitalismo pre-imperialista).
2) “Dal vecchio al nuovo colonialismo”, si diceva sin dai tempi di Lenin. (In “Programma Comunista”, 1958, si legge di “colonialismo dell’epoca termonucleare”). Segnare questa linea di continuità significa sottolineare che le forme nuove di sfruttamento ed oppressione da parte di “un pugno di grandi potenze imperialiste” altro non rappresentano che l’adeguarsi delle forme di dominio alle esigenze onnipresenti e rettilinee (“sempre quelle”) del capitalismo, dalle sue origini alla sua morte. Sarebbe errato, invece, parlare di “neo-colonialismo”, alla stregua di molti opportunisti o cristianoidi, per far intendere ciò che non è: o un “residuo” del passato, o un “modello” non intrinseco alle leggi del capitalismo (o comunque intercambiabile, a volontà, dentro questo sistema). La teoria del “neo-colonialismo” in questa accezione appartiene tanto ai terzomondisti dalle cento rivoluzioni e dai cento socialismi “competitivi”, ognuno in casa propria, quanto ai demagoghi di pretesi “nuovi rapporti Nord-Sud”.
3) E’ pacifico che l’imperialismo non è una “politica” di questo o quello stato, ma la “fase estrema” del capitalismo, che contrassegna, di perciò stesso, la realtà internazionale del capitale, nel suo movimento e nei suoi sviluppi, tanto al centro che alla periferia. Logico dedurne che, “in ultima istanza”, la lotta contro l’imperialismo non può intendersi che lotta contro il capitalismo nel suo insieme e l’insieme, perciò, dei suoi meccanismi ovunque agenti e che non vi è “liberazione dall’imperialismo” entro i vincoli del capitalismo che non rientri nel gioco imperialista e non lo riproduca. Pacifico anche che l’oppressione imperialista non si basa, come nel vecchio colonialismo, su una semplice rapina di beni primari per l’accumulazione allargata del capitale nelle metropoli sulla base dell’assenza, nei paesi colonizzati, di strutture capitalistiche; al contrario, essa deriva da un’eccedenza di capitali metropolitani rispetto alle necessità di valorizzazione, col conseguente riversarsi in territori a bassa composizione organica in cui siano già presenti le condizioni locali di produzione di merci e classi proprie del capitalismo. Etc. etc.
4) Noi non contestiamo tutto ciò, già messo ottimamente in luce da padri e nonni nostri. Contestiamo invece, in primissimo luogo, il sillogismo per cui essendo tutto il mondo sotto l’insegna dell’imperialismo tutti i paesi “sono egualmente imperialisti”, in tutti i paesi si propone “la stessa lotta di classe” (internazionalista e proletaria “pura”; i più concedenti parlano di “alcune specificità” che tale lotta dovrebbe comunque assumersi pro domo sua). L’errore sta nel proporre 1’“ultima istanza”, l’obiettivo strategico della lotta rivoluzionaria, come istanza prima ed esclusiva; un po’ come quelli che schifano la lotta per 1’aumento di salario in nome dell’“abolizione del lavoro salariato”, senza di che si dà una mano alla riproduzione del capitale etc. etc. Alla base di queste “dottrine” estremistiche sta non un’ideologia confessa, ma un adattamento inconfessato ed inconfessabile alle condizioni dell’imperialismo metropolitano. E, non a caso, con “curiosa” inversione logica, si fanno le bucce alle “arretratezze” del movimento sociale della periferia anziché aggredire la questione al suo cuore metropolitano. (Perché è pur vero che – cfr. Engels – il proletariato metropolitano può, a date condizioni, “prendere in carico” gli “arretrati”, i “semicivili” – come si usava dire un tempo; è pura bestemmia, invece, dire che nelle metropoli il proletariato è “più avanzato”, così come sta oggi: “colonialismo” soggettivo particolarmente atroce rispetto a chi da solo si è mosso per decenni di “pace sociale” metropolitana) .
5) La lotta contro 1’imperialismo non può nascere dalla “constatazione” che “ovunque” (ed ovunque “egualmente”) domina il capitalismo. Certe teorizzazioni sull’“oggettività dell’imperialismo” vanno a cadere in questa forma di idealismo. Se è sicuramente essenziale comprendere il movimento del capitale come un tutto, anche e proprio per uscirne per via rivoluzionaria anche alla periferia, è altrettanto indispensabile comprendere che questo “tutto” si articola in meccanismi di dominio ed oppressione, di scontri di classe che non ci presentano solo due protagonisti: il proletariato internazionale e la borghesia internazionale, ma un intreccio assai complesso: capitalismo delle metropoli, classi borghesi della periferia, classi “duplicemente oppresse” della periferia e classe operaia oppressa (“singolarmente”) della metropoli. Perciò, parlando di lotta anti-imperialista, non parliamo di un’“unica” lotta contro il Capitale, ma di un intreccio di lotte il cui esito (“in ultima istanza”) può e, per quel che ci compete, dev’essere (petizione soggettiva) la dittatura proletaria, il socialismo e chi più ne ha più ne metta. Dalla dama passiamo agli scacchi.
(I teorici dell’“integrazione borghese” delle lotte rivoluzionarie anti-imperialiste “spurie” fanno il paio, come logica, con quelli dell’‘integrazione” della classe operaia metropolitana.)
6) Alla lotta contro 1’imperialismo sono interessate più classi, indipendentemente dalla loro storica capacità di condurla avanti “sino in fondo”. Non esiste un “unico blocco rivoluzionario” internazionale, come non esiste un “unico blocco reazionario” alla stessa scala. All’interno di quest’ultimo gregge di vacche tutte nere (al buio) esiste una borghesia metropolitana pappona ed una borghesia della periferia che, pur tacitata da royalties e sinecure nonché dal patto “comune” contro il proletariato, non stanno sullo stesso piano. (Cosa che non ci interessa per definire “preferibile” o “rivoluzionaria” la borghesia nazionale, non meglio definita, ma per capire meccanismi che inferiscono direttamente sulle classi che ci interessano come soggetti rivoluzionari). La rapina imperialista non si basa, oltretutto, sui soli poteri “naturali” del proprio attrezzaggio produttivo e finanziario, ma anche su determinate politiche, su cannoniere, servizi più o meno segreti etc. etc. per conservare e potenziare determinati rapporti prefissati. Insomma : non solo una scala gerarchica, a meno di dire che tra il colonnello che manda al macello il semplice milite e quest’ultimo c’è solo una “scala gerarchica”. Con sicuro istinto il movimento rivoluzionario della periferia va ad aggredire questi aspetti del prelievo e del comando imperialista, condizione non sufficiente, ma necessaria per zompare un po’ oltre.
7) La stratificazione sociale e politica cui 1’imperialismo dà luogo, nelle metropoli e nella periferia, è emblematica.
Non abbiamo qui una “normale” borghesia né una “normale” democrazia, ma: (socialmente) una borghesia “compradora” il cui rapporto con i “padroni” imperialisti è tutt’altro che “paritaria”, sia pur gerarchica; una sopravvivenza di forme sociali feudali (sempre funzionale ai meccanismi di dominio imperialista) (quindi: sopravvivenza dal punto di vista storico astratto, ma non da “arretratezza” cui rispondere con programmi antifeudali); una piccola-borghesia produttiva ed intellettuale (o militare) riottosa al dominio; una massa sterminata di proletari, semi-proletari, piccoli produttori in bilico tra il ruolo di piccoli accumulatori e la ricaduta nella proletarizzazione. E (politicamente): un apparato di controllo dipendente dall’imperialismo in funzione controrivoluzionaria verso il proletariato e le stesse ambizioni di rivoluzionamento “borghese” non squilibrato. (Cfr. Quaderni Marxisti n.3). Tanto basta a definire il quadro entro cui si svolge la lotta rivoluzionaria che ha per posta “in ultima istanza” (ed a scala internazionale) la rivoluzione e la dittatura proletaria mondiali.
8) Quand’è che comincia e quand’è che finisce l’imperativo della “rivoluzione democratica” (“borghese sino in fondo”)? Nel penultimo numero del Bolshevik Message si dice: la rivoluzione anti-imperialista, cui si applicano queste categorie, sarà sempre attuale sinché ci sarà imperialismo. L’espressione è buttata giù di corsa e può sembrare banale, ma nasconde una verità essenziale. L’imperialismo, finché non sarà battuto dalla rivoluzione proletaria mondiale, è destinato a produrre di continuo rivolte contro il proprio dominio e finché queste non troveranno la via della “rivoluzione in permanenza” non potranno mai considerarsi chiuse da sopravvenute modifiche istituzionali. Ogni “rivoluzione inconseguente” (e sempre lo è, di regola, una rivoluzione non centrata sul proletariato e le classi povere come autonome protagoniste di potere) non può che scalfire alla superficie i meccanismi di rapina imperialistica, anche quando all’interno si modifichino i rapporti tra le classi, con l’assunzione da parte di ceti borghesi di funzioni dirigenti “più nazionali” più “in prima persona”. Si crea così sempre, di continuo, la necessità di un sostanzioso supplemento di rivoluzione. Supplemento nel quale non cambia 1’oggetto (la rivoluzione democratica borghese sino in fondo), ma in cui si rende “più limpida” l’atmosfera dei rapporti tra le classi anche all’interno del paese e, con ciò, maturano le condizioni oggettive della trascrescenza verso dittatura proletaria. Il ciclo che “si è chiuso” non è quello di questa rivoluzione, ma soltanto quello dell’illusione, materialmente sostanziata, di un possibile “blocco nazionale” indifferenziato di “tutte le classi del popolo”.
9) Quando si parla di “rivoluzione democratica” (borghese) si incorre in una incomprensione assai diffusa. Se ne parla, da troppe parti, come di una fase in cui i vari protagonisti sociali siano ancora uniti tra loro da “interessi comuni” indifferenziati o, comunque, si intende l’aggettivo “borghese” come una sorta di impaccio preliminare di cui il proletariato dovrà sbarazzarsi al più presto. In realtà, il piccolo segreto di questa rivoluzione è che i suoi compiti borghesi non definiscono un interesse della borghesia, ma del proletariato e delle altre classi oppresse e ciò per tutto un lunghissimo arco di tempo (un “processo” fatto di “tutta una serie di rivoluzioni”, Lenin), durante il quale la promozione dei compiti “borghesi” per sé da parte del proletariato va inesorabilmente avanti, sbarazzando il campo dalle “impurità” sociali e politiche. Ricordiamo la “prudenza” di Lenin nel maneggiare le categorie di “socialismo” e “dittatura del proletariato”. Non a caso, contro tutti i faciloni adialettici (del calibro di un Bucharin e di un Trotzkij, non di un pinco qualsiasi), egli “scandalizza” i compagni parlando di compiti “capitalistici” per il “governo operaio e contadino con deformazioni burocratiche” e sottolinea la complicazione – per i compagni – di una classe operaia che, dopo la presa del potere (politico) deve difendersi verso il “suo” stato. La parola “dittatura proletaria” non va sprecata. E c’è chi la vorrebbe sprecare oggi “attualizzandola” per la Libia, putacaso, dove non esistono né le condizioni economico-sociali interne, né quelle soggettive interne ed internazionali per porre le basi del gran passo “non a spreco”.
10) Abbiamo, perciò, tutte le ragioni per vedere come la borghesia non compradora dei paesi oppressi sia in grado “solo” di opporsi come forza controrivoluzionaria al proprio proletariato senza riuscire a toccare decisamente i meccanismi di controllo e dominio imperialista. Ma se il primo punto non fa che evidenziare la necessità di un’ulteriore “decantazione” di campo, il secondo non solo non esclude, ma vede anzi più che mai attuale il programma della rivoluzione democratica borghese nelle mani del proletariato e delle altre classi oppresse. La conquista dell’indipendenza politica da parte del proletariato avviene ab intus, non dall’esterno di questo processo, tanto nella prima fase (di rivoluzione portata per le vie inconseguenti dalle forze borghesi egemoni) quanto nella successiva (di rivoluzione fondata sul “protagonismo” delle masse sfruttate) . Dire che, ad un certo punto, è finita l’epoca, o il momento, della rivoluzione democratica, basandosi sul “trionfo” della borghesia nazionale (dal punto di vista della conquistata indipendenza formale, politica ed economica), significherebbe dire che sono venuti meno i meccanismi fondamentali di dominio e controllo imperialista. (E chi mai ci avrà messo fine?) .
10 bis) Prendiamo, un esempio specifico: la Libia. Qui c’è stata, nel’69, una rivoluzione effettiva (fine della monarchia compradora, eliminazione delle basi militari straniere, taglio delle unghie alle vecchie classi possidenti, superamento della divisione tribalistica e regionalistica del paese etc. etc.) condotta, non per caso, da un’élite militare (quindi: mini-rivoluzione, se volete, dall’alto, masse assenti nella sua preparazione e definizione iniziale). Questa rivoluzione, dal punto di vista economico, non poteva che preparare le lontane condizioni di una modifica radicale dei suoi assetti, limitandosi, per forza di a “ricontrattare” con 1’imperialismo le “royalties” petrolifere ed a destinarle diversamente nella distribuzione al “popolo” e rispetto agli investimenti produttivi. Per l’immaturità di tutte le condizioni oggettive e soggettive, non si poteva andare oltre (e fin qui Gheddafi va plaudito come il top della rivoluzione possibile). Dopo di che? Dopo di che si sono messe in moto condizioni più avanzate di sviluppo della rivoluzione democratica borghese. Problemi di estensione del processo rivoluzionario all’area, di mobilitazione diretta delle masse, intanto cresciute di peso e possibilità di coscienza, ma sempre di fronte a questi problemi “borghesi”. Senza e contro Gheddafi? Vada. La questione sta nel come si va “oltre e contro” la sua leadership. Invocando la “dittatura proletaria”? Implica essa un programma? Quale, di grazia? Non scopriremo che, sotto questo nome tanto caro a chi teme di sporcarsi le mani con altre diciture, rispuntano gli stessi compiti, le stesse forze sociali etc. proprie della vituperata rivoluzione democratica borghese?
Sempre per essere “concreti”: e il Cile? Non c’è dubbio che in Cile i rapporti interni tra le classi, dal punto di vista economico-sociale e politico, sono incommensurabilmente diversi. Il proletariato vi rappresenta una forza centrale, ricca di tradizioni sue (cioè: si è già definito in nuce come classe “per sé”), 1’asse centrale attorno a cui le varie frazioni borghesi controrivoluzionarie fanno eventualmente i loro giochi per le loro lotte intestine. L’aspetto di dominazione imperialista, senz’altro esistente, non passa per semplici “compradores” e “uomini di paglia”, ma attraverso una ben definita rete economico-sociale e politica. La lotta contro l’una e l’altra si presenta come “due compiti fusi in uno”. E, tuttavia, anche qui non è il caso di “sprecare” la parola d’ordine della “dittatura proletaria”, bensì di mantenerla fissa come obiettivo che si renderà attuale attraverso l’assunzione da parte del proletariato dei compiti di lotta contro la dittatura interna e le sue forze “democratiche” di ricambio e contro l’imperialismo straniero. La dittatura proletaria, anche qui, non è una premessa metodologica, ma una conseguenza (a partire da un programma che dovunque, anche nel paese più arretrato, contempla il punto d’arrivo della dittatura proletaria).
Mi si risparmi di spiegare perché in Italia non parliamo di “rivoluzione democratica”…
11) Riassumendo: nei paesi oppressi dall’imperialismo si danno per definizione condizioni economiche, sociali e politiche tali che la lotta all’imperialismo (sulla strada, si possumus, della rivoluzione proletaria internazionale) assume forzatamente i contorni della “precondizione” rivoluzionaria democratica; nei paesi in cui il peso dell’imperialismo si fa sentire, direttamente e indirettamente, in compresenza di una consolidata borghesia nazionale in qualche modo indipendente da tempo sulla scena, non solo si ha una diversa stratificazione di classe (sociologicamente intesa) , ma una diversa tradizione politica, una diversa “storia” del proletariato, per cui meno che mai si può ipotizzare una semplice rivoluzione democratica a conduzione di classe multipla, sulla base di “comuni” interessi, essendosi già definiti i campi nell’esperienza delle lotte (ed anche in questo caso, comunque, la formula “dittatura proletaria” va presa – e lanciata – con le opportune cautele, per non trovarsi poi a chiamare con nome altisonante una realtà molto più prosaica, con l’effetto di mistificare realtà e compiti). Nei paesi che fanno parte della gerarchia imperialista l’attacco proletario “puro” allo Stato borghese si pone senza precondizioni di sorta (pur rimanendo inteso che neanche in questo caso – lo annota recisamente Amadeo;– siamo in presenza di un ambiente “puro” che non ci imponga percorsi di lotta con altri strati e classi).
Una nota su quest’ultimo punto. Quando Lenin ipotizza anche per paesi metropolitani la possibilità di una lotta proletaria contro l’imperialismo, non cade in contraddizione. Un proletariato forte non può essere “astensionista, “né aderire né sabotare”; può invece ben volgere le proprie esclusive armi di classe nella lotta contro l’aggressione imperialista a misura che esso sì renda capace di farlo in una con lo scatenamento della lotta rivoluzionaria proletaria, facendo strame della borghesia nazionale e tirandosi dietro anche classi non proletarie. Un esempio: se il proletariato polacco ne avesse avuto la forza, di fronte ad un’invasione russa avrebbe legittimamente difeso una Polonia proletaria, non aspettando prima la disfatta della “propria” borghesia per poi fare la sua parte, ma assumendosi direttamente compiti di guerra sociale rivoluzionaria. (Questa questione dei tempi è, a mio avviso, estremamente importante, e porto a suffragio della “mia” tesi persino una annotazione “eretica” di Amadeo, sbagliata quanto a valutazione dei fatti, ma profondamente giusta nella sostanza “metodologica”).
11 bis) E’ giusto il criterio seguente, che riprendo dai “beghisti” (senza fargli il piacere di concedergliene 1’invenzione), per definire quando cessa di essere distintivo il quadro n° 1 di cui sopra: “…I1 dato fondamentale è che questo nuovo squilibrio tra paesi di antica e recente industrializzazione (dopo l’avvento di una vera rivoluzione, n.) si basa sugli elementi propri della concorrenza intercapitalista, sulla lotta tra il capitale più forte e il capitale più debole, sui processi di concentrazione che si instaurano tra paesi sviluppati e paesi arretrati, e non più sul fatto che questi ultimi funzionino da semplice fattore di prelievo di rendita tra altri paesi capitalisti, cioè da terreno di scontro passivo (?) della concorrenza internazionale. Questo fenomeno ha un’enorme importanza rispetto ai rapporti interni della borghesia internazionale e, oltre a mettere in moto la formazione di un proletariato locale moderno inserito direttamente nelle tendenze generali della lotta di classe, gli apre la possibilità di prender parte attiva, come fattore rivoluzionario in senso comunista, nella lotta intercapitalistica per la sopravvivenza (?)”. A parte le parole di colore oscuro, lo “schema generale” può andare. Si tratta di vedere come e dove lo si applica, specie dopo che leggiamo che la borghesia “si fermerà inevitabilmente al punto in cui finiscono i suoi interessi immediati di accumulazione”. Questo stop della borghesia equivale ad uno stop della rivoluzione democratica borghese? Qui sta il punto.