nucleo comunista internazionalista
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da "Programma Comunista" n. 14/1958

 

progr. com. 14_58

L'imperialismo gangster del dollaro aggredisce la rivoluzione araba

Corpi da sbarco americani, vomitati da una flotta di ben ottanta navi da guerra, hanno invaso il piccolo paese del Libano. L'atto di forza e di prepotenza dell'imperialismo americano viene a concludere un complicato intrigo diplomatico che il Dipartimento di Stato e il Foreign Office avevano intessuto, valendosi degli ignobili servigi della banda che governa Beyruth, per ottenere l'acclaramento di un intervento «straniero» nella guerra civile libanese. Intervento che si è dimostrato assolutamente ipotetico. Gli osservatori dell'O.N.U., questo tempio permanentemente profanato della legalità internazionale, avevano percorso il paese levantino, senza poter raccogliere prove del preteso intervento di armi e di armati provenienti dalla vicina Repubblica Araba Unita.

Lo stesso segretario dell'ONU, che aveva compiuto il solito giro ispettivo nell'area medio–orientale, aveva concluso nel suo rapporto all'Assemblea in senso sfavorevole alla tesi anglo–americana, accettata ad occhi chiusi da tutta la stampa atlantica. Ma la invasione americana c'è stata ugualmente. Per il momento non c'è nell'aria odore di polvere. C'è solo il puzzo soffocante che emana dal campo borghese atlantico. La nauseante ipocrisia legalitaria e democratica di uno Stato, che si regge invece sulla camorra del dollaro e il terrorismo atomico, è finalmente esplosa. Scoppiando fragorosamente, la fogna ha sommerso di spruzzi pestilenziali tutta la stampa atlantica, la stampa della classe che si fa un feticcio della sovranità e indipendenza nazionale, della libertà dei popoli della patria, e scaglia i più infamanti insulti sul comunismo che a tali idoli osa contrapporre l'internazionalismo e lo Stato operaio mondiale.

Aggredendo la rivoluzione nazionaldemocratica araba, l'imperialismo americano ha dimostrato di concepire lo Stato nazionale, soltanto come una condizione della conservazione del capitalismo. La divisione del mondo entro il quadro degli Stati nazionali serve unicamente ad assicurare agli Stati–mostri dell'imperialismo l'egemonia economica e militare. Ora, agli interessi imperialistici americani torna utile l'attuale sistemazione statale della nazione araba, cioè il frazionamento politico e militare che permette alla diplomazia americana di manovrare a suo piacimento gli imbelli e corrotti monarchi del petrolio o le bande affaristiche che imperversano nelle «libere democrazie», quali il governo di Chamoun e Sami el Shol. Ma tale sistemazione significa paralisi e morte per l'evoluzione storica dei popoli arabi, i quali possono sperare di liberarsi delle arcaiche strutture sociali, spesso ancora allo stato del nomadismo, alla sola condizione di abbattere le divisioni statali, ereditate dal lungo corso storico della nazione araba e rinfocolate dall'imperialismo. In tal modo, per salvaguardare interessi economici particolari (i profitti petroliferi) e la sua posizione imperialistica, gli Stati Uniti si oppongono reazionariamente, non soltanto alla rivoluzione comunista ma addirittura alla stessa rivoluzione democratico–borghese a finalità antifeudali. Cosa dice ciò a tutti i traditori della classe operaia che si schierano dietro la potenza americana, da loro fatta passare per strenua difenditrice della democrazia, della libertà, del «progresso sociale »?

Il bersaglio del vile atto di forza degli Stati Uniti non è tanto la salvezza del fradicio regime di Chamoun, quanto l'unificazione araba. Non a caso l'intervento armato americano è stato deciso a poche ore dalla rivoluzione antimonarchica dell'Irak, che ha fatto giustizia della monarchia filo–britannica e dei suoi servi sanguinari.. Ai gangsters del dollaro preme soprattutto impedire la formazione del grande Stato unitario che è nelle aspirazioni del movimento pan–arabista, e quindi salvare le alleanze militari che sono il maggiore ostacolo alla unificazione politica dei popoli del Medio Oriente. Giustiziando la monarchia hascemita, rovesciando il regime del tirannico Nuri–Es Said, traditore dell'unità araba, abrogando la provocatoria federazione giordano–irakena, ritirandosi dal patto di Bagdad, i rivoluzionari nazionalisti irakeni vibravano un colpo durissimo agli interessi e al prestigio dell'imperialismo americano. Tutte le idiote invenzioni diplomatiche di Dulles e Eisenhower, quali la «dottrina Eisenhower» e la partecipazione indiretta americana al patto di Bagdad, saltavano per aria.

Questi i crudi fatti. Quale la posizione nostra?

Il movimento rivoluzionario arabo non è anticapitalista, non è comunista, e neppure filo–comunista, come pretende l'ipocrita stampa borghese atlantica, Non è nemmeno antimperialista, come pretende la stampa del falso comunismo di Mosca. L'unica forza al mondo che possa seriamente lottare contro l'imperialismo e provocarne la morte è il movimento rivoluzionario che si prefigge di scalzare le fondamenta stesse del modo di produzione capitalista, da cui la guerra e l'imperialismo inarrestabilmente si originano. L'unica forza rivoluzionaria al mondo veramente antimperialista è la rivoluzione comunista. Bisogna dirlo e ripeterlo instancabilmente, specialmente quando siamo indotti ad occuparci dei problemi sollevati dal moto di rivolta dei paesi coloniali e arretrati contro gli Stati imperialistici. E’ chiaro che l’antimperialismo del movimento anticoloniale è solo un'arma transitoria, destinata a cadere a mano a mano che nel paese organizzato nelle forme economiche salariali crescono gli elementi capitalistici e si mette in moto il processo della accumulazione del capitale.

I paesi arabi si trovano attualmente nelle condizioni in cui si trovava l'Italia risorgimentale. Uno stesso popolo, parlante la medesima lingua, professante gli stessi usi e costumi, avente alle spalle una evoluzione storica indivisibile, è spezzettato in una dozzina di Stati. Soltanto nel Medio Oriente si contano sei Stati e una minutaglìa avvilente di sultanati microscopici che infestano il Golfo Persico e il Mar Rosso, essendo utili soltanto alle compagnie petrolifere e ai generali anglo–americani. La rivendicazione della unificazione statale, rivendicazione che fu in altri tempi la bandiera dei Garibaldi, dei Kossuth, dei Bolivar, la soppressione dello spezzettamento politico e del separatismo, è rivendicazione non comunista, non proletaria ma nazionale e democratica. Sta interamente dentro la rivoluzione democratica nazionale borghese.

Al proletariato cosciente non interessa la formazione dello Stato nazionale in se stessa, ma il contenuto di trasformazioni sociali che il trapasso comporta. Gli interessano lo sblocco dialettico dei «potenti fattori economici» che Lenin vedeva costretti e immobilizzati dalle anacronistiche strutture politiche che si perpetuano nei paesi semifeudali e arretrati. E' indubbio che la formazione di uno Stato unitario arabo spazzando via gli ostacoli reazionari che vi si oppongono, indurrebbe una profonda rivoluzione sociale. Guardiamo all'Irak. La terra che in un passato remoto aveva generato le più grandi civiltà antiche, come Ur, Ninive, Babilonia, oggi è ridotto a sterile deserto. Secoli di invasioni e di dominazioni straniere erano riuscite a trasformare in un mare di sabbia e di pietrame terre fertilissime. Qualche decennio fa gli utili ricavati dall'estrazione del petrolio permettevano che si avviasse la ricostruzione delle opere di irrigazione, convogliando le acque del Tigri e dell'Eufrate, come avevano fatto gli antichi abitatori della Mesopotamia. Ma nulla è stato fatto dalla monarchia che ha divorato centinaia di milioni di sterline, elargendone gran parte alle caste aristocratiche e al corrotto personale politico, di cui era espressione e salvaguardia, mentre la massa sudicia e pidocchiosa del popolo soffriva una miseria orribile.

La rivoluzione irakena è una di quelle che possono mettere in moto «potenti fattori economici». Già la Persia di Mossadeq aveva tentato, nazionalizzando i pozzi petroliferi, di tagliare le unghie dei pirati del petrolio. Riuscirà il governo rivoluzionario repubblicano che ha preso il potere a Bagdad, laddove i rivoluzionari persiani fallirono? Tutte le prospettive di sviluppo storico e di trasformazione sociale che sono legate alla unificazione araba, sono condizionate alla vittoria finale della lotta intrapresa con coraggio e abilità straordinari dai rivoluzionari irakeni. Se i carri armati americani dovessero riportare sul trono la dinastia hascemita e risollevare dalla polvere il venduto regime filo–occidentale, la marcia innovatrice del movimento pan–arabista subirebbe un colpo tremendo.

Abbiamo paragonato la condizione odierna della nazione araba all'Italia del Congresso di Berlino, che sanzionò il trionfo della Santa Alleanza feudale, validamente sorretta dall'Inghilterra liberale. La crisi dei Medio Oriente prova che la nuova Santa Alleanza ha il suo covo in America. Gli Stati Uniti, aggredendo la rivoluzione nazional–democratica degli arabi, mettendo le loro soverchianti armi al servizio della restaurazione feudale, stanno dimostrando, mentre simulano di essere i paladini della libertà democratica, a quale grado di involuzione reazionaria sono pervenuti.

Tanto più grave risulta, in simili circostanze, la responsabilità storica dei russi che restano gli alleati e i complici del dominio americano nella guerra mondiale ultima.