nucleo comunista internazionalista
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La nostra base di principio in tema di medicina,
di terapia e di scienza

MARXISMO E SCIENZA BORGHESE

Berlino - manifestazione anti lockdown

La nostra netta posizione politica contro la vaccinazione obbligatoria e contro ogni discriminazione verso chi la rifiuta è per il fatto che giudichiamo questa “cura della malattia” Covid 19 una autentica sperimentazione di massa di cui siamo cavie.

Respingiamo nella maniera più assoluta l’idea largamente prevalente nell’attuale movimento di classe che “siccome non siamo scienziati, lasciamo discutere questa cosa agli scienziati…” (sentito dire da autentici militanti di classe, da reali avanguardie di lotta! Il che dà la misura dell’annientamento politico subito dalla nostra classe, dello stato in cui versiamo e da cui dobbiamo riprenderci). Sembrerebbe che la lotta di classe condotta da postazione comunista rivoluzionaria debba essere sospesa, rimandata a dopo la fine della “guerra al Covid” eludendo il nodo centrale della questione cioè che il metodo e i mezzi adottati per sconfiggere la malattia non sono materia neutra al di sopra delle classi da lasciare in mano “alla scienza” e alla surroga di reale comunità umana quale è lo Stato.

Il nostro schieramento dentro “la guerra al Covid” che è parte di una più generale guerra “per la vita o per la morte” che è in atto innescata dalla catastrofe capitalistica, è conseguente ai principi splendidamente esposti nello studio di cui ripubblichiamo i capitoli centrali.

29 marzo 2021


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Da il programma comunista nn. 21-22/1968

Marxismo e Scienza borghese

B. La medicina

Se prendiamo il casi della medicina, vediamo che anche il suo oggetto non è un dato naturale. In realtà, sia l’uomo che le sue malattie sono in larga misura determinati da tutto il complesso delle sue condizioni di vita. Ciò è vero anche per le malattie infettive, nella misura in cui il modo di reagire dell’organismo a questo o quell’agente patogeno (microbo, virus, ecc.) dipende dall’insieme del suo stato e dal suo grado maggiore o minore di equilibrio. Così, la proliferazione di nuove malattie può certo provenire da modificazioni dei microrganismi patogeni, ma è indubbio che deriva anche da una modificazione delle difese dell’organismo stesso.

Se v’è una storia della medicina, non è solo perché le conoscenze mediche si estendono, ma soprattutto perché ogni forma sociale ha le sue malattie e un suo atteggiamento di fronte alla malattia (si pensi al diverso modo di reagire al dolore nelle diverse comunità storiche). Di più, all’interno di una società divisa in classi, ogni classe ha le sue malattie caratteristiche: e non parliamo qui delle malattie direttamente «professionali» (silicosi dei minatori, saturnismo dei tipografi, ecc.), bensì di quelle che dipendono dall’insieme delle condizioni di vita sia materiali in senso proprio (lavoro, alimentazione, abitazione, ecc.) che «psicologiche», cioè dipendenti dai rapporti reciproci fra gli uomini in un dato modo di produzione.

Per attenersi anche qui ad esempi elementari, citiamo la diminuzione della statura media dei coscritti nel secolo scorso in Inghilterra, Francia e Germania in diretta dipendenza dello sviluppo del capitalismo. A quell’epoca la produzione del lavoro era ancora debole e la corsa all’accumulazione si traduceva in uno sfruttamento estensivo: giornata lavorativa lunghissima, lavoro infantile, alimentazione miserabile, ecc., quindi in una precoce usura fisica che non solo abbassò la durata media di vita dei proletari, ma ne fece una razza fisicamente sottosviluppata (come ricorda Bucharin nell’ABC del Comunismo, ed "Prometeo", pag. 37).

Ma, cosa prevista anch’essa da Marx, il capitale doveva tendere a sostituire lo sfruttamento estensivo con quello intensivo, il plusvalore assoluto con quello relativo: oggi il «logorio» dei proletari assume quindi aspetti meno direttamente fisici, la durata della vita ritorna ad aumentare, la statura media altrettanto, ma parallelamente si moltiplicano i disturbi circolatori, digestivi, ecc. e soprattutto gli squilibri nervosi con tutti i loro strascichi, che sono un effetto della tensione nervosa del lavoro non meno che della crescente ansietà sociale.

Ciò spiega l’aumento degli stati morbosi, di fronte ai quali la medicina finisce per stringersi nelle spalle perché – anche a prescindere dal suo condizionamento ad opera dell’industria farmaceutica – il capitalismo la condanna all’impotenza o meglio le impone un orientamento ed un obiettivo che rendono vane le sue più grandi conquiste.

Una medicina che si rispetti dovrebbe prefiggersi di mantenere l’uomo in buona salute, di conservargli o di fargli ritrovare un equilibrio soddisfacente. Era questo lo scopo, per esempio, dell’antica medicina cinese; diversamente da quanto accade oggi, il mandarino pagava il medico quando stava bene e gli tagliava gli onorari quando si ammalava. Questo capovolgimento, il fatto che nella nostra società è interesse del medico che noi ci ammaliamo, mostra il ruolo dettato alla medicina dal capitalismo: rabberciare l’uomo scassato dalla vita che è costretto a condurre.

Sarebbe un errore credere che ciò che impedisce alla medicina di prevenire i mali e la riduce a cercare di guarirli sia una «insufficienza scientifica» o una «incapacità tecnica». Il problema non è scientifico ma sociale: la medicina è incapace di prevenire perché le condizioni di vita dei lavoratori sono già determinate dalle esigenze della produzione capitalistica, sulle quali la medicina non ha nessuna presa. Solo quando il tasso di morbilità minaccia la produzione di capitale, lo stesso capitale orienta la medicina nel senso della prevenzione (il caso delle malattie infettive a carattere epidemico). Ma in genere, la tendenza «naturale» della medicina (e dei giovani medici illusi) alla prevenzione, si infrange contro le ferree esigenze del capitale. Non è necessario essere dei professori per sapere che l’atmosfera delle città è sempre più contaminata e avvelena coloro che le abitano: a Parigi già alcuni anni fa in certi incroci stradali e in ore di punta il tasso di ossido di carbonio superava il tre per mille ritenuto mortale, per non parlare dell’azione micidiale dei rumori sull’equilibrio nervoso ed altro ancora.

Tutti lo sanno; ma a che giova saperlo, se le cose restano quel che sono?

È evidente che la situazione in cui versa la medicina borghese determina tutto il suo sviluppo. (Perfino la branca per definizione curativa della medicina, la traumatologia, vede determinata dal modo di produzione la sua importanza relativa ed assoluta: gli infortuni sul lavoro e gli incidenti stradali sono prodotti dell’economia capitalistica, per non parlare delle ferite della guerra!). Il capitale dice infatti alla medicina: io costringo gli uomini ad una vita impossibile, li sfrutto, li spremo, non dò loro tregua, li metto gli uni contro gli altri per succhiarne un maggior plusvalore; così è e tu non puoi farci nulla; essi sono nervosi, inquieti, cardiopatici, non stanno più insieme. Ebbene, fa’ di rimetterli in condizione di servire: inventa dei sonniferi, dei digestivi, degli stupefacenti; e, se il cuore gli si inceppa, tenta il trapianto, io ti fornirò i pezzi di ricambio.

I trapianti cardiaci che la stampa leva alle stelle sono un esempio tipico dell’orientamento impresso alla scienza della società borghese: socialmente incapace di prevenire le cardiopatie, la medicina non si interessa neppure del problema scientifico di questa prevenzione, ma dedica tesori di esperienza e di ingegnosità a una sinistra operazione: bisogna che un tizio crepi per poterne rabberciare un altro, ed ecco i nostri bravi medici (umanisti e moralisti semmai ve ne furono) sguinzagliati alla ricerca di un cuore ancora caldo. E dire che questi turpi fasti vengono presentati all’estatica ammirazione dei cardiopatici in potenza!

Sarebbe facilissimo dare mille altri esempi dell’orientamento imposto dal capitalismo alla ricerca medica anche nel campo terapeutico. Una gran parte degli sforzi è dedicata ad abbreviare la durata delle malattie affinché il lavoratore torni rapidamente alla produzione (gli antibiotici, per esempio) a rischio di lasciarlo mal guarito o addirittura scassato da un «rimedio da cavallo», cosicché un secondo specifico dovrà lottare contro i nefasti effetti del primo. Ma senza entrare nei particolari delle contraddizioni in cui si agita la medicina borghese, possiamo in generale dire questo: il capitalismo ha bisogno di lavoratori in grado di essere sfruttati, ma questo stesso sfruttamento li rovina. Ecco la contraddizione in cui la medicina è schiacciata sotto il capitalismo e che la determina completamente.

C. La dietetica

Ci soffermeremo su questa branca della medicina per la sua speciale importanza – cui fa riscontro il suo quasi nullo sviluppo attuale. È tuttavia universalmente riconosciuto che mangiamo male (parliamo qui dei paesi pienamente capitalistici, non di quelli che lo sviluppo del capitalismo mondiale con tutte le sue contraddizioni condanna alla fame permanente). Periodicamente le accademie mediche lanciano grida d’allarme, mentre si moltiplicano le ciarlatanerie dell’alimentazione «vitalistica» e simili; e i medici ci prescrivono ogni sorta di diete per ogni sorta di malattie, diete oscillanti e spesso contraddittorie, che paiono ispirate dalla moda più che dalla scienza.

Che non esista oggi una vera scienza della nutrizione, del resto, non stupisce; e non perché una volta di più, essa sia una scienza «difficile». È vero che è difficile trovare l’alimentazione ottimale, quella cioè che assicuri alla specie il miglior equilibrio e il miglior sviluppo in condizioni date (p. es., non è affatto sicuro che gli yogurt che, a quanto pare, procuravano longevità ai contadini balcanici rispondano alle esigenze dei cittadini nuovayorchesi). Ma la vera ragione non è lì. Se oggi non esiste una scienza dell’alimentazione, gli è che non la si cerca neppure, perché non servirebbe a nulla, in quanto ciò che dobbiamo mangiare è già determinato dalle leggi della produzione capitalistica. Il capitalismo non chiede alla scienza che di saperne abbastanza per impedire gli eccessi rovinosi che lo priverebbero di manodopera: per il resto, è l’economia che decide!

Marx, per esempio, ha mostrato che la coltivazione della patata si è generalizzata in Europa perché questo tubero permetteva di nutrire i proletari a miglior mercato che il frumento, e quindi di diminuire i salari. Ma se un’alimentazione a buon mercato resta uno degli obiettivi del capitale (e i contadini francesi dai costi di produzione troppo alti lo stanno imparando a proprie spese) un altro se ne aggiunge, nella misura in cui la produzione agricola diventa essa stessa capitalistica: la necessità di accelerare la rotazione del capitale nell’agricoltura. Qui risiede la causa di quel fenomeno che accompagna tutto lo sviluppo capitalistico e che è l’aumento del consumo dei prodotti d’origine animale (carne, latte, pesce) a detrimento dei cereali, i cui cicli di produzione sono più lunghi e difficili da modificare. Allo stesso modo la coltivazione degli ortaggi in serra si è enormemente sviluppata negli ultimi tempi proprio nei paesi ad agricoltura più capitalistica: se a Parigi si mangia in pieno inverno insalata fresca di Olanda, è per far «girare» più in fretta il capitale investito in questo genere di cultura.

È un bene mangiare insalata verde (insipida) tutto l’anno? ingozzarsi di polli (gelatinosi) e formaggi (mal fermentati)? Nessuno lo sa, e il capitale non se ne cura: è anzi un problema che la scienza borghese non può porsi, perché è il profitto che determina la produzione e il consumo alimentare.

Questa determinazione è così manifesta che gli stessi «scienziati» finiscono per accorgersene: abbiamo sotto gli occhi un articolo del direttore onorario di una grande scuola veterinaria francese, che si spaventa delle modifiche che si fanno subire alle specie animali senza che si possano pesare le conseguenza che ne deriveranno per l’uomo:

 – Si producono maiali con due costole in più, zampe enormi (dal tessuto difettoso), fegato ipertrofico, e stomaco (inutile in... salumeria) atrofico;

– Si producono vitelli con natiche (le scaloppe!) tanto grosse che per farli uscire dal ventre materno, in certi allevamenti, si deve praticare alla mucca il taglio cesareo;

 – Si accelera la crescita con ogni sorta di droghe, antibiotici, ormoni, e così via.

Il nostro veterinario spiega a chiare lettere che tutto ciò è dovuto alla corsa al profitto punto e basta. Ma che ci può fare, lui, che ci possono fare i suoi illustri colleghi? Nulla, se non eseguire il lavoro richiesto dal capitale, salvo a scoppiare in lacrime di tanto in tanto.

Intendiamoci. Noi non rimproveriamo al capitalismo di modificare le specie naturali. Nulla è più lontano dal marxismo delle prediche sul «ritorno alla natura» o ad una «alimentazione naturale»; tutte formule prive di senso. Il pomo che Eva offrì ad Adamo era forse naturale (o divino?!) ma, da quando l’umanità è uscita dallo stadio della semplice raccolta, ha lavorato alla trasformazione di tutti i dati naturali. Bisogna però vedere in che senso opera l’attività dell’uomo sulla natura, e chi la dirige. Per millenni gli uomini hanno cercato una buona alimentazione – alla cieca, nelle condizioni in cui si trovavano e con i mezzi di cui disponevano; a forza di esperienze essi erano giunti a risultati non certo definitivi ma che presentavano un minimo di garanzie d’innocuità. La scienza borghese butta all’aria tutto questo patrimonio con una capacità d’intervento formidabile, ma senza sapere minimamente dove va: tutto il suo lavoro sulle specie animali e vegetali (e sulla stessa terra) è unicamente determinato dalla ricerca del profitto.

Perciò questa scienza non è che scienza della redditività: socialmente, non può nemmeno chiedersi seriamente se sia «bene» o «male» che l’uomo mangi ciò che gli si fa mangiare. È bene per il capitale, e tanto basta. Anche se, per ipotesi, un genio sapesse in che cosa consisterebbe oggi l’alimentazione «ideale» passerebbe anche lui per ciarlatano, in quanto nulla e poi nulla ne risulterebbe cambiato. Solo quando dominerà le proprie forze, e produrrà secondo i suoi bisogni e non più secondo le leggi del capitale, l’umanità potrà intraprendere una vera e propria scienza dell’alimentazione.

3. Le contraddizioni della scienza borghese

Non intendendo tracciare una storia esauriente della scienza borghese, ci fermiamo ai pochi esempi presentati: quello che ci importava di mostrare era come sia lontano dalla realtà l’idea di una Scienza sospesa al di sopra della società, e come lo sviluppo scientifico discenda da necessità sociali e, nella società borghese, dalla necessità inesorabile di accrescere sempre più il capitale.

Beninteso, per rispondere efficacemente ai bisogni del capitale, la scienza borghese dev’essere reale, cioè scoprire proprietà e leggi obiettive del mondo, deve effettivamente accrescere le nostre conoscenze positive. Ma accade alla scienza come in generale alle forze produttive e all’apparato di produzione sotto il dominio di S. M. il Capitale: come la produzione che ha per motore la produzione di capitale presenta, dal punto di vista dei bisogni umani, «escrescenze parassitarie» (inutili o nocive) sempre più grandi, così la scienza orientata dal capitale sviluppa settori che interessano soltanto il capitale, e ne trascura altri che sono essenziali per la specie.

Pur sapendo molto bene perché la scienza borghese spinge in questa o in quella direzione, in pratica ci è impossibile dire oggi quali conoscenze resteranno utili e quali (pur rimanendo «vere») cadranno in disuso come è spesso avvenuto nella storia – almeno per quanto riguarda le scienze naturali. Sappiamo ad esempio perché la chimica ha cercato (e trovato) le fibre tessili sintetiche: il capitalismo deve tentar di affrancarsi dalle materia prime «naturali», la cui produzione è legata a condizioni climatiche, a cicli stagionali, ed anche a situazioni economico-sociali (paesi coloniali o semi-coloniali a monocoltura, ecc.): deve cercare delle materie prime «industriali» prodotte non importa quando e non importa dove, al ritmo richiesto dal mercato e a bassi costi produzione. Ecco perché dobbiamo indossare indumenti di nailon, di terital, ecc., e il capitale se ne infischia di sapere se questi nuocciano o meno alla pelle (respirazione, traspirazione, ecc.) e quindi a tutto l’equilibrio biologico, almeno finché non abbiano effetti immediatamente catastrofici. Ma ciò non prova necessariamente che simili prodotti siano «un male». Anche qui, bisogna guardarsi dal cadere nel «naturismo»; del resto neanche una camicia di lana è un prodotto «naturale», bensì un prodotto dell’attività umana, provato da una lunga esperienza. A forza di invocare la natura, si arriverebbe ben presto, per dirla con Marx ed Engels, a «idealizzare lo stadio in cui gli uomini ignudi grattavano il suolo con le unghie in cerca di tuberi commestibili». Svincolandosi, per motivi suoi propri, da certi limiti naturali, il capitalismo ne libera effettivamente l’uomo: se poi convenga all’umanità svincolarsi da quei limiti naturali, e dove ciò possa condurlo, è una questione che la scienza attuale è socialmente incapace di risolvere.

Allo stesso modo, non diremo che l’energia atomica sia necessariamente un male. Sappiamo che la borghesia è costretta dalle leggi dell’economia capitalistica a generalizzare l’impiego di questa fonte d’energia senza tener conto dei pericoli che essa presenta e soffocando i dubbi e le angosce dei biologi. Ma l’energia derivata dalla fissione nucleare è così (o così poco) «naturale» come quella tratta dal primo fuoco di sterpi: oggi il suo impiego è richiesto dal capitale; solo una volta liberata dalle leggi del capitalismo l’umanità potrà cercar di scoprire se effettivamente, tenendo conto di tutte le sue implicazioni e conseguenze, essa è socialmente utile.

Esistono invece settori in cui possiamo fare delle previsioni: per esempio, è molto probabile che quasi tutta l’odontoiatria, la scienza ultraraffinata delle operazioni e protesi dentarie, finirà per scomparire nella misura in cui l’equilibrio generale e un’adeguata prevenzione eviteranno che i denti si guastino.

A maggior ragione le pretese «scienze dell’uomo», psicologia, psicologia sociale, sociologia, eccetera, spariranno per il semplice fatto che il loro oggetto, l’uomo della società capitalistica (homo capitalisticus) sarà scomparso. Senza dilungarci su queste «scienze», citiamo comunque un esempio. La psicologia sociale (che offre brillanti carriere di capo del personale, di agente pubblicitario, di esperto di mercato e di «relazioni (in)umane», in fabbrica o in diplomazia) si è scientificamente rivolta al problema della produttività degli operai (come aumentarla senza sganciar quattrini!), e ha scoperto che, per esempio, il rendimento di un reparto d’incannatrici aumenta di un tanto per cento se le macchine sono dipinte in verde tenero invece che in grigio, se qua e là ci sono fiori e quadri, e se il caporeparto (dai baffoni virili) si mostra cortese con tutte le operaie senza accordare preferenze a nessuna (oh, santa emulazione!) e questa è una «verità scientifica» e sperimentale, di cui fin da ora ce ne strafreghiamo, contro cui se necessario ci battiamo, e che, nella società comunista, diverrà un assurdo mostruoso!

Ma ritorniamo alle scienze un po’ più serie, a quelle che pretendono di accrescere il dominio dell’uomo sulla natura. Abbiamo visto che le più «obiettive» di queste si sviluppano soltanto nelle direzioni in cui tale dominio permette di estendere la riproduzione allargata del capitale. Ma questo stesso sviluppo, richiesto dal capitale, è intralciato dal modo di produzione capitalistico, e per diversi motivi: – Il fatto stesso di questo orientamento altera l’equilibrio dello sviluppo scientifico, lo frantuma in settori antagonistici, lo rallenta;  – la lotta (inevitabile) tra profitto immediato e profitto futuro accentua tale squilibrio; – l’idealismo borghese impregna la mentalità degli «scienziati» e ne contrasta il lavoro: questo fatto, già rilevato da Engels, si fa sempre più flagrante, come si è visto per la fisica;  – infine, la divisione sociale del lavoro, che ha permesso in passato il rigoglio delle scienze, ora ne ostacola lo sviluppo ulteriore.

Quest’ultimo punto è interessante perché è uno dei fattori cui si devono le agitazioni studentesche. Il capitalismo richiede sempre più scienza; ora, la forma in cui si svolge la produzione di scienza è molto in ritardo su quella della produzione materiale: fino a non molto tempo fa, la scienza era prodotta in modo semiartigianale e individuale; solo da qualche decennio il lavoro associato è stato seriamente introdotto in questo campo, ed ha causato una proletarizzazione dei docenti ed altri studiosi. Questi diventano dei proletari nella misura in cui non sono più padroni dei loro mezzi di produzione e dei loro prodotti, ma devono vendere la propria forza-lavoro: beninteso, questi lavoratori che costano caro e gli sono utili sotto molti aspetti, il capitalismo non li degrada al rango di proletari comuni: ne fa dei «proletari di lusso» (come ci sono «polli di stia»).

Ma questa «modernizzazione» dell’insegnamento e della ricerca viene in realtà già troppo tardi: agli inizi del capitalismo, l’introduzione del lavoro associato, la socializzazione della produzione, permise l’impetuoso sviluppo delle forze produttive; oggi queste forze soffocano nella morsa dei rapporti capitalistici. La stessa scienza attuale, borghese, non si trova più a suo agio entro la forma capitalistica: il suo sviluppo esige l’abolizione della divisione del lavoro, della contabilizzazione individuale o «aziendale», della concorrenza, del salariato.

Basta pensare al groviglio inestricabile che per la borghesia rappresenta la selezione e formazione di questa èlite: tutti gli ingegnosi ritrovati della psico-pedagogia si infrangono contro la realtà dei rapporti capitalistici. Del resto, a guardar bene, queste grandi scoperte non sono che pallide scimiottature di cose che sappiamo a menadito. Da gran tempo il Partito pratica il metodo di trasmissione di conoscenze e sviluppo del lavoro che gli «scienziati educatori» cercano brancolando nelle tenebre: l’«insegnamento» non è distinto dall’attività; la formazione dei giovani avviene senza «professori», mediante la loro partecipazione al lavoro collettivo; non occorrono esami o diplomi per controllare o sanzionare le capacità dei singoli; ognuno dà un contributo proporzionale alle sue forze e, se commette un errore, i compagni lo correggono senza tante storie. Ma, se il Partito può condurre la sua attività in questo modo che è insieme il più efficace e quello che consente ad ogni militante di esplicare al massimo le sue doti personali, ciò avviene perché il Partito è un organo collettivo unitario: lottando tutti per la stessa causa, i militanti non conoscono né concorrenza né arrivismo; non cercano né fortuna né gloria; l’attività s’impone loro come una necessità storica alla quale ciascuno dà spontaneamente il meglio di se stesso.

Il fatto che questo modo di funzionamento assilli (senza che essi ne abbiano chiara coscienza) un buon numero di riformatori dell’università conferma semplicemente la tesi marxista che, a partire da un certo grado di sviluppo, le forze produttive si ribellano contro la forma capitalistica e richiedono oggettivamente la forma comunista. Ma, essendo impossibile introdurre il comunismo a pezzi e bocconi nella società borghese, le più «audaci» idee dei riformatori sfociano nell’utopia, e il solo risultato reale del loro agitarsi è di coltivare l’illusione di una riforma della società senza rivoluzione e dittatura del proletariato, mentre la riforma effettiva dell’università avviene nel senso di una accentuazione della concorrenza (pudicamente detta «competizione», come se si trattasse di un sport disinteressato!): concorrenza per entrare nella categoria «di lusso», per restarci e salir di grado; concorrenza tra le facoltà, le unità di ricerca, ecc. Il capitalismo non conosce altro mezzo per far lavorare gli uomini.

4. L’oscurantismo scientifico

Abbiamo visto che la scienza borghese, lungi dall’aleggiare nell’etere della «conoscenza pura», è determinata dal capitale e coinvolta globalmente nelle contraddizioni della società capitalistica: vedremo ora che, in più, essa è un’arma di conservazione borghese.

Anzittutto, perché il «progresso scientifico» è uno dei grandi alibi della borghesia. I mali di cui soffre l’umanità sono evidenti; non potendo negarne l’esistenza, la borghesia procura di mascherarne le cause sociali parandosi dietro le «forze naturali». Mentre, in realtà, le forze produttive dell’umanità sono già troppo sviluppate per la forma capitalistica, la propaganda borghese dà ad intendere ai proletari che le loro miserie siano dovute a un insufficiente dominio della natura.

In un discorso di Waldeck Rochet («France Nouvelle», 17 gennaio 1968), troviamo un esempio caratteristico di questa mistificazione, che rinvia il miglioramento delle sorti dei proletari a un avvenire imprecisato: «Via via che i progressi della scienza e della tecnica permettono di aumentare la produzione e la produttività del lavoro...»! Respingendo con orrore la lotta di classe per l’abbattimento della dominazione borghese, questi messeri predicano la sottomissione di «tutte le classi» agli imperativi del progresso della scienza e della tecnica borghese, da cui invece i proletari non hanno nulla da attendere! Si vede qui che anche le conquiste più serie della scienza borghese giocano a favore del conservatorismo capitalistico, portando acqua al mulino dell’illusione del Progresso. (Allo stesso modo, l’autorità scientifica di un Einstein non faceva che convalidare l’idealismo piccolo-borghese, democratico e pacifista, di cui egli non si è mai potuto liberare).

Inoltre, la borghesia trae spunto dai successi delle scienze naturali per costruire una «scienza sociale» sedicentemente al disopra delle classi, in realtà per giustificare la propria filosofia sociale e la propria forma di società. Qui le contraddizioni del pensiero borghese (riflessi delle contraddizioni sociali) esplodono: – nelle scienze della natura, la borghesia ha accettato di fatto il materialismo; altrimenti, non ci sarebbe stata né scienza né espansione produttiva;  – nella scienza della società, non può accettarlo perché implica la sua morte.

Per mascherare tale contraddizione, la borghesia ha sfruttato l’enorme confusione che, nel linguaggio, si traduce nell’ambiguità del termine «ragione»: quando la borghesia stessa si è presentata come la Luce («i lumi») contro l’oscurantismo, come la Ragione contro le superstizioni, il vocabolo «ragione» confondeva due diversi concetti: quello della razionalità del mondo e quello di una Ragione immanente e trascendente.

Per «razionalità del mondo» si intende il fatto che i fenomeni e accadimenti del mondo non sono indipendenti e incoerenti, ma legati gli uni agli altri; che è possibile trovare queste relazioni e le leggi che le regolano e così «capire» il modo: è, semplicemente, il concetto del determinismo. Ora, questo non è una «innovazione» della borghesia, che ha solo dato espressione estrema a una tendenza vecchia quanto l’uomo e non ignota neppure agli animali. Né si tratta di un principio a priori, ma di una conquista perenne: dire che «tutto è legato a tutto» è una frase vuota (che rischia di metter capo all’assurdo: il legame tra la conquista della Città Santa da parte dei Crociati ed il terremoto, putacaso, in Sicilia, è estremamente tenue ed indiretto!). Quel che conta è scoprire che cosa è legato, in che modo, a che cos’altro.

In qual senso possiamo dire che le «superstizioni» sono irrazionali? Non perché neghino il determinismo, ma perché, non potendo trovare le vere cause di un fenomeno, tentano di spiegarlo con un falso determinismo, che è generalmente antropocentrico, attribuisce all’uomo un Potere eccezionale, e serve a fini sociali. Così forze naturali che sfuggivano alla comprensione umana erano messe al servizio di un dato ordine sociale: così faceva la Bibbia quando spiegava il cataclisma geologico da cui si originò la valle del Giordano con i vizi e le turpitudini degli abitanti di Sodoma e Gomorra, o, in tempi ben più recenti, la Santa Inquisizione quando addebitava il terremoto di Lisbona agli Ebrei ed altri eretici. La borghesia è però andata troppo per le spicce nel trattare come sciocche superstizioni tutte le conoscenze delle società che l’hanno preceduta: gli stessi talismani non erano poi una cosa tanto idiota; il guerriero che si ritiene invulnerabile non conosce la paura; il suo comportamento in battaglia e lo stesso esito di questa risultano modificati; l’individuo convinto che una pietra «magica» gli assicura una felice disgestione, digerisce effettivamente meglio. Inoltre, la scienza ha molto spesso trattato come «superstizione» ciò che era il frutto di osservazioni millenarie, come, secoli fa, quello «scienziato» che scherniva gli «ingenui contadini brettoni che credono che la luna abbia a che vedere con le maree». Ancora oggi, la più scientifica previsione meteorologica non è più sicura di quella dei contadini, fondata su una lunga esperienza. Ricordiamo anche i due casi di rotture di dighe, in cui una vecchia esperienza condensata nei nomi di luogo (Malpasset, in Francia) sapeva che il terreno non era sicuro: ignorando il significato dei toponimi, geologi ed ingegneri costruirono le dighe proprio nei posti sbagliati.

Naturalmente, ciò non significa che si debbano riprendere tutte le credenze antiche. Ma anche quando la loro critica scientifico-razionalistica era fondata, essa serviva alla borghesia per accreditare l’idea di una Ragione a priori. Invece di intendere la razionalità umana come la ricerca del vero adeguamento dei mezzi a dati scopi, la borghesia ne ha fatto un Assoluto: e non per errore o per caso, ma perché tale ragione astratta, al di sopra delle società, al di sopra delle classi, indipendente dagli uomini e a tutti ugualmente accessibile, è il fondamento teorico della sua filosofia sociale: su di essa poggia il Principio Democratico, la peggior superstizione di ogni tempo, la credenza che sia la libera espressione delle libere opinioni a determinare i rapporti sociali ed il divenire sociale. Con la «Ragione», la borghesia ha insieme eliminato un antropocentrismo semplicistico (quello per cui si fanno delle processioni per ottenere la pioggia), istituendone e istituzionalizzandone uno più raffinato: l’antropocentrismo che riconosce le leggi della natura ma ne esclude l’uomo; che lo pone come una Libertà

Tale credenza, che giustifica la forma politica della società borghese è, lo ripetiamo, una superstizione peggiore di tutte le superstizioni antiche. Se i Greci spiegavano la folgore o i maremoti con le ire di Zeus e di Poseidon, si può dire a loro discarico che erano effettivamente incapaci di trovarne la spiegazione vera. Ora che la borghesia pretende di spiegare i fenomeni sociali, e in specie le catastrofi che colpiscono l’umanità, con la superstizione democratica, la loro spiegazione scientifica reale è perfettamente accessibile all’uomo. Ma essa non è data da una Scienza astratta, bensì da una scienza che si proclama apertamente scienza di classe, e che non può essere se non la scienza della classe obiettivamente chiamata a distruggere il capitalismo, una scienza-azione, la scienza rivoluzionaria del proletariato.

Contro questa scienza, la borghesia mobilita tutte le sue forze, e in particolare la sua scienza. La scienza perseguita il piccolo Dulcamara che vende erba secca come «rimedio segreto degli Aztechi» contro questo o quel male, e certo l’imbroglioncello sfrutta a suo vantaggio le sofferenze umane e l’impotenza della scienza borghese. Ma il suo è (talvolta più efficace e) infinitamente meno dannoso del ciarlatanismo intrinseco di questa stessa scienza: ponendosi come Scienza In Sé, pretendendo che una scienza astratta al di sopra delle classi debba regolare le questioni sociali, la scienza lotta direttamente contro la presa di coscienza rivoluzionaria del proletariato. Per questo – non per soddisfare meschine vanità – la borghesia leva tanto alle stelle la scienza e gli scienziati: finché i proletari, tenuti dalla divisione del lavoro nell’ignoranza e nell’abbrutimento, ammirano scienza e scienziati e ne attendono salvezza, la borghesia può dormire fra due guanciali!

Diremo dunque che il proletariato non debba nulla alla scienza borghese? Sarebbe assurdo. Il proletariato deve alla borghesia la distruzione delle forme di produzione sclerotizzate, la realizzazione – a sue spese – di quell’impetuoso sviluppo delle forze produttive che lo pone obiettivamente davanti alla necessità della sua rivoluzione; che rende possibile e necessario il comunismo. Questo aspetto storicamente rivoluzionario del capitalismo si ritrova, beninteso, anche sul piano teorico: la scienza borghese ha avuto annch’essa la sua fase rivoluzionaria, consistente nella demolizione dello schema di un universo raggelato in categorie immutabili, e nella dimostrazione della storicità della natura. Questa fase è contrassegnata da due grandi tappe, (citiamo dei nomi per facilitarne il ricordo): – Galileo e Kant: dalla negazione del moto «assoluto» e del cosmo geocentrico all’affermazione della storicità del sistema solare;  – Lamarck e Darwin: dimostrazione dell’evoluzione delle specie viventi e avvicinamento alle leggi che la governano; origine della specie umana.

Ecco le grandi conquiste della scienza borghese. Arrivata di fronte all’uomo, essa gira al largo: la terza tappa, la dimostrazione della storicità delle forme socio-familiari e delle leggi che reggono la loro evoluzione ad opera di Morgan, esce già dal quadro della scienza borghese.

Questa, infatti, non ha mai accettato il lavoro di Morgan: oggi non ci si accontenta di ignorarlo; tutta l’attività etnologica tende a nascondere il grande tronco storico messo in evidenza da Morgan sotto i ramoscelli divergenti: l’«approfondimento» dei particolari non mira che a spezzare o dissimulare l’unità della via maestra dello sviluppo storico e delle sue leggi. Questo perché, se può accettare la storicità ed il determinismo nella natura, la borghesia non può accettarli nella società umana: per lei, la storia è un lento cammino dalle tenebre verso quell’Ideale di Ragione che è la società borghese. E più questo «ideale» svela sua vera essenza, più la borghesia respinge con orrore il determinismo che ne annuncia la morte, e si rifugia nella superstizione.

Il lavoro di Morgan segna il tramonto della fase rivoluzionaria della scienza borghese; compiuto sullo slancio di questa scienza, la supera e si congiunge alla scienza proletaria nata nel frattempo in Europa: è forse la sola opera scientifica se non «al di sopra» delle classi, almeno «fra due classi»: ma non poteva rimanere in questa posizione instabile; la scienza borghese, segnando con ciò i suoi limiti, l’ha rinnegata, e Marx ed Engels hanno subito capito che si inseriva perfettamente nella scienza proletaria, cui apportava una clamorosa conferma storica.

Via via che la fase rivoluzionaria della borghesia si esauriva e il capitalismo vittorioso entrava in fase d’espansione, poi cominciava a putrefarsi, la scienza borghese doveva seguire un’evoluzione parallela: essa non poteva che svilupparsi secondo le esigenze del capitale rinculando sul piano dei principi, non poteva che porre la sua razionalità al di sopra delle classi e pretendersi depositaria della salvezza dell’umanità. Questa Scienza astratta oggi non è più che un oppio del proletariato, e non c’è da stupirsi se convive in così buona armonia con la sua nemica di ieri, la religione. La borghesia non cerca più la coerenza: nel suo terrore del proletariato, essa utilizza alla rinfusa Dio e la Ragione, il Papa e la Democrazia.