nucleo comunista internazionalista
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IMMOBILISMO «DIALETTICO»
E QUESTIONE COLONIALE

Non è di nostro gusto gioire della stupidità altrui, anche se ci permette di apparire più intelligenti di quanto non siamo. E’ comunque un indubbio segno di buona salute il fatto che chi ci critica sulla base della «tradizione della sinistra italiana» non appartenga alla nostra organizzazione, anche se, dopo aver detto peste e corna di noi, passa a strimpellare serenate d’amore che vorrebbero preludere alla marcia nuziale. Se l’errore è necessario per tirarne delle lezioni, secondo una massima anche troppo sfruttata, è mille volte desiderabile che l’errore sia commesso al di fuori delle nostre file e ci consenta di confermare posizioni che riteniamo fisse e non destinate a mutare ad ogni stormir di foglia.

L’ironia della sorte è che i nostri zelanti correttori in nome della presunta “dialettica” che tutto cambia, propongono sempre miglioramenti che ci riportano ad errori più vecchi di loro, mentre il loro continuo movimento si tramuta in completo immobilismo.

La questione nazionale e coloniale è un osso duro che studiosi e militanti della scienza marxista di ben altro calibro hanno fatto fatica a masticare; ragione di più per ritenersi già a buon punto quando si è riusciti a ripetere e catalogare posizioni “vecchie” ed acquisite.

Quale, oggi, la caricatura delle tesi della Luxemburg o di Piatakov?

Che i comunisti non possono e non devono aiutare altri popoli «a superare l’economia feudale»; che la fase storica delle rivoluzioni e quindi anche delle guerre coloniali, dopo che si è chiusa in Europa, è finita o divenuta “marginale” in tutto il resto del mondo a causa del peso frenante dell’imperialismo, il quale anzi è talmente padrone di ogni singolo destino nazionale da essere l’unico attore che ormai recita un monologo (possibilmente quello di Amleto, visto che la vittoria del proletariato, stando così le cose, potrà solo scaturire dalla autodecisione dell’imperialismo di... “non essere”); che l’interesse dei comunisti alle pretese lotte di popoli oppressi è «commisurato alla possibilità concreta di spostare l’asse dal piano nazionalista a quello della lotta del proletariato internazionale sotto la guida della sua avanguardia rivoluzionaria»; che, per conseguenza, l’auspicio che l’imperialismo più potente (ma la grossolanità di simile “dialettica” è tale, per cui non si distingue fra uno stato imperialistico e un altro!), esca sconfitto o “ridimensionato” da una guerra contro di esso, è un vezzo “intellettuale” che ci fa cadere nel “baratro dell’idealismo” e che, se fossimo logici (cosa esclusa a priori), ci farebbe confluire verso la collaborazione con uno dei due blocchi (si raccolgono firme per la causa Nixon-Breznev: coraggio!).

Ognuno è evidentemente libero di elaborarsi delle teorie o delle previsioni su misura, pretendendo di raccogliere attorno ad esse delle forze, ma la serietà “intellettuale” e l’onestà politica dovrebbero almeno imporre che si prenda chiaramente partito e si smetta di dire le cose meno leniniste e meno consone alla “tradizione della sinistra italiana” nel nome di Lenin e di una “sinistra italiana” destinati a divenire due nomi continuamente biascicati in una liturgia funebre sulle posizioni fondamentali da essi stessi difese.

Sostenere le tesi che abbiamo delineato e iscrivere fra le posizioni caratteristiche «la solidarietà di classe con le popolazioni in rivolta contro ogni forma di colonialismo, sotto la guida del proletariato indigeno ed internazionale» non è solo cadere in una contraddizione palese, ma giocare e risolvere con frasi vuote questioni che coinvolgono i destini di razze, popoli, classi.

Il problema centrale di ogni questione nazionale e coloniale per il proletariato dei paesi avanzati e oppressori (e non solo in forma diretta, ma attraverso tutte le forme indirette e di solidarietà con gli oppressori diretti), non è affatto quello di essere solidale “nella misura in cui” le altre popolazioni sono disposte, bontà loro, a farsi dirigere da un proletariato sconfitto e, parzialmente e temporaneamente, solidale con la propria classe dominante nello sfruttamento degli altri popoli; è invece quello di dissolidarizzare dalla propria borghesia, di rompere in altri termini l’unione sacra che lo unisce ad essa, indipendentemente dalla reale possibilità di collegarsi con le lotte anticoloniali.

Poste così le cose, è evidente che tali lotte si possono considerare da due punti di vista che corrispondono ad aree e compiti diversi (anche se in prospettive convergenti): da una parte il proletariato dei paesi imperialistici, che ha il dovere di lottare contro la propria borghesia e quindi contro la sua politica di oppressione dei popoli arretrati (o anche non tanto arretrati), dall’altro il proletariato dei paesi arretrati che appoggia la propria borghesia nella misura in cui è antimperialistica e la sostituisce dove e quando è possibile, con l’appoggio del popolo (essenzialmente delle masse contadine povere, espropriate o ridotte in miseria su microscopici fazzoletti di terra, magari di grandi proprietà latifondiste), assumendosi un ruolo trainante nella questione nazionale e coloniale. Si tratta dunque di due strategie, perché due sono le situazioni storiche (entro le quali, è evidente, infinite sono le sfumature e anche esse non vanno dimenticate), che non contraddicono affatto alla tesi che l’organizzazione del proletariato dev’essere unica e centrale sul piano mondiale. Organizzazione unica non vuole affatto dire tattica uguale per tutti, bensì piano tattico definito e impegnativo per tutti sulla base delle fasi storiche determinate.

L’errore indifferentista è dunque essenzialmente meccanicistico, anche se ciancia di cambiamenti e di dialettica: con l’argomento che i popoli arretrati non possono emanciparsi dall’imperialismo (tesi che, presa in senso assoluto, può anche esser giusta), esso trascura il “piccolo” particolare che è appunto una situazione del genere che diventa esplosiva in determinati sviluppi, ed è proprio in paesi in cui la borghesia è debole e oltretutto venduta all’imperialismo, che assumono importanza fondamentale gli strati famelici di contadini e masse senza terra. A questi che cosa può dire il proletariato? Fate il piacere di farvi dirigere da me e, siccome io ora non sono affatto pronto, né sul piano locale né su quello internazionale, non prendete alcuna iniziativa, che tanto è solo una manovra imperialistica, in quanto la vostra «lotta si accende e si spegne [...] secondo una logica che si sviluppa al di sopra dei modesti limiti nazionali»? Questa è una “solidarietà di classe” degna dei vecchi rinnegati alla Plekhanov (ma un tempo grande marxista!) e del loro «non bisognava prendere le armi»!

La questione terra terra è la seguente: per qual ragione si muovono queste masse? Fino a che punto possono spingere la loro lotta, e quando è possibile l’aggancio con il movimento proletario (e, in seguito, a che punto ne pretenderanno lo sgancio)? Le eterne questioni delle doppie rivoluzioni: quelle del 1848, quelle delle «Due tattiche», del 1905, del 1917, indipendentemente dal fatto che la borghesia sia o no matura, possa o non introdurre uno «stato nazionale omogeneo e indipendente» (che era invece quello che pretendevano i menscevichi). Già, perché siamo sempre lì. Invece di richiamarsi alla “sinistra italiana”, bisognerebbe professarsi per il menscevismo, magari dicendo che allora aveva ragione Lenin, ma, oggi, oggi è tutt’altra cosa!

Questa gente che crede di opporsi al nostro preteso «determinismo acritico» operando «in termini di dialettica di classe» non solo ignora le classi nei paesi in cui la borghesia non si è potuta sviluppare, ma ignora, come Lassalle, che anche nei paesi più sviluppati le classi non sono soltanto due e che, accanto all’antagonismo fondamentale fra proletariato e borghesia, vi sono gli antagonismi degli strati più diversificati (e anche entro il proletariato). Non a caso, se si sbaglia nella questione nazionale e coloniale, non è solo il programma del proletariato delle colonie, ma quello di tutto il proletariato che ne fa le spese. L’egemonia imperialistica non si regge solo sullo sfruttamento del proletariato metropolitano, ma anche sulla spoliazione di popoli interi, e le contraddizioni fra questi poli di classi e di paesi sono destinate ad incrociarsi e alimentarsi a vicenda.

La “dialettica” raggiunge il colmo quando si tratta «delle nuove egemonie che non hanno bisogno per dominare dell’occupazione militare e del possesso territoriale, e possono permettersi il lusso di solidarizzare con le forze progressiste e con le rivoluzioni... nazionali» (i puntini sono una sottile ironia sul fatto che evidentemente l’Algeria, Cuba, il Vietnam, la Cina, ecc. non sono rivoluzioni nazionali, ma creazioni dell’imperialismo stesso!). Qui si misura tutto il “baratro dialettico-materialistico” di simili analisi! Si parte col mettere sullo stesso piano tutti gli imperialismi, ignorando – a meno che non si sostenga apertamente la tesi del superimperialismo di Kautsky – che la nozione stessa di imperialismo significa per i marxisti lotta a coltello fra paesi imperialistici in concorrenza reciproca ed è il terreno della loro inevitabile guerra reciproca. Si continua dicendo che «le nuove egemonie» non hanno bisogno dell’occupazione militare, ignorando che tutto l’impero russo si regge sull’occupazione e la repressione militare (e non tocchiamo qui il punto che l’imperialismo russo è solo territoriale e militare, proprio perché non ha i mezzi. tipici dell’imperialismo moderno analizzato da Lenin, cioè le finanze). Si prosegue dicendo che questi briganti solidarizzano con le forze progressiste, quando i russi (non parliamo degli americani che si alleano regolarmente con i Pinochet) hanno puntualmente boicottato le forze borghesi progressiste e hanno come mira solo un aumento della propria sfera di influenza per cui necessariamente tendono a favorire le forze nazionalistiche piegate alla loro influenza, e quando perfino i cinesi hanno appoggiato le repressioni di una Bandaranaike a Ceylon (1). Si finisce col dire che le rivoluzioni nazionali ci sono, ma le fanno gli imperialisti!!!

Se prendiamo anche solo l’imperialismo americano, è evidente che “il lusso” di non occupare militarmente l’Europa deriva dal fatto che non solo i paesi vinti sono stati ridotti a suoi vassalli economici e politici, ma anche dal fatto che militarmente sono tutti sotto il suo controllo, compresi i vecchi alleati, nell’ambito della Nato che lascia agli americani l’armamento nucleare e le basi in tutto il mondo, cioè l’occupazione militare del mondo!

Questa gente che subordina “l’interesse” per le lotte coloniali alla «possibilità concreta di spostare l’asse dal piano nazionale a quello della lotta del proletariato internazionale sotto la guida della sua avanguardia rivoluzionaria» ritiene decisamente che “l’interessarsi” di un determinato svolgimento significhi sacrificare ad esso le proprie forze, mentre lo studio di tutti i fenomeni storici e le previsioni sulle loro possibili ripercussioni nelle lotte di classe sono indispensabili per un partito che intenda agire praticamente e non limitarsi a dire frasi generiche. Accusarci di avere auspicato la vittoria antiamericana nella guerra di Corea, non ci fa né caldo né freddo, e solo un idiota può interpretarlo come “simpatia intellettuale”. Noi siamo andati ben oltre: abbiamo perfino detto che sarebbe stato più proficuo, per la ripresa della lotta di classe nel mondo, che l’America e i suoi alleati fossero stati sconfitti nella seconda guerra mondiale. Ci si dirà che abbiamo una “simpatia intellettuale” per il nazismo, o l’amore del paradosso? Tutti possiamo vedere il risultato della vittoria angloamericana: l’oppressione su tutto il globo, che ad alcuni annebbia la vista a tal punto da credere che essa giunga a determinare tutto quanto succede nell’angolo più remoto della terra!

Era evidente che nella guerra di Corea gli interessi dei due grandi sovrastavano quelli del popolo coreano che forniva carne da cannone per stabilire da quale dei due essere spogliato. Ma se questo fa dire ai “super-dialettici” che allora non ce ne interessa nulla, ai comunisti fa dire quello che abbiamo scritto allora, identificando le masse povere e martoriate di Corea con tutti i proletari del mondo «vittime predestinate del terzo macello» (v. «Corea è il mondo», ora in Per l’organica sistemazione dei principi comunisti, p. 187). Intellettualismo o sentimentalismo? Niente di tutto questo, ma comprensione del fatto che vittime dell’imperialismo non sono soltanto i proletari ma masse contadine e popoli interi depredati e spogliati la cui sacrosanta rabbia non solo “interessa”, ma è preziosa per la lotta del proletariato dei nobili, civili, indipendenti, omogenei, borghesissimi paesi “avanzati”. Non capire questo, equivale a fare della “lotta all’imperialismo” o della “solidarietà con le lotte anticoloniali” una frase vuota e della dialettica un arnese senza alcuna utilità.

La dialettica è un’arma per comprendere i fatti, per “interessarsi” di tutti i fenomeni senza per questo rinunciare alla propria indipendenza di critica, di tattica, di organizzazione. I marxisti studiano tutte le contraddizioni che oppongono proletari a borghesi, che fanno oscillare gli strati intermedi della società fra gli uni e gli altri, che oppongono borghesi di un gruppo di nazioni a borghesi di un altro gruppo e nazioni ricche a nazioni povere, e guardano con grande interesse ai risultati di lotte cui non possono prendere parte (o per insufficienze organizzative o per questioni di principio). Sulla guerra scrivevamo per esempio ne “Il corso storico del movimento di classe del proletariato” (v. Per l’organica, ecc., p. 90): «La guerra è indubbiamente una risultante di cause sociali ed i suoi esiti militari si inseriscono come fattori di primo ordine nel processo di trasformazione della società internazionale, interpretato materialisticamente e classisticamente».

Vi sono fasi storiche in cui è nostro dovere influire per quanto possiamo su un certo esito della guerra. In altre assolutamente no. Ma l’esito ci interessa sempre, perché cambia i rapporti precedenti e riproduce questioni che secondo i professori la storia ha già risolto, come per esempio la questione nazionale tedesca nel 1970 e chissà fino a quando, alla faccia di chi ci ricorda che la Germania si è costituita in stato nazionale nel 1871. Chi crede che intendiamo lanciare una crociata di simpatia per l’unificazione tedesca vada pure a farsi fottere; ma chi pensa che il fatto della divisione tedesca non influirà sulla ripresa del movimento di classe in Europa, perché la questione nazionale è stata chiusa nel 1871, è comunista solo per un equivoco, uno spiacevole equivoco.

(1) L’ultimo istruttivo esempio di “appoggio alle forze progressiste” è proprio dato dalla Cina: Le Monde del 13 dicembre riferisce della visita del nuovo re del Nepal, Birendra, in Cina e del fervido augurio dei dirigenti di questo paese che proseguano i rapporti “di buon vicinato col regno del re Birendra”, regno in cui «la monarchia è fragile, dovendo far fronte ad un’agitazione studentesca e alle rivendicazioni dei democratici». Il giornale francese nota poi che questa contestazione può essere sfruttata dall’India come nel caso del Sikkim. Questo spiega anche il discorso di Ciu En-lai alla coppia di monarchi reazionari del Nepal sull’appoggio cinese contro le «ingerenze straniere». Come si vede, qui l’appoggio – se di appoggio si può parlare – alle forze borghesi non viene dalla Cina – che ai democratici borghesi preferisce un regno reazionario;– ma dall’India (e non ci interessa se nel gioco dei rispettivi interessi nazionali).

(Il Programma Comunista N. 2/1974)