Al centro di questo nostro contributo per i 100 anni dalla fondazione del Partito Comunista d’Italia, sezione dell’Internazionale Comunista, poniamo la questione del presente e del futuro che abbiamo innanzi: a che punto siamo col problema dell’organizzazione politica rivoluzionaria, del Partito di classe Internazionale per e della Rivoluzione proletaria e comunista? Posto che per noi l’organizzazione politica dei rivoluzionari, il Partito, è strumento indispensabile per la vittoria della Rivoluzione Internazionale, in difetto del quale anche la massima esplosione di santa spontaneità proletaria risulta impotente a sconfiggere e schiacciare il potere del regime borghese (si pensi alla forse più alta e straordinaria espressione di questa santa spontaneità rivoluzionaria di massa sinora espressa dal proletariato mondiale: la gloriosa lotta e la sconfitta dello Spartakus proletario e comunista “solo contro tutti” in Germania nel primo dopoguerra).
Sembrerebbe che, come nel gioco dell’oca, siamo tutti quanti ritornati alla casella di partenza. Più poveri e scalzi di quando eravamo partiti. Anzi: non “sembrerebbe”, il dato di fatto immediato è senz’altro questa sconsolante situazione.
La piccola e minima storia del nostro raggruppamento politico attesta proprio questo penoso dato di fatto: la ristretta ma ben piantata e inquadrata pattuglia di rivoluzionari comunisti che si era costituita e organizzata nell’O.C.I.-Che fare è saltata per aria nel 2003 (innescando la progressiva frantumazione: il sottoscritto Nucleo ne uscì nel 2007). Essa aveva dato magnifica prova, soprattutto al tempo della crisi e della guerra di Jugoslavia (1999) di che cosa è (di che cosa può e deve essere) una Organizzazione politica comunista rivoluzionaria affrontando, visiera abbassata, le soverchianti forze della contro-rivoluzione. Prendendo esemplarmente per le corna a 360 gradi ogni aspetto della lotta: teorico, programmatico-politico, militante e “fisico” sul campo.
Possiamo solo immaginare l’impatto e il peso specifico che un simile pugno di militanti, una simile vigorosa compagine comunista rivoluzionaria avrebbe nella situazione odierna. Ora che il tempo terribile della catastrofe capitalistica mondiale è finalmente giunto, dopo un lungo rimando storico (del quale la borghesia mondiale ha da ringraziare in particolare lo straordinario sviluppo capitalistico cinese: grazie Cina! grazie fabbrica-del-mondo, fabbrica di plusvalore Cina!) e si staglia innanzi l’altrettanto terribile ma entusiasmante al tempo stesso, aut-aut storico: distruzione del Moloch-Capitale O distruzione generalizzata di uomini e cose, Rivoluzione proletaria O guerra imperialista, vittoria del Socialismo Internazionale O sprofondamento nell’abisso della civiltà borghese.
Ma “immaginare” non serve a niente né abbiamo alcuna intenzione di attardarci nel “rimpiangere il passato”. Tutt’altro. Noi pensiamo, crediamo e guardiamo con grande ed intatta fiducia al futuro, al futuro travolgente della Rivoluzione di cui sarà protagonista la marea incontenibile dei senza-riserve prodotta dallo stesso capitalismo. Il futuro appartiene alla Vita-Rivoluzione e non alla Morte-civiltà borghese! Vediamo il vulcano in paurosa ebollizione. Così come vediamo le forze della contro-rivoluzione, debordanti ma niente affatto invincibili, manovrare ai suoi bordi, così vediamo e sentiamo la enorme Forza della Rivoluzione proletaria internazionale muoversi sottotraccia talora emergendo, qua e là, alla superficie nelle forme più confuse ed incredibili. Forza inarticolata, ancora del tutto “incosciente di sé” del tutto quindi esposta ad essere castrata e riassorbita dalle forze della conservazione e della contro-rivoluzione borghesi. Il raggruppamento e l’organizzazione politica dei comunisti è necessario e indispensabile proprio per scongiurare un tale esito “spontaneo” della lotta di classe.
Potremmo in questo senso dire, a proposito dei compiti dei rivoluzionari comunisti a scala internazionale: Livorno ’21 è il mondo!
I dieci punti programmatici stabiliti come fondamenta del Partito della Rivoluzione proletaria 100 anni fa non sono un reperto fossile di una storia passata, morta e sepolta. Sono al contrario, oggi più che mai, la lama di un pugnale di cui il proletariato internazionale dovrà re-impadronirsi per piantarlo alla gola del Moloch. Li trovate, su questo sito, in calce al nostro “Chi siamo”, condensando essi il nostro programma politico per il presente e per il futuro.
Questa bruciante attualità della rottura rivoluzionaria rappresentata da Livorno ’21 spiega la rinnovata valanga di fango che in occasione del centenario i servi multicolori della borghesia – particolarmente fetenti soprattutto i servi “progressisti” dell’imperialismo democratico particolarmente scatenati in seguito “al trionfo” della democrazia appena sancito negli Usa cioè nel cuore del “mondo libero” – hanno riversato contro la corrente genuinamente marxista che ha fondato il Partito della Rivoluzione e contro la figura che la ha incarnata cioè Amadeo Bordiga.
Se i servi multicolori della borghesia (“intellettuali” e “storici” da strapazzo) che con il centenario di Livorno’21 hanno avuto l’occasione di vomitare addosso alla Sinistra Comunista “italiana” e a Bordiga suo rappresentante di maggior spicco il loro (giustificato) odio di classe (da noi altrettanto ricambiato) facendo ricorso persino alla falsificazione dei fatti storici, se hanno (per l’ennesima volta) mentito sapendo di mentire è perché questa gente e la classe di cui sono servi fiuta esattamente in giro per il mondo puzza di bruciato. Avverte nell’aria puzza di Rivoluzione, brutta-sporca-e-cattiva. Soprattutto cattiva, molto cattiva. Cattiva, “anonima e tremenda” proprio come l’ha descritta e prefigurata Amadeo.
(Diversi compagni ci segnalano che in questa campagna spicca il caso del giornale “comunista” Il Manifesto, in particolare ci riferiscono dell’infame inserto “profondo rosso” pubblicato il 22 gennaio per “celebrare” il centenario. Compagni: ma di che vi stupite? Di che vi indignate? Vi aspettate forse almeno un “giudizio equilibrato”, una “verità storica”, dalle colonne di un organo (organetto) dell’imperialismo democratico che puzza lontano un miglio di Inclusive Capitalism green, pink and rainbow, di Open Society Foundation, di sacrestia vaticana frazione gesuita Bergoglio?)
Lo stravolgimento persino dei fatti storici esibito per l’occasione da parte degli “intellettuali” progressisti fa il paio con quello dei rottami dello stalinismo secondo il quale, ai “bei tempi” (di cui diamo una piccolissima illustrazione qui di seguito nel nostro “UNO-DUE-TRE”) la Sinistra Comunista che mai si è accodata a nessun fronte democratico e anti-fascista di “liberazione nazionale” era “maschera della Ghestapo” nel mentre lo stalinismo “dei bei tempi” si accingeva a stringere la mano perfino di un Badoglio. Del criminale fascista Badoglio diventato nel frattempo “anti-fascista”, col quale lo stalinismo italiano ci ha fatto pure un governo nel 1944! Spregiudicata manovra borghese democratica, anti-proletaria e contro-rivoluzionaria sul cui significato c’è molto da riflettere anche per “la fase” che abbiamo davanti oggi in Italia. La quale manovra fa anch’essa il paio con quella attuata dalla borghesia italiana due decenni prima attraverso i Giolitti, i Nitti (cioè la politica accorta ed astuta delle “concessioni”, delle… “patrimoniali” applicate “per far pagare la crisi anche ai ricchi” attuata dalla borghesia nel primo dopoguerra volta a far sfogare la pressione sociale rossa per poi piazzare il colpo del KO contro il proletariato). C’è molto da riflettere su questo paio, su questa serie di lezioni storiche inflitteci dalla intelligenza concentrata della borghesia. Ed è un compito del Partito politico di classe, appunto!
Per chi non intende bersi come acqua fresca “le versioni” della contro-rivoluzione su Livorno ’21 e sulla Sinistra Comunista protagonista di Livorno ’21 che è stata sì travolta dalla storia ma in quanto la Rivoluzione Internazionale lo è stata sul campo di battaglia che era, appunto, internazionale, le fonti a cui attingere non mancano. Basta volerlo. A cominciare dai volumi della Storia della Sinistra Comunista (di cui il primo scritto da Bordiga) editi da il Programma Comunista a tanto altro ancora. Qui vogliamo solo segnalare uno “studio militante” di notevole spessore, ancora in corso di pubblicazione e che tutti i compagni farebbero bene a procurarsi: “Il PCd’I e la guerra civile in Italia negli anni del primo dopoguerra”. (Pubblicato a puntate da Comunismo rivista del PC Internazionale. Altresì non nascondiamo quelle che a nostro giudizio sono delle autentiche bestialità sostenute dai compagni “fiorentini”, in particolare in tema di anti-imperialismo. Lo abbiamo scritto in queste pagine e ci torneremo su… sperando di non crepare prima della conclusione dello studio sul PCd’I e la guerra civile)
Dunque il tema centrale: a che punto siamo? Nel presente periodo storico “in cui non è possibile una crescita graduale dell’elemento antagonista entro la società capitalistica, in cui non è possibile alcuna neutralità rispetto allo Stato” e “il problema si pone al suo stadio supremo e ultimo…” per citare da uno dei testi (aspri, molto aspri) che qui ri-proponiamo.
I nostri cervelli e le nostre spalle sono estremamente deboli, perciò ci aiutiamo dal lavoro rivoluzionario dei compagni passati. Qui di seguito:
consumata la sconfitta (data simbolo: 1926) i compagni della Sinistra Comunista “italiana” si riorganizzano nell’emigrazione costituendosi in Frazione di sinistra del PCd’I a Pantin nella banlieu parigina nel 1927, in mezzo ad inaudite difficoltà di sopravvivenza materiale e politica. Dal 1928 al 1938 pubblicheranno 153 numeri del Prometeo organo in italiano della Frazione che dal 1935 diventerà Frazione italiana della Sinistra Comunista. Dal fatidico 1933 questi compagni affiancheranno al Prometeo la rivista teorica in lingua francese Bilan che anch’essa cesserà nel 1938. Ebbene, dal PROMETEO n. 45 del gennaio 1931 pubblichiamo l’editoriale per il decimo anniversario di Livorno ’21. Siamo certi che come noi, anche voi, lo leggerete con profonda commozione prima ancora della condivisione politica.
In fila tre testi praticamente inediti del compagno Paolo Turco che da ormai quasi quattro anni ci ha lasciato. Ci ha lasciato tremendamente sguarniti da ogni punto di vista. “Praticamente inediti” o perché documenti di circolazione nostra interna o di limitatissima diffusione comunque sepolti nell’oblio dal quale invece li tiriamo fuori per la riflessione e lo studio collettivo.
Il primo. Tre paginette intensissime a 10 anni dalla scomparsa di Amadeo Bordiga, tratte da Il Lavoratore comunista del gennaio 1981. Il Lavoratore comunista è stato il giornale fatto insieme dal nostro Nucleo originario con i compagni milanesi de Il Leninista di cui uscirono 13 numeri fino al 1983. E’ possibile anzi probabile che i vecchi redattori de Il Lavoratore ancora sulla breccia non si ricordino neppure di quel vecchio e povero giornale. Noi ce lo ricordiamo.
Il secondo. La risposta allora, 1979, indirizzata ai compagni di Battaglia Comunista circa il senso del “comune” richiamarsi a Livorno ’21: QUALE SINISTRA COMUNISTA “ITALIANA”? Domanda (e risposta) quanto mai ancora attuale. Dal Bollettino interno del nostro vecchio Nucleo, agosto 1979.
Il terzo. “Verso la rivoluzione di domani” datato 1987, documento interno di formazione/discussione dell’OCI. E’ il documento forse più aspro, più difficile da mandar giù ed assimilare ma in esso, crediamo, vi siano le chiavi giuste per aprire le porte all’azione rivoluzionaria del presente e del futuro. In realtà esso è già stato pubblicato nelle pagine di questo sito ma abbiamo come il vago sospetto che nessuno se ne sia accorto o ne abbia valutato l’importanza. Perciò ritentiamo…
Infine: “UNO
– DUE – TRE”
una nostra sommaria “storia illustrata” del
percorso infame degli affossatori di Livorno ’21. Alle volte
una immagine, una illustrazione, una fotografia, spiegano il senso
delle cose meglio di mille parole…
Livorno ’21: presente!
27 gennaio 2021
A dieci anni dalla morte di Amadeo Bordiga ci sembra quanto mai necessario chiarire, in qualità di rivoluzionari che si rifanno agli insegnamenti della Sinistra, in che senso ed in che misura riteniamo di riferirci a questo grande compagno come punto di orientamento, ed a tale scopo fissiamo qui alcuni sommarî punti di “bilancio” dell’opera di Bordiga.
Nella storia del movimento comunista in Italia, il nome di Bordiga è legato, cronologicamente, all’eccezionale manifestarsi, negli anni immediatamente precedenti la prima guerra mondiale, di una Sinistra autentica, che pare uscire dal nulla, tanto essa si oppone, per coerenza marxista, all’informe guazzabuglio di tutte le correnti “storiche” del PSI, dal classico riformismo turatiano, dominante non tanto a livello di rappresentatività formale nel Partito quanto nella sua concreta prassi gradualista, alle varie “sinistre” (l’ultima e più vigorosa quella mussoliniana). Nel primo volume della sua Storia della Sinistra Bordiga traccia il “filo” da cui si diparte una Sinistra autentica, e ciò vale a mostrare l’habitat d’innesto, ma mostra anche – a dispetto, se vogliamo, di un’eccessiva modestia da “semplice continuatore di una tradizione” – la fragilità dell’eredità lasciata dalla precedente “Sinistra” socialista: in realtà, la Sinistra di Bordiga appare come l’esplosione, a scala italiana, di un frutto lungamente maturato a livello internazionale, di fronte ai problemi da esso determinati, come acquisizione per la prima volta in termini completi della teoria marxista, rimasta precedentemente alle soglie del Partito Socialista pur nelle sue più significative ali radicali.
La curva che porta dalla FGSI alla Frazione Astensionista e di qui al Partito è una curva a rapidissima maturazione, di riallacciamento all’integralità del marxismo, tanto più stupefacente se comparato alla lunga fase di incubazione (totalmente mancata in Italia) di cui esso aveva potuto godere in Russia, sin dal Che fare? di Lenin (e prima) o in Germania, a partire dalla lotta della Luxemburg contro il revisionismo bernsteiniano. E’ attraverso questa maturazione che, rifuggendo da ogni suggestione “tradizionalista”, di “particolarità nazionali” (come sarà, poniamo, per il gramscismo) che una giovanissima Sinistra di “animali-uomo” trentenni riesce a dar vita ad un solido Partito Comunista, un’eccezione anche nell’Internazionale, nonostante gli sforzi sovrumani di Lenin e Trotzkij per “bolscevizzare” sul serio le sezioni europee. Un Partito con qualche “ruvidezza”, forse, nel maneggio dell’arma tattica, che non s’improvvisa e non nasce da sé in un corpo giovane: ma con tutti gli elementi cardine su cui impostare la tattica stessa in modo corretto (a rettifica anche di opposte disinvolture, che non mutano di segno negativo perché controfirmate dall’Internazionale di Lenin). Il PCd’I fu invero la risposta più alta che si potesse pretendere – dati i presupposti di partenza – dalla Sinistra italiana alle necessità dell’ora e di tutto un ciclo storico rivoluzionario. Insufficiente, lo ammettiamo, di fronte ai compiti immani che incombevano; ma di un’insufficienza determinata dallo sviluppo generale, a scala internazionale, del movimento comunista: un’insufficienza cui era vano e letale “rimedio” rispondere col ritorno all’indietro, al pre-Livorno, alla compromissione delle basi stesse (presenti e soprattutto future) di un reale, forte, compatto. Partito Internazionale del proletariato.
Dire Sinistra Italiana, dire PCd’I del ‘21 vuol dire Internazionale Comunista: nessuno meglio di Bordiga vede il congiungimento dei due termini, nazionale e mondiale, del Partito; nessuno meglio di lui, pertanto, saprà intendere e combattere a tempo la degenerazione incipiente, non riducibile a questione di uomini e direzioni personalizzate, ma ad una crisi d’indirizzo generale del movimento comunista internazionale. La battaglia viene condotta sull’intiero fronte: in Italia, dove tutto il possibile viene tentato (forse con qualche eccesso di disciplina in attesa di tempi migliori nel passar la mano, senza condizioni, nella direzione del Partito) per mantenere integro il bagaglio dottrinario e d’azione della compagine comunista; a Mosca, dove non si cessa di mostrare concretamente il disastro cui conduce l’equilibrismo tattico falsamente “leninista” con cui il Centro dell’IC cerca di riguadagnare le posizioni perdute. Le condizioni della ripresa, insegna Bordiga, stanno in buona parte nel saper rimanere saldi sulle proprie posizioni allorché la “congiuntura” rivoluzionaria va in discesa. Semplice, difficile lezione su cui naufragheranno molti, anche tra i sommi, e valga per tutti il nome di Trotzkij.
Col ‘26 la situazione appare ormai definitivamente compromessa per un intero ciclo: non è solo la Sinistra in Italia ad esser schiacciata da fittizie “maggioranze nazionali”; è tutto l’arsenale marxista ad esser gettato a mare; è lo stesso Partito Bolscevico ad esser violentemente sbalzato dalle sue basi costitutive. Non si tratta di un “momento negativo”, ma di un’autentica catastrofe dell’intero movimento comunista mondiale, che si consuma con la stessa velocità prodigiosa in discesa con cui, prima s’era vista, sull’onda dell’Ottobre Rosso, la sua ascesa alle integrali posizioni marxiste. Da simile catastrofe non si esce con espedientismi, ma tutto ricominciando ex novo, riforgiando – attraverso un bilancio spietato del le cause della sconfitta – le armi del leninismo, del marxismo di sempre; il superamento della disfatta procede dalla sua comprensione.
Sarebbe pretesa o vanteria fuori luogo pretendere che da questa bufera potessero uscire indenni le giovani forze di Sinistra in Italia e lo stesso Bordiga. E’ Bordiga stesso ad insegnarci che il Partito, coi suoi uomini, è produttore, ma anche prodotto della storia. Non abbiamo remore, pertanto, a constatare anche i limiti della battaglia controcorrente condotta dal ‘26 in poi dalle forze al cui “filo rosso” ci aggrappiamo, senza presunzione di eredità immacolate (checché ne pensino gli spregiatori di ogni eredità in quanto occupati a sfruttare, per intanto, quella di qualche altro “santo protettore” in nome del “leninismo puro”!).
Cos’è successo alla Sinistra dopo il ‘26? E perché?
In Italia è continuato ad esistere un gruppo di elementi coerenti alla tradizione marxista appresa da Bordiga, purtroppo senza un “centro interno” (di cui è follia parlare prima del ‘43, anche se c’è chi si diletta in queste operazioni di fantascienza retrospettiva); all’estero ha combattuto sodo una Frazione di Sinistra, cui dobbiamo il materiale essenziale di delimitazione politica sul campo da tutte le altre correnti “antistaliniste” ed, in primo luogo, da quella trotzkista, inizialmente non così lontana da sembrare perduta per la battaglia di ripresa. E’, quella della Frazione, un’attività nella quale, inevitabilmente, nella cura di salvare il nocciolo essenziale del marxismo contro i zig-zag “tattici” (o, piuttosto, manovristici), si cade in certe parzialità e persino deformazioni di tipo estremistico infantile “settario” del bagaglio marxista; ma, in ogni caso, si tratta della reazione esagerata di un corpo sano, e ad esso noi dobbiamo se i presupposti di base per i passi a venire sono stati preservati.
E Bordiga? Negli anni tra il ‘26 e il ‘44, Bordiga resta in silenzio, non intellettualmente inattivo (del ‘30 è ancora un corso di economia marxista per i confinati comunisti a Ponza e, del re sto, i testi dal ‘44 in poi non sbocciano certo dal nulla, presupponendo una lunga, quotidiana elaborazione teorica). Resta il fatto di quel suo estraniarsi da un movimento tuttora ORGANIZZATO di difesa della “continuità teorica, programmatica ed organizzativa” del Partito, all’insegna di una distinzione in parte forzata tra i destini del “partito storico” (il Programma immutabile da Marx al trionfo rivoluzionario) e del “partito formale” (destinato a percorrere sino in fondo la sua parabola degenerativa, secondo Bordiga). E’ una forma alquanto schematica di rapportarsi ai compiti del dirigente rivoluzionario che ha impedito il ricongiungimento del patrimonio-Bordiga al patrimonio-Frazione ed un loro concorde impiego nelle lotte (altrettanto vitali di quelle del periodo ascendente) degli anni trenta. In questa parziale “caduta” noi vediamo il retaggio del modo di formazione di una robusta Sinistra in Italia, cui erano oggettivamente mancati gli elementi di “rodaggio” di una lunga fase di preparazione, come fu nel caso del PCb. E ricordiamo, d’altra parte, come neppure questo “rodaggio” sia stato sufficiente al Partito russo per attraversare indenne il ciclo controrivoluzionario (la cui portata va ben misurata, prima di lanciarsi in miracolistici esami retro-attivi).
Sta di fatto che quest’attitudine di distacco dal “partito formale” porterà dei guasti allorché si tratterà di riannodare i fili di un lavoro organizzato. Così, un certo “bordighismo”, cui non è estranea l’influenza di un certo Bordiga arriverà a deformare il legame tra teoria ed organizzazione. L’apparizione delle sconnesse teorie sul Partito-Gemeinwesen, sul Partito-“prefigurazione” o sul ripudio del partito “formale” in nome di quello “storico” (condensato, magari, in “una serie di testi in biblioteca”), così come, sul versante solo apparentemente opposto, le teorie neo-attivistiche e persino para-economicistiche di taluni “eredi” risente di questo difetto d’impostazione. Non è un caso l’assenza di elaborazione vivente sull’esperienza della Frazione e dei problemi che vi si riconnettono; non è un caso la mancata soluzione dei problemi sorti dall’esistenza del neonato P.C. Internazionalista (le ragioni della cui scissione nel ‘52 restano tuttora misteriose per molti compagni); non è un caso la serie di confusioni e fratture all’interno di quel che ne è uscito (“Programma”) senza mai una riflessione matura sul significato profondo di esse (e si pensi solo all’infelice soluzione del “caso fiorentino”). Troppo spesso si è dimenticato che la “restaurazione del marxismo” può camminare solo su un nesso unitario di teoria, programma, intervento ed organizzazione ed è invece evidente che, in troppe occasioni, si sono risolti i “compiti dei rivoluzionari” con formulari astratti (a cominciare dall’alfa della questione: i problemi della vita interna dell’organizzazione). C’è da spiegarsi come mai proprio il proclamato “decennio della pedata” abbia trovato smarrite le forze che si presumevano con tutti i requisiti a posto per un intervento di Partito.
Ma, detto questo (che pur è doveroso riconoscere per dei marxisti conseguenti), come dimenticare che le armi essenziali del maneggio della teoria marxista ci è venuto, nel secondo dopoguerra, dalla lezione di Bordiga? Come negare ad essa il titolo di MASSIMO risultato cui si è potuti sin qui pervenire? L’integralità del marxismo non permette che di esso si riacquisiscano dei pezzi lasciando tra parentesi o deformando altri pezzi; non dimentichiamo, però, che questa stessa riacquisizione è un PROCESSO TENDENZIALE, che essa costituisce un OBIETTIVO D’ARRIVO ed è in questo senso che al Bordiga post-’45 ci dobbiamo riferire quale massimo punto d’appoggio (paradossalmente) per il superamento delle stesse debolezze dell’“arnese Bordiga” per quel tanto di esso che soggiace alle pressioni negative del ciclo in discesa. Nessun marxismo allo stadio puro è mai apparso nella storia al di fuori di questa via obbligata che si fa con “utensili viventi”. Ne è la contro-prova il vano agitarsi di varî riscopritori del marxismo integrale che saltano i passi obbligati solo per mettere tra pudiche parentesi determinate esperienze che il marxismo vero deve assumere sino in fondo.
“Capita alle aquile di scendere sino
all’altezza delle galline, ma le galline non possono mai
raggiungere l’altezza delle aquile”. Così
Lenin sulla Luxemburg. Così a noi piace rendere omaggio a
Bordiga, a dieci anni dalla sua scomparsa. L’imperativo
è: rimettersi alla scuola delle aquile del marxismo,
riappropriandosi della loro massima altezza di volo, lasciando ad altri
il gusto di criticarne le cadute in nome della tranquilla sicumera da
animali di bassa corte!
(Il Lavoratore Comunista, dicembre
‘80 – gennaio/febbraio ‘81)
Il 1921 segna, nella storia del movimento proletario italiano, la data in cui per la prima volta la classe operaia – uscendo dalle vaghe affermazioni umanitarie che avevano fino allora contenuto le agitazioni e gli obiettivi proletari –, acquista coscienza di sé stessa e fonda la sua organizzazione che si assegna come scopo finale la guida dell'insurrezione per l'instaurazione della dittatura del proletariato.
Su scala internazionale la scissione del 1921 significa l'unificazione del proletariato italiano agli altri proletariati per realizzare – nel seno della IIIa. Internazionale – la ricostruzione della guida mondiale del proletariato sull'esperienza della vittoria della rivoluzione russa.
I precedenti della scissione vanno ricercati nella lotta della frazione astensionista che, capeggiata dal comp. Bordiga, aveva saputo combattere per le soluzioni marxiste ai formidabili problemi della rivoluzione russa, della guerra, della costruzione dell'organizzazione di classe del proletariato italiano, la cui condizione fondamentale doveva risiedere nella improrogabile scissione con la socialdemocrazia.
Accanto alla frazione astensionista, esisteva allora la corrente dell'Ordine Nuovo, corrente ondeggiante fra una declamazione esteriore di appoggio alla rivoluzione russa ed ai suoi capi, e tanto più clamorosa era quest'ammirazione per quanto di più essa serviva a fare passare il contrabbando delle ideologie piccolo-borghesi aggrappantesi – come d'altronde si verificava in altri paesi – ad una rinascenza del prudonismo che ci voleva stavolta portare al comunismo attraverso lo sviluppo dei Consigli di fabbrica intorno ai quali un'unità poteva realizzarsi da Bordiga a Turati mentre il partito politico diveniva un elemento secondario, destinato a scomparire di fronte all'«Internazionale dei produttori».
L'esperienza fatta da questa corrente nella stessa Torino, aveva consigliato il contegno da tenere in occasione del fatto storico rappresentato dalla scissione del 1921 – Fondatasi in un centro fortemente proletario, questa corrente dell'Ordine Nuovo aveva dovuto manovrare non poche volte per guadagnare la direzione della sezione socialista ove esisteva una netta maggioranza, che si affermava per le posizioni difese dalla frazione astensionista. A Livorno, identicamente, in presenza di una stragrande maggioranza, gli elementi dell'Ordine Nuovo preferirono lasciare nell'anticamera il bagaglio della loro ideologia per aderire alle posizioni fissate, in nome del fondatosi partito Comunista, dal comp. Bordiga.
Gli avvenimenti mondiali contengono la risposta che l'avvenire doveva riservare alla scissione del 1921. L'Internazionale Comunista che aveva fatto squillare per il mondo il grido di raccolta per la lotta rivoluzionaria, non riusciva a congiungere alla vittoria in Russia, lo smantellamento di un capitalismo che avesse governato non i pochi mesi del regime febbraio-ottobre 1917, ma le diecine di anni che contano ancor oggi i regimi capitalisti d'Europa.
La mancata unificazione degli avvenimenti rivoluzionari doveva ripercuotersi nell'I.C. ove i capi, Lenin e Trotzky, potettero raccogliere larghe fila proletaria e, con esse, ovunque stati maggiori di cortigiani che sapevano di potere fare carriera osannando a Lenin e a Trotzky, e che queste osanne levavano con lo stesso scalpore con cui alcuni anni dopo dovevano levare l'applauso agli assassini dei seguaci di Lenin e di Trotzky.
Lo sviluppo della rivoluzione russa sulla linea della rivoluzione mondiale poteva verificarsi sulla soluzione dei problemi che la storia aveva fatto ignorare al partito russo, ma che la storia imponeva agli altri proletariati. A sostenere la necessità di questa soluzione in tutti i paesi si trovavano gruppi limitati che furono soffocati dai viaggiatori che tornavano di Russia vociferando che bisognava ricalcare meccanicamente le orme dei bolscevichi al loro rimorchio per cancellare le orme su cui il proletariato aveva combattuto e vinto e per costruire i sentieri che, prima alla chetichella, poi con fracasso, dovevano condurre i rappresentanti del proletariato russo al bando, all'esilio, all’assassinio.
In Italia, non una minoranza, ma la maggioranza del proletariato comunista, che – quando l'Ordine Nuovo sosteneva che Lenin aveva vinto perché avrebbe mandato in polvere il marxismo, combatteva per il marxismo di Lenin – , fondando il suo partito, si proponeva di seguire l'esempio bolscevico non attraverso una copia impossibile della sua storia ma penetrandone gl'insegnamenti per applicare la teoria e la politica del marxismo ai problemi della rivoluzione italiana e mondiale.
Sino al 1922, per 21 mesi la sinistra restò alla direzione del partito che essa seppe fondare al fuoco della guerra civile contro il fascismo che rappresenta la risposta capitalista alla mancata rivoluzione del 1919-20. A Roma, al 2° Congresso del Partito, con «le tesi di Roma» la sinistra traduceva le esperienze decennali del proletariato italiano per contribuire all'arsenale di lotta del proletariato internazionale. Anche a Roma gli ordinovisti appoggiavano la sinistra e sottoscrivevano alle rivoluzioni decise.
Gli stessi successi del proletariato comunista dovevano fornire la base per ostacolarne prima lo sviluppo, per comprometterlo in seguito, per tentare di distruggerlo infine.
Sotto il riflesso dei colpi che assestava il proletariato comunista nei sindacati, nell'Alleanza, del Lavoro, nelle lotte proletarie tutte, una frazione si formava nel seno del partito socialista, la frazione terzinternazionalista che divenne il punto d'appoggio per le manovre della direzione dell'Internazionale contro la sinistra. Ed al IV° Congresso, nel novembre 1922, la sinistra se pure restava alla direzione del partito per le predominanti ragioni della disciplina, in effetti non dirigeva più il partito orientato sulle nuove basi che per volere ricalcare 1e orme del partito bolscevico russo, doveva minacciarne gravemente le stesse basi.
E gli ordinovisti ai fecero avanti, prima timidamente, quasi vittime timorose del dilemma Bordiga-Internazionale, poi sempre più ardito per quanto più ardito si faceva il capitalismo che vinceva la grande battaglia in Germania, per quanto più ardito si faceva l'opportunismo in Russia che sortiva l'inganno del trotzkysmo, per addormentare il proletariato di fronte ai crimini che si preparavano; la distruzione della vecchia guardia ridotta oggi a mille tronconi, il trionfo del sabotaggio, la degenerazione della rivoluzione.
E le fasi si susseguirono secondo un ordine di estremo
aggravamento; Bordiga che prima si portava alle stelle divenne l'incubo
degli ordinovisti e dei centristi a tale punto che, quando bene, bene
lo si voleva presentare soffocato sotto la catasta
dell'unanimità contro la sinistra, lo si voleva al C.C. per
macchiarlo delle stesse responsabilità contro
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il proletariato
che nel possibile domani di una restaurazione in Russia potranno
vantare gli Ercoli e compagnia nei confronti del capitalismo ritornato.
E dieci anni dopo Livorno l'opportunismo servendosi di mezzi e di appoggi può sorridere di scherno di fronte alle limitate forze della sinistra. Ma questo sorriso di scherno è della stessa marca di quello che il fascismo riserva al proletariato incatenato.
Le catene del proletariato saranno spezzate. Lo schermo dell'opportunismo che crede di potere cancellare dalla storia del movimento proletario la scissione del 1921 che dovrebbe non più significare la costruzione del partito di classe del proletariato, ma l'istituzione del bastione di difesa dell'opportunismo, questo schermo scomparirà, perché l'opportunismo è legato alla sorte del capitalismo che sarà vinto.
La scissione del 1921 riecheggia nelle fila della frazione ove è un richiamo al senso di responsabilità e di sacrificio dei suoi militanti. L'organismo che ha saputo scrivere la pagina del 1921 saprà scrivere la pagina della vittoria rivoluzionaria.
Amedeo Bordiga che ci ha guidato nel 1921, prima e poi, oggi non è al nostro lato, ma prigioniero del fascismo. Questo militatale di ferro, questo capo rivoluzionario, resta nel posto del pericolo, mentre i signori che nel 1921 non trattenevano nessuna tonalità ai loro plausi cortigiani perché allora il proletariato non era incatenato, questi signori oggi che il proletariato è incatenato schizzano veleno contro il capo della rivoluzione italiana. E scendono dove dovranno cadere, dove il proletariato li getterà, nel fango della provocazione poliziesca.
Ma non si liquida né Bordiga, né la frazione, né la scissione, né con le manovre, né con la violenza, né con la provocazione, né con l'insulto.
Oggi sconfitto il proletariato è sconfitto perché ha combattuto per la rivoluzione. Oggi incatenato il proletariato è incatenato perché vuole combattere per la rivoluzione. Esso vincerà la battaglia perché esso solo può risolvere i terribili problemi dell'epoca che viviamo,
Il capitalismo non avrà pace. L'opportunismo neppure esso che credeva di disfare l'opera del 1921, esso che credeva di vedere coronati da un successo definitivo l'opera di corruzione e di disgregazione del proletariato comunista.
La risposta al capitalismo ed all'opportunismo è la nostra frazione, è la lotta del proletariato per la rivoluzione.
Viva Amedeo Bordiga!
Viva la scissione di Livorno !
Viva la frazione di sinistra!
(Prometeo, n. 45, 15 gennaio 1931)
Il presupposto da cui parte “Battaglia Comunista” è che esista una continuità, unicità e coerenza della “sinistra italiana” alla quale si possa ricondurre i vari frammenti che vi si richiamano, o sulla quale, quanto meno, si possa misurare la legittimità d’appartenenza a tale corrente: così, si va dall’eterna riprospettazione di una ricucitura della scissione del ‘52 all’altrettanto eterna tentazione di dichiarare “Programma” fuori (o tendenzialmente fuori) dall’ortodossia della Sinistra, fino a sanzionarne, talora, il passaggio al campo avverso. In tutti e due i casi, il punto di partenza è lo stesso: il riferimento al “monoblocco” della “sinistra italiana”, rispetto al quale o si è dentro o si è fuori.
Si tratta, allora, di esaminare in che senso si possa o s’intenda parlare di questa “sinistra”; ed è a questo punto che si scoprono delle “articolazioni” (diciamo così) di questa corrente, talmente diversificate da farci dubitare della possibilità di un riferimento “unitario” ad essa senz’altre determinazioni. Proviamo ad esaminare il quadro concreto di quel che ha storicamente significato la “sinistra italiana”, indicandone i momenti di rilievo (e distinti):
a) C’è la “sinistra italiana” che si enuclea attorno al “Soviet” e cresce, in tutti i sensi, sino a costituire l’anima del PCd’I e dell’apporto italiano all’I.C., con un percorso sostanzialmente rettilineo dal ‘19, in particolare, al ‘26, anche se con non indifferenti distinzioni all’interno di esso (ad es., tra linea Bordiga e sinistra “assimilata” – come quella “milanese” cui si riferisce Fortichiari per ipotizzare una “sinistra italiana”... leninista più che bordighista a cui riferirsi oggi per il “ritorno a Livorno ‘21”; ad es., tra il Bordiga del periodo di “minoranza” nell’I.C. e nella direzione del Partito in Italia ed altri compagni della “sinistra”, in particolare dal Comitato d’Intesa in poi, allorché Bordiga comincia a prendere una posizione di “attesa” e “ritiro”, che lo porterà poi al silenzio pubblico sino al ‘44);
b) c’è l’esperienza della Frazione all’Estero, su cui incombe il peso del tradurre concretamente in pratica il senso politico ed organizzativo della “continuità della Sinistra”, nel più completo isolamento rispetto a Bordiga ed al “centro interno” (se mai è esistito; chi potrebbe documentarci su ciò lo faccia). Di fronte a tutta una serie di problemi essenziali per la resistenza alla controrivoluzione e per la ripresa futura del movimento comunista internazionale, è la Frazione, sola, ad esprimersi, e ciò facendo essa forgia una “tradizione” di “sinistra comunista” che non è assolutamente assimilabile, sic et simpliciter, alla pretesa “immutabile via”. Le rotture al suo interno, poi, a partire dalla guerra di Spagna sino al Comitato Antifascista di Bruxelles, danno la misura di come si sia affermata, tormentosamente e tortuosamente, questa particolare forma di “continuità della Sinistra” su cui, oggi, i bilanci sono diversi – da parte delle varie organizzazioni Internazionaliste – così come sono diverse le “tradizioni” nel frattempo formatesi ed a cui ci s’intende riferire. Su tutta una serie di questioni-chiave ricollegarsi alla Frazione assume, attualmente, un significato particolare rispetto ad altre “tradizioni” e “continuità” (e su ciò si vedano i silenzi o le imbarazzate spiegazioni di “Programma” o i recenti bilanci di “Battaglia”);
c) c’è l’esperienza del P.C.Int. nelle sue particolarità “al di fuori di Bordiga”, o, per esprimerci brevemente, “battagliste”, su cui oggi ritorna insistentemente “Battaglia” (Cfr. le prefazioni alle due piattaforme costitutive ed ai resoconti di Torino ‘45 e Firenze ‘48). Il meno che si possa dire è che questa tradizione (operatasi in soluzione di continuità col periodo dal ‘26 in poi) si trova in non coincidenza e poi in attrito aperto con quella postulata dall’ex-Frazione (sia Vercesi che “Internationalisme”) e quella di Bordiga;
d) c’è la posizione di Bordiga dopo il suo “rientro”, con una caratterizzazione che, a nostro avviso, la differenzia non solo rispetto all’anima “battaglista” del PCInt. e rispetto alle posizioni dell’ex-Frazione in tutti i suoi sviluppi, ma anche rispetto alla tradizione 1919-’26, ragion per cui la “restaurazione del marxismo” assume in questo Bordiga un significato particolare, che si accentua con gli anni (cfr. in particolare le teorizzazioni sul partito ed il “superamento dei difetti d’origine dell’I.C.” nel tempo), sino a provocare delle rotture entro il corpo – che si voleva centralisticamente organico e compatto – di “Programma”. Gli ultimi anni ci mostrano tra l’altro un Bordiga sempre coincidente con quest’altra “tradizione” nel frattempo cresciuta intorno e su di lui (vedi il caso di “Origine, natura e funzione della forma partito” del ‘61 e l’atteggiamento di Bordiga sull’estromissione di Dangeville e Camatte dal PCInt.);
e) c’è l’attuale (o piuttosto: le attuali) posizioni di “Programma”, il cui “bordighismo di ferro” è più di facciata che di sostanza, e si trova nell’impaccio di dover definire in positivo i compiti dell’ora attuale (nel “decennio della pedata”) senza mostrare di poter concretamente giovarsi di un’assimilata tradizione di, o per, il partito;
f) c’è il pullulare delle microsette, o attiviste (come voleva essere “Rivoluzione Comunista” agli esordi) o idealiste/nulliste (“Filo del Tempo”, “Communisme ou Civilisation” etc.), il cui riferimento alla tradizione d) è, a sua volta, deformato e ricostruito a proprio uso e consumo;
g) c’è il settore solo genericamente di “sinistra italiana”, tipo “Lotta Comunista” o “Iniziativa Comunista”;
h) c’è, infine, la CCI, il cui riferimento alla sinistra italiana non è esclusivo, ma che sta comunque nel solco di un richiamo alla tradizione “nostra”.
Questo senza voler frammentare oltre il problema, e per limitarci all’essenziale. Chi conosca un po’ la stampa internazionalista avrà agio di constatare come alla varietà dei singoli riferimenti corrisponda un’altrettanto estesa varietà di programmi, strategie e comportamenti politici. La definizione di ciò che è, o s’intende, sia la “sinistra italiana” non può esimersi dal prendere in considerazione questa realtà estremamente sfaccettata. Ora, esiste, a partire da essa, un blocco di base attorno al quale poter stringere in unità l’insieme della “sinistra italiana” attuale? Questa la risposta da dare. Noi riteniamo innanzitutto di dover intendere il riferimento alla “sinistra italiana” entro un quadro storico-prospettico più ampio, di Sinistra Internazionale (cfr. in particolare sul n. 4 di “Partito e Classe” la risposta a “Kommunistische Politik” ed il materiale di riferimento ivi citato), e ci riteniamo uno dei gruppi che si muove nel senso della ricostruzione del Partito Mondiale a partire dalla raccolta e dall’utilizzo dei “frammenti” lasciatici in eredità dalle varie “tradizioni” della sinistra comunista; ma contestiamo la visione di un monoblocco e di una continuità lineare (ove per continuità s’intenda marxisticamente quella di teoria, programma ed organizzazione) di una mitica “invariante” “sinistra italiana”. Anzi, vediamo che da parte dei singoli gruppi internazionali il riferimento alla “sinistra italiana”, mentre giova alla difesa di taluni irrinunciabili postulati dottrinari, tende però, e sempre più, dinanzi all’evolversi delle situazioni, a cristallizzarsi in quanto difesa di una propria particolarità di gruppo. Aspetti spesso indotti dalle passate necessità di “difesa a riccio” nel cammino contre le courant vengono assolutizzati, sclerotizzati, presi ad insegna distintiva della propria esistenza di setta “sola contro tutti”. Il passato la vince sul presente, e lo soffoca. Naturalmente, ogni gruppo assumerà di rappresentare da solo, e in proprio, la vera ed unica continuità, ma se, appena appena, dovesse spiegarci le origini lontane delle divaricazioni presenti senza ricorrere al comodo “peso della controrivoluzione” spiegatutto, lo troveremmo abbastanza imbarazzato. “Mantenersi fedeli alla sinistra comunista italiana” può significare in positivo solo applicare all’oggi lezioni perenni, sbarazzandosi (non “ripetendo”) di esperienze negative, legare esattamente alla rottura di continuità e coerenza che ci sta alle spalle.
Un’immagine plastica di tutto ciò si ha nel modo con cui le principali organizzazioni internazionaliste intendono il processo di ricostruzione del partito mondiale (e relative pratiche d’“azione”):
a) “Programma” e il “Partito” falsamente risolvono la questione con la linea dell’“espansione a raggera” del proprio gruppo a scala mondiale, rinunciando così di fatto ad intendere il ruolo di direzione che spetta ai rivoluzionari compiere nel processo di “ionizzazione”: e qui si rincula non solo rispetto alla tradizione definitiva del ‘19 (Italia e Mosca), ma a qualsiasi altra tradizione di sinistra comunista, compresa quella, assai più lucida, di Bordiga dopo il ‘52 (cfr. gli scritti sulla Comune di Berlino); ovvero: si deforma un aspetto necessario in una certa fase, e per un certo lavoro, astraendolo dalla storia e facendone un assoluto, una “ricetta” sempre valida. A questa stregua, la “difesa del programma”, ancorché filologicamente corretta, diventa un’operazione puramente ideologica, privandosi da sé del ruolo che le compete;
b) “Battaglia” addirittura assume di poter costruire (e di già essere in nuce) il Partito in Italia e risolve il problema internazionale proponendosi come faro o termine di confronto per le altre esperienze nazionali, mantenendosi però su un terreno “proprio”, distante, senza impegni in prima persona, ciò che “rifiutando di intervenire nella vita dell’avanguardia comunista negli altri paesi, caratterizza il socialismo nazionale o il comunismo nazionale” (cfr. Trotzkij alla Frazione). Anche in questo caso, il lavoro reale di direzione è scartato. “Fare il partito in Italia” è una deformazione rispetto al lavoro della frazione astensionista in Italia prima del ‘21 o della Frazione all’Estero (che, al massimo, dovette piegarsi, dopo una dura battaglia, alla limitazione nazionale). La visione di “Battaglia” è aggregativa, federativa (vedi nostra polemica sul “quadrifoglio” etc.), anti-dialettica: il che spiega tanto gli entusiasmi conferenzieri quanto i malumori e le ripicche successive.
Nel 1924, Bordiga affermava: “Lenin ci lascia “esaurita” la questione della dottrina e del programma, ma non quella della tattica. Sussiste il pericolo che il metodo tattico di Lenin venga travisato fino al punto di smarrire la visione dei suoi chiari presupposti programmatici rivoluzionari: ciò potrebbe eventualmente mettere in pericolo la consistenza stessa del programma nostro.” L’allora “sinistra italiana” si pose sul terreno internazionale della difesa vivente del patrimonio leninista in quanto sviluppo della questione non esaurita. La storia successiva ha fatto retrocedere l’avanguardia rivoluzionaria dai compiti di risoluzione tattica a quelli di difesa primordiale dei principi (non rassegnandosi a questa ritirata, Trotzkij dovette cedere proprio su taluni irrinunciabili principi!). In questo corso di ritirata, e controcorrente, era implicito che si accompagnassero delle conquiste (un approfondimento dottrinario e programmatico che andasse alla radice delle deviazioni manifestatesi a partire dalla tattica) e delle sconfitte (l’anchilosi dottrinaristica, le confusione tra attività-tattica e attivismo-tatticismo sì da rifiutare il primo binomio in nome del rifiuto del secondo – che non è al primo assimilabile –, il “programmismo” o, dalla parte opposta, l’“interventismo” coûte que coûte...). Perciò diciamo: andiamo al lavoro di ricostruzione del Partito Mondiale utilizzando tutti i materiali che vanno dall’I.C. ad oggi, evitando le due scorciatoie: a) la riproposizione di un “leninismo” puro, risolutore magico di tutti i mali (cfr. – sempre nel n° 4 della nostra rivista – l’ultima parte della risposta al gruppo Kommunistische Politik); b) il richiamo limitato alla “sinistra italiana”, in quanto esperienza isolata da tutto il corso rivoluzionario internazionale dal ‘19 ad oggi, e secondo la falsa concezione di una sua monolitica continuità, esaustiva di tutti i problemi sul tappeto. Parafrasando il Bordiga del ‘24, potremmo dire: “La ‘sinistra italiana’ ci ha lasciata “esaurita” la questione della difesa dei presupposti irrinunciabili di principio e di programma di fronte al precipitare della controrivoluzione; ha “risolto” il problema della ridefinizione dei punti essenziali del marxismo rivoluzionario di fronte al nuovo ciclo controrivoluzionario, ma ci ha lasciato forzatamente “aperto” il resto.” In questo senso approviamo quanto scrive la CCI: “La storia della lotta rivoluzionaria non è un’addizione di momenti morti, ma tutto un movimento vivente che va avanti contenendo in sé il suo “passato”. Non ci potrebbe essere superamento senza acquisizione delle esperienze passate.” (Purché, diciamo subito, non si scambi movimento-partito con movimento tout court, coscienza delle avanguardie comuniste organizzate con coscienza “spontanea” e “generalizzata”: le acquisizioni della Sinistra stanno su un piano non solo quantitativamente diverso da quelle della spontaneità di massa etc., non si producono e riproducono nella/dalla immediatezza).
E’ inutile specificare quali siano i punti distintivi sui quali reputiamo che le varie “sezioni” della cosidetta “sinistra italiana” abbiano complessivamente, e in maniera storicamente unitaria, portato un chiarimento definitivo, separando il campo da altre esperienze (come il trotzkismo). L’“Appello” del ‘51 ne dà una rapida, ma esauriente elencazione allorché li colloca a base della ripresa internazionale, quindi come patrimonio del lavoro internazionale futuro di riorganizzazione rivoluzionaria:
- Rivendicazione delle armi della rivoluzione, violenza, dittatura, terrore;
- Rottura piena colla tradizione di alleanze di guerra, fronti partigiani e nazionali liberatori;
- Negazione storica del difesismo, del pacifismo e del federalismo fra gli Stati;
- Condanna di programmi sociali comuni e di fronti politici con le classi non salariate;
- Proclamazione del carattere capitalista nella struttura sociale russa;
- Sconfessione di ogni appoggio al militarismo imperiale russo. Aperto disfattismo contro quello americano.
Precisione distillata al millesimo a parte, questi restano i capisaldi su cui si è incardinata una tradizione di “sinistra comunista”, ormai a proiezione internazionale, a cui hanno concorso forze diverse della sinistra malamente definita come italiana (visti, se non altro, gli apporti di “Bilan”, oltre i limiti geografici e di esperienza politica precedente della “sinistra italiana”).
In che senso si potrà, a partite da ciò, parlare di un lavoro tra le varie forze della “sinistra comunista” (non solo “italiana”, ormai)? Nella prospettiva di una “riunificazione”, di un “raggruppamento allargato” per risolvere poi il problema dell’intervento? L’invito all’accelerazione del fattore soggettivo com’è prospettato da “Battaglia” ci pare vada in questo senso. Noi vediamo la cosa in termini diversi: la (molto) relativa solidarietà sui capisaldi deve rappresentare l’avvio per un lavoro in profondità (che certamente faccia tesoro del minimo che lega tra loro le varie formazioni di “sinistra comunista” in maniera tuttora unica rispetto al resto del “milieu rivoluzionario”) al fine di riempire concretamente la formula teorico-programmatica di petto, alla realtà presente, oggettiva e soggettiva, dello scontro sociale. Ne dovrebbe risultare, in teoria, quanto meno una struttura di coordinamento per permettere l’avvio di un lavoro del genere (un “ufficio” tecnico-politico, dei Bollettini Interni, una sede pubblica d’intervento-incontri, rivista...). Tutto ciò resta, però, confinato – alla prova dei fatti – ad un piano pressoché esclusivamente teorico, “ideale”. Perché? Appunto perché varî gruppi “portanti” manifestano sempre più la tendenza a chiudersi nel cerchio ristretto della loro particolarità, in ogni senso settaria (“Programma”, “Il Partito”), mentre altri (“Battaglia”) affettano un’apertura in chiave organizzativistica, incapace però di prospettare una via verso il raggruppamento che non sia quella volontaristica (destinata, regolarmente, ad andar delusa ed a provocare i consueti soprassalti di amarezza, collera e (fortunatamente innocua) aggressività (Cfr. nostri. numeri di novembre ‘78 ed estate ‘79). Non teorizziamo, anzi rimpiangiamo (ma siamo costretti a constatare) che è venuta meno l’ipotesi di una continuità, seppur non intesa in termini ristrettissimi, della Sinistra Italiana quale forza permanente di riorganizzazione del movimento rivoluzionario internazionale, in linea di prosecuzione con l’ esperienza dell’I.C. dei primi anni. I punti cardine di riferimento hanno cessato, pertanto, di far da lievito del processo di ripresa, non perché irrilevanti (al contrario!), ma in quanto i varî gruppi della “sinistra italiana” non hanno saputo agevolarne la riacquisizione da parte di nuove generazioni di militanti uscenti, a fatica e con tutte le contraddizioni del caso, dal buio della controrivoluzione. Il futuro appartiene sì alla Sinistra, così come appartiene a Lenin o a Marx , ma non nel senso della “continuità” postulata dalle varie fette che ad essa si richiamano. “Disincrostare” le acquisizioni della Sinistra dalle deformazioni “particolari” dei singoli gruppi internazionalisti è un lavoro che non sappiamo sino a qual punto potrà essere condotto innanzi con gli strumenti di cui essi si sono dotati. Meno che mai può immaginarsi una ripresa conseguente alla “riunificazione” di questo o quel settore della Sinistra (impresa impensabile e, se affermata come obiettivo, disfattista nei confronti del lavoro realmente vitale). Non per questo si deve rinunciare al continuo rilancio del confronto tra gli internazionalisti perché le questioni essenziali vengano affrontate in un quadro responsabilmente organizzato, perché esse vengano trattate avendo di mira il proletariato, la classe, e non le reciproche ripicche gruppuscolari. Tutto quel che abbiamo sin qui detto non sta, infatti, a giustificare il rifiuto di un lavoro che riteniamo vitale (e nel cui solco inscriviamo la 2^ Conferenza Internazionale), ma solo il rifiuto di una “scorciatoia” organizzativistica e del suo falso presupposto di fondo sull’“area internazionalista” (che non è né rigenerabile “unitariamente” né unificabile una volta rigenerata nei suoi pezzi singoli, allo stesso modo – anche se su tutt’altro piano – della IV^ Internazionale).
Se su queste basi c’è disposizione a
cominciare a discutere sul serio, e nelle forme organizzate da noi
suggerite (il che comporta quanto meno uno strumento di comunicazione
all’esterno del lavoro avviato), siamo pronti a
dare il nostro contributo. Per parte sua, “Battaglia
Comunista” può cominciare rilanciando la questione,
qui da noi sommariamente affrontata, della sua concezione della
“sinistra italiana”, con le conseguenze pratiche
che essa ne fa derivare, oppure può riprendere i temi da noi
trattati – con riguardo specifico a Battaglia
Comunista – della concezione (e relativa pratica)
del lavoro internazionale per la riformazione del partito
rivoluzionario. Dopo di ciò, e dopo fissati temi e
modalità di un incontro non limitato allo “scambio
di opinioni” semi-personale, si potrà ben stabilire
quel “contatto diretto” tanto pressantemente
richiestoci inizialmente, ma senza, a nostro avviso, averne poste le
condizioni sufficienti.
("Bollettino Interno" del Nucleo Comunista
Internazionalista, fine luglio – 2 agosto
’79)
(Inizio 1987)
Improvvidi casi personali mi impediscono un’elaborazione più vasta. Vado perciò per punti sintetici, al solito, certo che la “dimostrazione” degli assunti sia, o possa essere trovata, in rebus.
1) Sin dal BI sul Partito abbiamo teorizzato il processo di riformazione del partito “per salti”, collegandolo al ciclo attuale di sviluppo del capitalismo, e dell’antagonismo di classe cresciuto con esso; ciclo che supera e modifica le forme attraverso le quali l’antagonismo si dà (sino appunto al Partito) rispetto ai cicli precedenti, di cui le tre internazionali sono la visibile condensazione del “punto di vista proletario”. La questione è storica e “filosofica”, se vogliamo, in ultima istanza, e sarebbe banale volerla ridurre a prese d’atto immediatistiche che “qualcosa è cambiato”, se non si va alla radice delle cause e delle implicazioni profonde di questi cambiamenti. La formula del “partito storico” continuo rispetto alla curva accidentata dei partiti formali chiarisce questa questione, ove si comprenda che le vicende dei partiti formali sono legate ad un tempo all’acquisizione, definitiva dal 1848 (tanto per segnare una data-simbolo), del programma del comunismo ed alla necessità di far avanzare questo programma in stretta dipendenza materiale dalle condizioni di sviluppo del capitalismo e, con esso ed in esso, del proletariato che va a costituirsi in classe e quindi in partito politico.
Ora, stringendo il brodo, possiamo dire che i cicli precedenti sono stati, a livelli via via in crescendo, quelli dell’immaturità delle condizioni per lo scontro definitivo, mentre il ciclo attuale è quello in cui il problema si pone al suo stadio supremo od ultimo (come suprema od ultima è la fase imperialista del capitalismo). Nel corso di essi si sono registrati assieme un progresso del movimento antagonista del proletariato e regressi in certi aspetti del suo armamentario teorico-politico; la Terza Internazionale ha tentato la fusione tra i due termini, storico e formale, del Partito al grado massimo. Perché non ci è riuscita? Perché, sostanzialmente, l’epoca delle rivoluzioni proletarie dichiarata da essa aperta in via definitiva è giunta in anticipo sui tempi della formazione di un Partito all’altezza del compito e perché, in assenza di una previa rottura globale con i presupposti del revisionismo gradualista secondinternazionalista, si sono riprodotti gli aspetti sostanziali di esso. Il capitalismo, superata la crisi determinata dall’“assalto al cielo” degli anni venti, non solo ha potuto rilanciare il suo moto espansivo, ma, quel che è infinitamente più grave, l’ha fatto minando catastroficamente l’elemento soggettivo di contraddizione. Nelle condizioni date dall’imperialismo, in cui non è possibile una crescita graduale dell’elemento antagonista entro una società capitalista “stabilizzata”, in cui non è possibile alcuna neutralità rispetto allo Stato, il movimento “comunista” esistente è organicamente interno alla logica capitalista, alle sue impersonali esigenze. La riedizione del revisionismo operata dalla Terza Internazionale degenerata è peggiore, da questo punto di vista, della precedente edizione secondinternazionalista (che solo nel corso della prima guerra mondiale, e non coerentemente in tutte le sue punte, è arrivata alla sussunzione diretta dei compiti di gestione del capitale); ma, al tempo stesso, permane e si approfondisce l’antagonismo oggettivo – di cui i partiti “operai”-borghesi sono comunque portatori – e si avvicina a passi da gigante la fase del suo scioglimento storico definitivo. Di qui noi ripartiamo per delineare i nostri compiti, in rottura preventiva, maturata nel corso di decenni di esperienze sanguinose, con tutti i presupposti revisionistici del marxismo. Ne ripartiamo “in quattro gatti”, e non a caso, e, non a caso, sempre esposti a riassorbimenti da parte dell’anonimo nemico.
2) Quando diciamo che non è possibile oggi un partito di massa non registriamo da fessi la nostra debolezza effettiva. E’ una vecchia questione. Il trotzkismo di Trotzkij cadde proprio su questo punto, inseguendo uno schema di formalizzazione del Partito che necessariamente riproduceva in sé, per potersi illusoriamente dare, tutti i tratti essenziali del ciclo precedente. Così non è possibile immaginarsi un qualche ipotetico Lenin che, ove miracolosamente fosse stato presente, avrebbe potuto reinvertire la rotta del naufragio (cfr. le false interpretazioni di “Falcemartello” n. s. n° 1). La storia, di regola, non procede per casualità e non si fa coi “se” di chi sogna scenari preferibili per il... passato.
Abbiamo tutto da imparare dall’esperienza precedente, traendo lezioni in positivo dall’insieme degli svolgimenti oggettivi e soggettivi che in essa si sono determinati. Credo che si possa ribadire una formula che ho già usato in precedenza più volte, e che d’altronde mi guardo bene dal pretendere di avere inventato. La formula è questa: il corso futuro della formazione del proletariato in classe e quindi in partito politico ci mostrerà la congiunzione tra lo “schema” del “Che fare?” di Lenin a proposito del partito e l’aspirazione di una Luxemburg (per non dire di Marx, nella sua sostanza originaria) ad un superamento di ogni “giacobinismo di partito”. La rivoluzione tedesca degli anni venti evidenzia un corno del dilemma così come quella russa ne evidenzia 1’altro. Nella prima abbiamo assistito di più all’elemento dell’“autoattività” ed “autocoscienza” del proletariato, per dirla alla CCI, e molto meno all’elemento di direzione di esso da parte del partito formale, con l’inevitabile slittamento lungo la linea “più facile” della spontaneità, praticata e – quel che è grave – teorizzata. Il caso russo ci mostra l’inverso, dandoci un partito costruito solidamente sì, ma su oggettive sabbie mobili. Come le sabbie mobili hanno fatto franare la stabilità del partito, questo si è anche sgretolato dall’interno, non semplicemente, affondando, ma trovando la sua risistemazione lungo gli assi obbligati dello stalinismo. Dopo la catastrofe consumatasi sul finire degli anni venti occorreva ripartire verso il nuovo ciclo futuro riforgiandosi completamente le armi di partito. Nessuno ce l’ha fatta, nessun genio poteva farcela: l’esperienza di Bordiga ci offre dei materiali insostituibili di ripartenza, ma essi stessi incompleti sul versante decisivo: come si realizza la saldatura tra compagine partito e movimento reale? Lo scenario storico che egli traccia è ineccepibile, ma assorbe la questione in oggetto in una sorta di nebulosa (da cui poi i “discepoli”, ma non a caso, hanno potuto trarre varie e contrastanti deduzioni telescopiche). Per quel che ci compete, essendo arrivati dopo di lui al “decennio della pedata”, ci compete di sciogliere l’enigma o di andarcene a cuccà.
3) C’è un “segreto” del riformismo da cui abbiamo positivamente da apprendere. Se nei cicli precedenti il conflitto proletariato-borghesia poteva (e doveva) essere posto sul piano della contrattazione indipendente da parte del proletariato di migliori condizioni salariali e di vita nei confronti dei padroni del vapore e, poi, dello Stato, in quanto rappresentante degli interessi globali della borghesia, e questo poteva portare a scontri anche violentissimi, data 1’“assoluta” inconciliabilità di interessi, oggi questa rivendicazione, se mantenuta entro l’ambito dei vigenti rapporti economico-sociali, comporta di necessità una “contrattazione globale”, per il “potere”. C’è una grande verità (antimarxista) nel concetto togliattiano, e staliniano in genere, per cui la classe operaia oggi deve sapersi fare classe-nazione, classe-stato (ovvero classe “in sé”-popolo).
Questi assunti, in linea teorica e pratica, esprimono il fatto della crescente ed estrema socializzazione capitalista della società; il fatto che, di fronte ad una borghesia diventata, come personale umano, “classe superflua”, può ben sostituirsi ad essa (in linea ipotetica) il “popolo” in generale, la classe lavoratrice. Naturalmente, aggiungiamo noi, a patto di “dimenticare” che la socializzazione capitalista è l’esaltazione massima della proprietà privata, intesa nel senso marxista autentico (non personalistico), che essa si regge sul crescente sfruttamento del lavoro salariato a frutto del capitale e delle sue leggi. L’aut aut dello scontro di classe si profila sempre più netto: non è vero (se non in termini apparenti) che nel passato avevamo una maggior conflittualità; è proprio oggi che le condizioni oggettive dello scontro sono spinte al livello massimo, dell’appropriazione sociale globale da parte del proletariato-società, mentre nel passato esistevano tuttora ampi margini di rilancio della contrattazione tra le parti; è proprio oggi che il riformismo si appalesa sempre più come “riformismo senza riforme”, guscio vuoto (in termini, diciamolo subito, storici, non nell’assoluto, di una mancanza di “differenziazione” tra le parti, ché è anzi vero, qui, il contrario) e che il socialismo si presenta non più come frutto politico di una inconciliabilità tra lavoratori e padroni, ma come scontro tra due opposti modi di produzione economico-sociale.
4) Queste constatazioni non ci aprono vie di fuga verso un’agitazione di massa per 1’“integralità assoluta” del programma comunista, ma, materialmente, ci consentono una battaglia che, a partire dalle battaglie immediate, anche le più “minute”, elevi l’avanguardia proletaria e, in seconda istanza, per diversa via, il proletariato in quanto massa, alla comprensione del nesso tra lotta rivendicativa su “un dato punto” e programma globale del comunismo. Abbiamo più volte trattato questo tema per doverci ritornare oggi. Chi apre una dicotomia tra interessi immediati e programma comunista in realtà non crede alla materialità dei processi che portano a detto programma e postula, di conseguenza, un processo di decantazione puramente ideologica, con, magari, estremismi di facciata, ma con un’intima dissociazione tra materialità e coscienza. (Può servire alla comprensione di questa questione, en passant, la vicenda dei “nostri” rapporti con il gruppo inglese da noi recentemente contattato: esemplare amalgama di ideologismo, estremismo (verbale) ed opportunismo nella pratica).
5) Nel ciclo attuale il proletariato, privato del suo partito comunista formale, tende da un lato ad entrare nel calderone del “popolo”, dall’altro non può farlo senza portarvi dentro le proprie contraddizioni antagoniste. La “popolarizzazione” del proletariato esprime allo stadio attuale, in negativo, il suo provvisorio annichilimento storico; ma, d’altra parte, esprime anche il fatto che la soluzione proletaria dei problemi è per tutta l’umanità, e di tutta l’umanità dal suo punto di vista. Massima degradazione e massimo antagonismo convivono e si tengono conflittualmente. La visione idealistica che chiameremo qui “gemeinwesenistica” coglie un elemento di verità: la portata universale, umana senz’altri aggettivi, della soluzione proletaria; ne ignora 1’altro, non meno essenziale: che l’unità di lotta della “specie umana” non si realizza in un vuoto di classe, attraverso il concorso di tutti gli “esseri umani” svincolati dalle loro determinazioni di classe, bensì attraverso una lotta di una classe particolare, che nella lotta contro il sistema presente realizza i bisogni della specie e il suo stesso annullamento in quanto classe di questa società. In poche parole: tutti i problemi essenziali che oggi si pongono sono problemi dell’umanità “in generale”, ma di un’umanità che, per affermarsi, deve far riferimento ad una storia di classe contro classe. Una ripassata “filosofica” all’opera di Marx può essere istruttiva.
6) Prendiamo qualche esempio. Il nucleare, ad esempio. Quale nucleare? Il nucleare capitalista, e non il nucleare “in generale”. Il nucleare del profitto, che ha immediata relazione con una data struttura di classe. Problema “di tutto il genere umano” sì, anche del borghese individuo, che non può però risolverlo se non svincolandosi dall’essere della società borghese, se non riferendosi alla lotta del proletariato contro la macchina del massimo profitto che grava su di esso e su di esso soltanto come motore portante dell’intera società presente. La guerra nucleare, ad esempio. Che si tratta di capire perché è determinata e per quali fini specifici di classe. Anche qui, il borghese individuo potrà scoprire che si tratta di un pericolo per l’Uomo, con la maiuscola per dire quello con la minuscola, l’individuo non-specie. Ma capire da dove nasce l’esigenza impersonale di guerra è lo stesso che capire come sconfiggerne la tendenza obbligata. Si potrebbe andare avanti. Tanto ci basta per chiarire come un’esigenza dell’intera umanità, di tutta la specie, trovi il suo contrario, con cui è obbligata a scontrarsi, in un sistema di rapporti di classe che ha nel proletariato, o meglio: nel sistema del lavoro salariato, il suo perno.
7) E’ tramontato, per questo, il “vecchio” conflitto tra operai e padroni sul salario, sui ritmi, sulle condizioni di lavoro? Tutt’altro. Solo che questo conflitto si dilata progressivamente, oggi, all’intero arco delle questioni che coinvolgono l’intera società, l’intera sorte del genere umano. La lotta trade-unionistica è, più che mai, una “scuola di guerra” a tutto campo, in cui non si misurano quanti chiedono cinque e quanti chiedono dieci, ma progetti diversi e contrapposti che abbracciano, nella loro storica consequenzialità, tutti i problemi del vivere sociale. Nel passato, per esemplificare, poteva sembrare che l’oggetto del contendere fosse una diversa ripartizione degli utili, un “controllo” su questa ripartizione, libri mastri sott’occhio. Oggi non c’è lotta per il salario che direttamente non implichi il tema del meccanismo stesso di questo sistema di produzione/riproduzione economico-sociale. Anche quando noi entriamo in una questione “di dettaglio”, come quella del referendum sui quattro punti della scala mobile tagliati, lo facciamo richiamando questa somma di problemi: come funzione la macchina capitalista?, a quali parametri essa è associata?, a quali parametri deve essere associata la risposta operaia? In sostanza: qual è l’oggetto reale della contesa al di là del contingente? A questa stregua la “semplice” lotta trade-unionistica diventa scuola di educazione militante di comunismo così come oggi, al massimo grado, ciò è necessario più che possibile.
7 bis) Introduco qui una parentesi suggeritami dalla lettura della relazione dall’Inghilterra per rendere più esplicita una questione di fondo.
I compagni inglesi, e non sono i soli, operano una inconcepibile dissociazione tra attività sindacale ed attività politica, tanto da criticare a Bordiga di “limitarsi ad un’attività sindacale ‘dura’ non distinguendosi politicamente dalla socialdemocrazia” ed arrivando poi a postulare una “divisione del movimento operaio” tra ala riformista ed ala rivoluzionaria propiziata dalla “propaganda politica in rapporto all’agitazione”, dalla critica alla “ristrettezza ‘sindacale’” di scioperi come quello dei minatori etc. Siamo nel puro “ideologismo” idealistico-soggettivista, che si puntella di necessità sull’attivismo. Il riformismo sindacale è tutt’altro che “ristretto”. Esso costituisce un tutt’uno organico, che il riformismo politico non fa altro che rivestire ideologicamente, ma non certo dall’esterno dei rapporti su cui esso si costruisce.
La conduzione dello sciopero dei minatori non è stata “ristretta” al sindacale; al contrario è stata perfettamente e compiutamente politica (sul versante opposto al nostro).
La “divisione del movimento operaio” concepita come frutto di “educazione politica” (ideologica) è un puro non senso, in quanto astrae dal terreno su cui si determinano le scelte “divise”, riformista e rivoluzionaria. Non si supera l’ipoteca riformista se non stando nella lotta sul “ristretto” piano sindacale, che contiene in sé tutti gli elementi politici prospettici. Tant’è: la “parola d’ordine del referendum per dare allo sciopero un carattere politico” è una classica scappatoia in termini di forme organizzative svincolate dal terreno reale di scontro, senza mettere in conto le sue conseguenze... riformiste. Non abbiamo qui un proletariato unificato nella lotta e dalla lotta, che cresce, prende cognizione della propria forza, individua – grazie a ciò – i muri da abbattere e gli strumenti che a ciò gli abbisognano, ma un proletariato preso allo stadio attuale, cioè debole e diviso (anzi: meglio se “politicamente diviso” grazie alla “propaganda’) chiamato ad una consultazione da cui trarre il famoso “livello politico superiore”. Cioè: prendiamo degli eunuchi e “consultiamoli” sull’arte di... fottere (riformismo e borghesia).
La nostra strada è completamente opposta. Noi non siamo troppo poco demarcati rispetto al riformismo. I1 nostro bagaglio di demolizione di esso, in linea teorica e politica, è completo (specie se raffrontato a quello di chi fa la voce grossa col “proprio” riformismo e con la “propria” borghesia tanto da dimenticare il quadro internazionale dello scontro, o da stravolgerlo: vedi caso URSS, non insolito tra i trotzkisti e semi-trotzkisti). Ma lo scontro col riformismo lo conduciamo sul suo stesso terreno di elezione, e non potrebbe essere diversamente per un materialista abituato a non astrarre la “penetrazione ideologica” dal terreno oggettivo attraverso cui si veicola. Le condizioni che permettono l’egemonia riformista nella classe operaia sono le stesse che ne permetteranno lo scalza mento. La “divisione nel movimento operaio” ha un senso solo se fondata sullo sviluppo dell’unità di fronte nella lotta, da cui deriva il salto qualitativo del proletariato, la sua “costituzione in classe e quindi in partito politico”. Le versioni opposte del problema le conosciamo da tempo e da tempo le abbiamo classificate nel “pugnettarismo” (per chi conosce il bolognese), né ci stupisce o spaventa il fatto che le pratiche autogratificanti che ad esso si riferiscono possano fruttare godimenti immediati in termini di adesioni: il fatto è che questa messe di adepti non è il frutto di una crescita reale del movimento proletario nel suo complesso, ma il risultato della sua debolezza tradotta in termini soggettivi di “partito”.
8) Per stabilire il “che fare” in campo “sindacale” non abbiamo che da ribadire la linea già fissata. Il primo compito nostro è penetrare nella classe operaia “così com’è”, tastarne il polso, contribuire a promuoverne ogni possibile azione anche “minima” che valga ad estenderne il fronte di lotta. In nessun caso nascondiamo cosa significhi la politica del riformismo ché, anzi, fondiamo ogni nostra proposta concreta sulla denunzia di essa. Ma non chiediamo agli individui proletari di venire a noi per “scelte” di “coscienza”. Marx, se non sbaglio (e comunque la citazione è desunta da ottime fonti marxiste), affermava: l’importante è che comunque ci sia lotta, perché è dalla lotta stessa che derivano i presupposti materiali della coscienza e le condizioni stesse dell’opera dirigente del partito. L’ingenuo obietterà: ma non “ogni” lotta va in questo senso; quelle promosse dai riformisti vanno in senso contrario, e proprio per questo noi dobbiamo “demistificare” etc. etc. Il fatto è che il riformismo opera sì in senso controrivoluzionario, ma su un terreno sempre più “carico” di contrasti. L’esplosione di questa carica è indipendente da noi. Da noi può dipendere la sua direzione di fuoco: a ciò potremo arrivare non grazie a “divisioni nel movimento operaio” lungo dorsali di preventivo schieramento ideologico, ma grazie ad una capacità di orientamento previamente conseguita. E’ bene mettersi in testa che noi non stiamo davanti e nelle fabbriche per “creare” la lotta né dell’oggi né del domani, ma per imparare a stabilire un rapporto con essa e con i soggetti agenti di essa, per dare corpo a quel che noi abbiamo da “insegnare” ad essi. Ovvio che per fare questo ci occorrono delle forze, che dobbiamo “reclutare”. Ma altrettanto ovvio dovrebbe esser comprendere che anche nella fabbrica noi non reclutiamo l’operaio “in quanto operaio”, ma il militante, il “rivoluzionario professionale”, “al di fuori dei rapporti etc. etc.” (Che Fare?), alla stessa stregua per cui reclutiamo nelle scuole, negli uffici, “sul territorio”, piccoli borghesi e transfughi di classi anche peggiori compresi. Di specifico c’è solo la strada da far fare, spesso (e tutt’altro che sempre od obbligatoriamente) per arrivare al reclutamento di questo soggetto. In ogni caso, si sappia ben distinguere tra quello che è reclutamento di singoli “rivoluzionari professionali” al partito e quel che è reclutamento di singoli, gruppi, masse di operai al fronte di lotta. La sovrapposizione o la confusione tra i due piani può indurre a spiacevoli incidenti nell’uno o nell’altro senso: educazionismo o movimentismo, anti-frontismo verso la lotta o frontismo di striscio verso politiche e partiti avversi... I materiali per legare i due aspetti di quel che è un solo problema complessivo esistono di già, nelle condizioni oggettive della vita di fabbrica, vetrina aperta sull’intera società, ma occorre saperli naturalmente ben maneggiare. Nessuna circolare potrà stabilire dei decaloghi infallibili sul modus operandi, ma sarebbe assai utile affidare alle nostre sezioni una rimeditazione sulle esperienze da noi sin qui condotte, ab intus (vedi referendum) e dall’esterno (minatori inglesi). Abbiamo fallato? E chi ha fallato? Credo che non abbiamo sbagliato in niente, se non nel mancato controllo durante e dopo delle capacità digestive di nostri singoli compagni o singole sezioni, operazione per la quale non ci siamo mai dati sin qui strumenti adeguati, forse per tema di caporalismo ispettorale (ma davvero è “amministrativismo” controllare come funzionano e stabilire come dovrebbero funzionare le membra della nostra organizzazione?).
9) Mentre siamo ferreamente contrari ad ogni formalismo organizzativo (da quello dei “comitati di difesa del sindacato di classe”, di programmistica memoria, ai comitati i più svariati creati artificiosamente in vitro da questa o quella organizzazione – ivi compresa l’“associazione” di “Operai Contro”, sino alle neo-costituenti di un quarto o quinto nuovo sindacato etc. etc.); mentre irridiamo a queste “scorciatoie” impotenti, specchio di un impotenza di fondo a comprendere le determinazioni reali del movimento di classe”, noi stiamo invece bene attenti ad antivedere, seguire, favorire ed estendere (e... dirigere) le forme reali in cui la lotta si esprime in termini organizzativi nuovi in quanto adeguati ai nuovi livelli dello scontro. Per questo, mentre, concordiamo con un’affermazione apparentemente minimalistica delle tesi sindacali di “Programma” del’72 (secondo cui oggi si tratta di reimportare nella classe la stessa coscienza trade-unionistica), non concordiamo con l’indifferenza verso le forme della ripresa, in quanto tale indifferenza denota una visione deformata delle caratteristiche di contenuto dello scontro attuale ed una scissione tra “coscienza trade-unionista” e coscienza di partito che non ha storicamente mai avuto ragion d’essere, ed oggi meno che… mai. Cosa possiamo dire di queste forme al di là di quanto anticipato nelle tesine di “Partito e classe”?
10) Nel ciclo controrivoluzionario la borghesia ha potuto capitalizzare la forza intrinseca dei suoi meccanismi centralizzati e concentrati e la debolezza conseguente alla sconfitta proletaria degli anni venti per “inglobare” il proletariato entro i suoi confini. Con ciò non è sparita la lotta di classe, ma il riformismo imperialista che la egemonizza tuttora l’ha portata e tenuta all’interno dei meccanismi capitalistici non solo in quanto limite non debordabile, ma in quanto struttura cui finalizzarsi. Siamo “tornati” al quadro delineato dalla famosa lettera di Engels, con la differenza che le forze “operaio”-borghesi non stanno semplicemente alla coda del movimento borghese, ma ne sono un elemento in prima persona: ed è il massimo di depressione cui si possa arrivare. Le trasformazioni sociali all’interno dei partiti “operai” o “popolari” sono la traduzione fedele di questa tendenza storica. Ma non possiamo dimenticare l’altro aspetto della questione: che gli spazi entro cui operare questa sottomissione “reale e non formale” del proletariato si vanno progressivamente e traumaticamente restringendo. Il “popolarismo” entro cui oggi il proletariato è costretto minaccia di volgersi nel suo contrario, con la ripresa: l’egemonia del proletariato, su cui pesa oggettivamente tutta la società, sul “popolo” anziché il viceversa. A differenza dei tempi di Engels, il capitalismo non ha davanti a sé un indefinito ciclo di espansione entro cui inglobare provvisoriamente il proletariato. I1 conflitto storico torna a esplodere e con esso il processo di “costituzione del proletariato in classe e quindi in partito politico”, come s’è già detto. Ma come questo processo concretamente si darà?
11) Possiamo dire che la risalita sarà un calvario. La Terza Internazionale poté costituirsi per separazione dalla socialdemocrazia di interi settori e persino partiti di massa contro il “tradimento” revisionista per “riannodare il filo” spezzato. In realtà questa rottura/continuità si basava su alcuni dati da giocare “tutti e subito”, irripetibili alla distanza: esistenza di un movimento operaio socialmente “puro”, educato per decenni alla lotta di classe indipendente nei confronti dello Stato, esistenza di un nucleo di partito internazionale presente in questo movimento e strettamente coordinato al programma comunista, il trauma catastrofico della guerra. Su queste basi si poteva ipotizzare un salto consono alla “nuova epoca delle rivoluzioni proletarie”, ricompattando il proletariato a detto livello ed impedendo la contraria ricomposizione borghese. Era perfettamente giusto tentare questa strada di “fusione” al “calore incandescente della rivoluzione”. Ma quando il calore è andato raffreddandosi si si è anche mostrato che l’armamentario stesso del partito doveva essere riforgiato. Sul finire degli anni venti la socialdemocrazia aveva già compiuto un bel tratto di strada in senso inverso. Il “fronte unico” veniva così a mancare delle sue basi materiali di applicazione precedenti, venendo a corrodere non la socialdemocrazia, ma i partiti comunisti degenerati dal loro stesso interno. Inutile dire che oggi il processo si è definitivamente e irreversibilmente compiuto sotto questo aspetto. Né noi possiamo in alcun modo attenderci forme di ripresa che ci diano una transizione delle masse al programma comunista via i partiti riformisti attuali. Qui ricominciamo da zero. Gli schieramenti riformisti attuali non ci offrono truppe pronte a passare agli ordini di altri stati maggiori, ma semplicemente delle forze sociali su cui ricostruire ex novo il tessuto del partito. Ed è cosa diversa.
12) Nella crisi la massa proletaria che tuttora segue i riformisti dovrà reimpadronirsi, come s’è detto, degli stessi utensili trade-unionistici entrando in conflitto persino su questo terreno con le proprie direzioni (e non a caso, perché una “vera lotta trade-unionistica” è impossibile nell’età dell’imperialismo senza porsi sullo stesso terreno indicato dal riformismo, di rapporto diretto con lo Stato: rapporto che può essere di accordo, subordinazione od antagonismo). Non è che diciamo questo in senso talmente assoluto da escludere margini entro cui può darsi una lotta “trade-unionistica” anche dura per determinati settori in grado di ricontrattare la spartizione degli oneri e degli utili all’interno del sistema presente, ma fissiamo una linea di tendenza generale che si rivela sempre più netta, al di là delle congiunture e degli accidenti di percorso.
Ora, questa lotta presenta per forza di cose alcune caratteristiche specifiche rispetto ai cicli passati: opposizione blindata da parte del riformismo ad andare oltre la soglia delle “compatibilità”, non aziendalmente, settorialmente considerate, ma viste nel loro complesso (azienda-Nazione, azienda-Stato); quindi necessità di riorganizzazione dal basso da parte dei proletari che intendono lottare (nelle forme stabilite dalla “tradizione” dei percorsi precedenti, dalla maturità del movimento, dall’incandescenza della lotta e dal rilievo della posta in gioco); ed infine, particolare non ultimo, legame sin dall’inizio molto più stretto con l’insieme dei problemi politici. La riacquisizione dell’utensile “sindacale” procede, per la sua specifica strada, nello, stesso senso della riacquisizione del partito politico. I due aspetti vanno tenuti presenti assieme per non cadere in due tipi di deviazione: l’identificazione del piano immediato con quello politico (“Operai Contro”, tanto per intenderci), o la separazione tra i due piani (parte dell’esperienza di “Programma Comunista”, “Lotta Comunista”, idem come sopra).
Sintetizzando in una formula questo processo storicamente determinato ho usato in precedenza l’espressione di “organismi anfibi”, che mi pare calzante. Un riesame di tutta l’esperienza dal ‘68 ad oggi lo conferma.
13) Ho detto sopra: stesso senso, ma specifica strada. I proletari che si riorganizzano sul piano immediato, con ciò sospinti a cercare soluzioni politiche, di partito, partono dall’immediato (per quanto un particolare “piano immediato”, come si può ben capire); l’organizzazione dei rivoluzionari deve trovare la via di giunzione con questo processo, ma non procede per la stessa via, nulla avendo noi da cambiare al “Che Fare?” su questo piano. Ne nascono difficoltà aggiuntive per noi, pur entro un percorso globalmente ascendente. Gli “operai contro” (non parliamo qui dei nostri amici omonimi) tendono a fermarsi ad un certo stadio politico pre-scientifico, pre-partito; sono inoltre esposti al pericolo permanente di vivere la loro esperienza particolare come staccata dal resto della massa “arretrata”; e, per ultimo, generalmente non possono “tenere” al di là di una data congiuntura di lotte, se non come minoranza politica “cosciente”... a metà. Perciò non possiamo guardare a questi organismi anfibi come ad una soluzione od un sostituto al problema tanto del sindacato quanto del partito. Per noi essi rappresentano una leva da rapportare da un lato alla massa (affinché l’organizzazione proletaria avanzata serva a qualcosa sul terreno immediato) e dall’altro al nostro programma complessivo (nei suoi elementi “coscientizzabili”, organizzabili politicamente). Al tempo stesso dobbiamo essere “troppo bassi” agli occhi di chi ciancia di “separazione politica” e “troppo alti” agli occhi di chi si sente già pago della propria “associazione politica degli operai”.
14) E noi dove stiamo nel concreto? A parte quanti tra noi si interrogano sull’essere o non essere o fanno la gara a inventarsi le peggiori “vulgate” (stavo per dire puttanate) per poi incolpare i Sacri Testi, parliamo proprio di noi come corpo dotato di una sua linea, poco importa se incompresa dai pinchi.
Ha ragione chi critica il ragionamento: “la massa stenta a mobilitarsi anche sulle questioni più elementari – quindi le soluzioni riformiste non costituiscono un ostacolo o una deviazione; i lavoratori più combattivi si muovono sulle linee del riformismo – quindi ne facciamo nostre le rivendicazioni”. Spero solo che si evochino dei fantasmi...
Al contrario, noi parliamo di ostacolo e deviazione riformista per tutto l’arco storico che va alla rivoluzione (e un pezzo dopo), non legandoci le mani ad una determinata forma del riformismo, avendo nella nostra visione comprese anche tutte le mutazioni genetiche possibili ed immaginabili. In secondo luogo, però, non è esatto dite che “i lavoratori più combattivi si muovono sulle linee del riformismo”: noi distinguiamo tra piano del riformismo e lotte (quando si può realmente parlare di lotte) impeciate di illusioni e pregiudizi riformisti, ma tra il “piano” e il “movimento” esiste un décalage. Marx (e Bordiga) osarono lanciare la formula che l’importante non è per che cosa il proletariato creda di lottare, purché lotti. Occorrerebbe qui un trattatello filosofico sul quantum ed il quale, sul rapporto azione-materialità/coscienza etc. etc., ma diamo assodato che chi scrive non ha mentalità filosofica e lasciamo correre.
Atteniamoci al “concreto”: i minatori inglesi si sono mossi portandosi dietro illusioni e pregiudizi (che la fine della lotta potrà anche rafforzare all’immediato), ma hanno dimostrato alcune cose: primo, che non sempre la massa stenta a mobilitarsi anche sulle questioni più elementari; secondo, che la mobilitazione si incrocia coi bastoni ideologico-programmatici ed organizzativi del riformismo; terzo, che una risposta in positivo a questi bastoni può essere data anche muovendosi “all’interno” del riformismo; quarto, e ci siamo, che noi – a patto di considerare come necessario il riferimento di massa – combattiamo il piano del riformismo sollevando tutte le questioni, sino a quella del potere di classe, ma sollevandole nella lotta, con le leve che esse ci offrono e non tenendoci di fatto fuori dai suoi concreti percorsi per salvare la nostra “purezza”. Tendiamo a due risultati insieme: prendere dei militanti e formarli (militanti, si ricordi, usciti dalla lotta, non incontrati in qualche circolo di discussione, quindi con un certo “cammino” specifico) e far avanzare la lotta, ovvero, anche molto più modestamente, imparando come si sta dentro in essa perché essa avanzi (qui la formazione è, spesso, tutta da farsi da parte nostra).
Sappiamo benissimo quali possono essere gli utili immediati che possiamo trarre sull’uno come sull’altro versante. Non parliamo di una nostra “tattica da partito”, meno che mai di una tattica per costruire il movimento di massa ed il partito. Parliamo sì, però, di un atteggiamento ben preciso, che non è “morbido” anziché duro, come vorrebbero compagni magari molli, ma realista, che cioè tenga in conto i coefficienti reali attraverso cui può darsi l’avanzamento del fronte di classe a partire da quello che (“purtroppo”) è.
15) Chi ha una qualche dimestichezza con l’operaio vero constaterà che di quello che gli andiamo dicendo non tratterrà tanto il discorso generale (distante anni luce dalla sua concretezza immediata), ma l’anello basso cui afferrarsi per risalire lungo la catena, cioè quel che è possibile per lui fare nel momento in cui è spinto alla lotta (questa lotta) e si studia di vincerla. Ciò che per noi sta “a monte” per lui rappresenta un cammino da fare “da valle”. Se avrà capito che, ad es. nel caso-referendum, lo hanno fregato con la mancanza di mobilitazione di classe e il rinvio alla consultazione inter-classista, tra l’altro malamente affrontata, sarà “troppo poco”? Lo sarà per l’intellettuale piccolo-borghese per il quale tutto è “troppo poco” rispetto alla sua Coscienza.
Questa “distanza” tra i poli partito-coscienza ed azione immediata-“scintille di coscienza” non può essere colmata da alcun nostro atto di volontà ed intelligenza; si tratta solo di comprendere che non si tratta di uno spazio vuoto ed inerte perché, quando anche “noi” non lucriamo all’immediato la concreta prospettiva del partito va avanti. Poniamola pure così: dal’68 ad oggi c’è stato un accumulo di esperienze, un taglio con livelli precedenti etc. che ci appartengono, ed a cui è mancato e manca non l’ipotetico “contenitore”-partito preconfezionato, ma un’organizzazione di militanti che lavorano al partito esperimentati e disciplinati, in grado di inquadrare anche preventivamente le “situazioni”, di starci in mezzo “come pesci nell’acqua”, di non smarrirsi al primo mutar di vento. Il testo sulla classe operaia dal/al non preconfeziona tattiche, ma indica i presupposti materiali di mutamenti nella situazione oggettiva e soggettiva della massa dalla quale noi stessi siamo “influiti” prima di poterci entrare con le proprie mostrine da generali della rivoluzione.
16) Si potrà dire che viste le distanze di cui sopra dovremmo prioritariamente preoccuparci di mettere a punto i nostri arsenali di “inquadramento generale”, ovvero “battere e ribattere sui presupposti, dedicare un maggior dispendio di energie al nostro percorso, e a quello dei soggetti volontaristicamente anti-riformisti”, come si esprime un nostro bravo compagno al tepore delle settembrate romane. Credo che qui ci sia un piccolo difetto. Se è ben vero che noi dobbiamo tracciare i presupposti non lo facciamo “nel vuoto”, non possiamo e non dobbiamo astrarre dal percorso della massa (a meno che non pensiamo o che questa si renderà spontaneamente permeabile a noi al momento buono o che in fondo non c’interessa più di tanto, essendo la battaglia perduta e dovendo noi “salvare il nostro onore”: cfr. “Battaglia” sul terzo conflitto mondiale). In secondo luogo, di conseguenza, parlare del “nostro percorso” non ha senso se non in rapporto a ciò: sui presupposti si potrebbe anche dire che stiamo perfettamente immobili. Terzo: mi preoccupa non l’attenzione, ma lo sbilanciamento esclusivista verso i “soggetti anti-riformisti” a danno della massa. Proprio perché si tratta di “soggetti” in cui la volontà si riveste di (falsa) coscienza noi non abbiamo nei loro confronti doveri di maggior apertura che verso la massa, ma quello di un’azione specifica, cioè su piani diversi di confronto, e che presumono sempre e comunque la massima indisponibilità ad aprire le porte del programma e dell’organizzazione. Se l’atteggiamento di fronte alla massa dev’essere sempre ultra-disponibile, se la tattica può essere elastica a condizioni date, l’identità teorico-programmatica semplicemente non si tocca. Noi siamo certo disposti a discutere con il Diavolo e sua Suocera, come diceva qualcuno, ma costringendo questi nostri interlocutori a rapportarsi costantemente e congiuntamente ai due piani: l’azione concreta e l’intervento teorico-programmatico. Questo in tutti i casi, non solo quello della lotta diciamo così “sindacale”. Ad es., sulla questione della guerra o del nucleare, della donna o del razzismo, noi non crediamo ad un’elaborazione in vitro di “preparati per il partito” senza agire su questi due piani congiunti. Ci torneremo poi.
17) Le idee “avanguardiste” (cioè riferite ai percorsi dell’avanguardia come prius: cfr. RCP come ottimamente riferitoci da M.) non tengono conto dell’accelerazione e dell’incrociarsi oggettivi dei due fenomeni, azione di massa-partito. C’è un residuo di visione “secondinternazionalista” adattata ai nostri tempi: crescita graduale e separata dell’“accumulo di forze operaie” spontanee rispetto al partito e siccome questa crescita stenta, crescita graduale e separata dell’accumulo di forze del partito.
In realtà, il nostro ciclo storico sarà contrassegnato da esplosioni, come spiegato ad inizio, rispetto alle quali resteranno inevitabilmente indietro quanti si saranno dati a costruirsi il partito “in proprio” sdegnando i preliminari di queste esplosioni. Né vale sperare che ci entreremo direttamente dentro quando esse si daranno loro sponte. Non vale perché la spontaneità anche massima va studiata, accompagnata e “guidata” ab intus a cominciare dalle fasi di stanca ed a quelle di riflusso successive alle esplosioni (che non saranno mai unica, definitiva Esplosione); perché va ricostruita una linea continua nella massa e per la massa (non, ovviamente, sul piano della stabilità e crescita rettilinea di “strutture organizzate”). Questo metodo serve a noi prima che alla massa stessa: se non impariamo, come diceva Lenin, a fonderci con la massa (e qui parla l’autore di “Che Fare?”!), non saremo mai capaci di produrre programmi ed organizzazione. Rottura del movimento operaio? No, rottura nel movimento operaio e sua ricomposizione al livello più alto. Con le quasi inesistenti risorse umane di cui oggi disponiamo? Sì, anche a partire dai quattro gatti perché un’attività bene impostata anche dai quattro gatti tanto verso l’“avanguardia” che verso la massa si salderà, sarà saldata dai fatti ad “eventi sorprendenti”. Non ci è ignoto il caso di anche un solo compagno chiamato a guidare ed illuminare la lotta di masse, “all’improvviso” e “senza che nulla lo facesse prima presagire”. Noi ci prepariamo a questi eventi necessari, stando bene attenti, anche quando saremo issati sul palco dalle masse, a distinguere (per legare) i due piani diversi, partito e massa.
18) Tutto quanto scritto qui sopra non si riferisce, come s’è detto, al solo aspetto “sindacale”. Anzi: il fattore scatenante di una ripresa che resta più che mai, in ultima analisi, proletaria può benissimo verificarsi altrove. Non è una novità, del resto: vedi quel che dice Lenin di determinate “crisi politiche nelle istituzioni” (citando il caso Dreyfuss) rispetto alla mobilitazione rivoluzionaria delle masse (spontanea ed organizzata, dall’interno e dall’esterno). Questo punto diventa oggi di ancor maggiore evidenza. Perché? Perché se da un lato la situazione economica del proletariato è estremamente debole, essa sta in diretto rapporto con tutti i problemi della società; perché più che mai tutto quello che matura nella società (nucleare, guerra ad es.) affonda le sue radici nel rapporto lavoro salariato-capitale; perché la somma di questi problemi che sempre più riguardano “l’insieme della società umana” trova le sue radici, e quindi la legittimazione della guida alla loro soluzione da parte del proletariato, nel rapporto di cui sopra. Non è un mistero né un accidente sconveniente che la bandiera di certi problemi sia presa all’immediato da parte di altri settori della società, in particolare dalla piccola-borghesia, in quanto anch’essi direttamente toccati “in quanto esseri umani” da questi problemi. Ma l’essenziale è che anche prima che il proletariato vi intervenga come forza attiva essi sono, per loro natura, suscettibili di essere rapportati alla loro fonte prima, nel movimento e, con azione di rimando, verso il proletariato stesso. Ed è il “piccolo” lavoro specifico cui noi ci dedichiamo, ben lontani dal pensare a “scegliere” due o tre temi “popolari” di separazione dal riformismo (cfr. sempre l’RCP, che qui uso un po’ troppo come referente polemico visti gli echi che una certa linea – al di là del caso in oggetto – risuonano tra noi).
19) La situazione attuale è caratterizzata da un’apparente (o reale, all’immediato) separatezza tra le “singole” questioni. C’è chi si occupa del verde, chi del nucleare, chi della guerra, chi dei rapporti tra le pareti domestiche, chi delle puttane ottimiste e sinistre, dei gays etc. etc.
Avendo annegato il proletariato nel popolo non si è potuto fare però a meno di resuscitare le questioni che coinvolgono il proletariato in quanto forza storica antagonista attraverso il popolo, “gli uomini”. Il riformismo si assume (“inconseguentemente” ed in quanto frammenti separati) tutte queste questioni, e si fa teorizzatore anzi della loro soluzione “specifica”. Solo che lo specifico tende naturalmente al generale, la fronda richiama alla radice. Nel dossier sul PCI mi pare sottolineassimo come indicativo il fatto della “specializzazione” della FGCI “per temi” (una, dieci, cento FGCI, a seconda che si parli di verde, nucleare, gays...). Questo, però, è il preludio della necessaria ricomposizione, reazionaria o rivoluzionaria, dei problemi in un tutt’uno inscindibile. Sopra tutti i problemi quello della guerra, compendio esemplare di essi.
Dunque: noi stiamo sempre e soltanto nel movimento del proletariato, ma ciò non significa che ci limitiamo all’immediatismo operaistico (all’aziendalismo). Noi stiamo col proletariato anche e proprio quando affrontiamo spinte e movimenti all’immediato capitalizzati da altri strati e classi. Non siamo di quelli che dicono: ci astraiamo da questi movimenti o saremo disposti a starci solo quando saranno “egemonizzati” dal proletariato, perché l’egemonia proletaria non è un prius, ma una conseguenza di questo movimento reale.
(Con ciò rispondiamo anche al quesito: “se il fattore scatenante non è la condizione proletaria quale lo sarà?”, in quanto perfettamente estraneo alla realtà profonda del contrasto che proletariato-borghesia va maturando).
Potrà forse essere sorprendente e incredibile per qualcuno che gli opposti poli politici borghesi arrivino alla trattativa e all’intesa per la gestione del potere. Ma come è possibile, si dirà, che un onesto riformista come certamente lo era un Filippo Turati possa intendersi col fascista (rinnegato socialista) Benito Mussolini?
Come è possibile che le forze della democrazia borghese arrivino al punto “di suicidarsi” come fu in Italia nel 1923 con il passaggio a larghissima maggioranza in Parlamento della “riforma Acerbo” che permetteva al fascismo di avere alle Camere “i numeri” per governare? (Così come avvenne al Reichstag che vota i pieni poteri a Hitler nel marzo 1933, o all’assemblea nazionale francese che consegna il paese a Pétain nel luglio 1940…)
Scrive Luigi Gerosa (nell’introduzione al Vol. 8 degli scritti 1911-1926 di Amadeo Bordiga editi dalla Fondazione Amadeo Bordiga): “più che suicidio fu un matrimonio, se non proprio d’amore quantomeno d’interesse”. Esatto, l’interesse superiore del capitalismo per la cui salvezza gli opposti poli politici agiscono come forze complementari sulla pelle del proletariato, per scongiurarne e stroncarne ogni “velleità” sovversiva e rivoluzionaria.
La corrente autenticamente marxista che ha fondato il PCd’I, la Sinistra Comunista “italiana”, non ha mai messo sullo stesso piano e nello stesso sacco gli opposti e complementari poli politici borghesi come affermato dalla menzogna di una larghissima manica di mascalzoni secondo i quali il “settarismo bordighista” avrebbe sottovalutato o addirittura favorito l’avvento del fascismo.
La Sinistra Comunista non ha mai messo e non mette nello stesso sacco l’onesto riformista Turati col fascista Mussolini. Gli onesti socialdemocratici Noske-Ebert-Scheidemann dalle mani sporche del sangue di Carlo e di Rosa e dello Spartakus tedesco col boja Hitler. Il boja Augusto Pinochet con l’onesto riformista ed anti-imperialista borghese Salvador Allende e non mette quest’ultimo sullo stesso piano e nello stesso sacco dell’imperialismo che lo ha scalzato e fatto ammazzare.
La parola marxista e rivoluzionaria detta e sostenuta nella lotta dalla Sinistra Comunista è ben altra, chiara e cristallina. Basta volerla sentire.
Abbiamo già pubblicato nel n. zero della nostra rubrichetta la nostra memoria alcune perle degli affossatori nazional-comunisti di Livorno ’21 i quali (nel 1936) dalle colonne dell’Unità e dello Stato Operaio indirizzavano i loro appelli “ai gerarchi sindacali fascisti” (ai gerarchi!) e alle masse illuse da regime dichiarandosi disposti “a battersi per realizzare il programma fascista del 1919”. I “comunisti” disposti a battersi per il programma fascista “tradito da Mussolini”!!!
Qui, altro passo infame degli affossatori: “Mussolini ci fa perdere l’Impero”!!! Neanche il regime nel suo complesso, “il traditore Mussolini” e, come si dirà, “la sua politica anti-italiana”… ci fa perdere l’Impero.
Allo stesso tempo caccia aperta ai “trotzkisti-bordighisti”, caccia aperta al “sinistrismo maschera della Ghestapo”come si scriverà sullo Stato Operaio e come si praticherà sul campo di battaglia contro il Prometeo e gli altri compagni della Sinistra Comunista.
(Si noti la firma della chiamata alla caccia aperta: Amendola. Uno dei più viscerali e feroci anti-bordighisti cioè anti-marxisti, uno dei caporioni più in vista del partitone che ha cambiato nome… nel 1989)
Siamo nel vivo della manovra borghese che doveva traghettare il capitalismo italiano da un regime che la sconfitta bellica ha fatto crollare all’altro, democratico e anti-fascista. Scongiurando nella maniera più assoluta ogni possibile minaccia proletaria al cambio di gestione, ogni “velleità” rivoluzionaria. La manovra contro-rivoluzionaria riesce in pieno grazie al fondamentale appoggio dello stalinismo nazionale affossatore di Livorno ‘21 (e della sua casa madre russa): il proletariato italiano è preso nel sacco della manovra borghese ed effettivamente disarmato, ad onta che molti proletari avessero il fucile in mano. Ma la canna era puntata in direzione contro-rivoluzionaria e su ciò vegliava e montava la guardia lo stalinismo italiano. Il fucile pur in mano al proletario è in realtà diretto dal borghese per il tramite del CLN!
Nella foto: il criminale di guerra fascista Badoglio con
Palmiro Togliatti, ministro “senza portafoglio” del
governo (aprile 1944). Il “portafoglio” e le
artiglierie ce li avevano “i liberatori”
anglo-americani…
Con il 1948 i detentori del “portafoglio” e delle
artiglierie diedero un calcio nel sedere ai nazional-comunisti che
avevano svolto in pieno la loro funzione in un frangente delicatissimo.
Estromessi dalla gestione del potere i nazional-comunisti affossatori
di Livorno ’21 riscoprirono “la politica di
classe” (e tutti i “movimentisti”
dell’epoca rientrarono in massa nel partitone…
ridiventato partito “di lotta”). L’ex
alleata America ridiventò improvvisamente
“guerrafondaia e fascista”, gli ex alleati borghesi
del CLN idem...