nucleo comunista internazionalista
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Paul Mattick sul New Deal (estratti)



Da “Concorrenza e monopolio” (Living Marxism n. 3, primavera 1943)

D’altra parte, è improbabile che i provvedimenti del New Deal siano in grado di produrre gli stessi “miracolosi” effetti in tutte le nazioni capitalistiche, poiché non è affatto escluso che la ripresa economica sia stata, tutto sommato, indipendente dall’azione del governo. La spinta ricevuta dall’attività economica ad opera del New Deal fu troppo insignificante per provare qualcosa, e si fece realmente avvertire solo laddove i “lavori pubblici” e la “costruzione delle piramidi” servivano o furono messi al servizio della produzione bellica. E solo l’intensa preparazione e poi lo scoppio finale della guerra portarono, infatti, alla tanta sospirata situazione in cui non c’erano più né denaro né uomini “fermi”.

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I provvedimenti del New Deal vanno visti come procedure dettate dalla necessità ed imposte con la fede che il sistema capitalistico sia in grado di riportare – prima o poi – alla prosperità che in passato è stato in grado di produrre. Nel corso del processo cui dà origine il New Deal, scompare il “denaro fermo” del capitalista più debole, mentre quello dei detentori di monopoli cresce col crescere dei profitti. Ma se le proposte di Keynes riescono ad imporsi definitivamente, anch’esso scomparirà a tempo debito; a patto, però, che prima di allora gli accresciuti profitti del capitale monopolistico diano origine ad un nuovo boom che compensi le perdite causate dalla depressione.

Ma se la ripresa tarda ad arrivare, i metodi keynesiani di stabilizzazione del sistema possono anche condurre alla fine dell’intera struttura capitalistica; una fine che inizierebbe proprio con la definitiva affermazione della supremazia dello Stato, se essa rimanesse chiusa nei confini nazionali e non diventasse un fenomeno a livello mondiale. E’ infatti sul piano internazionale che è più urgente la necessità di accentrare una massa sempre maggiore di profitti nelle mani di pochi, per permettere ai vincitori di questa lotta mortale per il controllo mondiale di riorganizzare il processo capitalistico di produzione e circolazione in un modo che garantisca gli altissimi profitti necessari per l’ulteriore espansione sia del capitale costante che del capitale variabile, in presenza in una crescita spropositata della composizione organica del capitale.

In tutte le nazioni capitalistiche la insufficienza di capitale rispetto alle esigenze capitalistico–sociali di accumulazione appare come un surplus nelle mani degli imprenditori monopolistici e di quelli ancora operanti sul piano della concorrenza. Un’analoga scarsità di capitale relativamente alle esigenze di espansione dell’economia mondiale appare, in tutte le nazioni capitalistiche e in ogni blocco monopolistico, come un surplus incapace di trovare un investimento proficuo all’interno delle ristrette strutture date. E’ da qui che traggono la loro origine i vari tentativi di allargare queste strutture, di conquistare più ampi Lebensraume (spazio vitale, ndr) e di dare ulteriore impulso al processi di concentrazione della ricchezza e della povertà mondiali. Il New Deal diventa la nuova guerra mondiale; la centralizzazione attraverso la concorrenza legale si trasforma nella centralizzazione mediante la forza bruta. Così, la produzione senza profitto e la “costruzione delle piramidi” si trasforma nella distruzione di capitale con mezzi militari.


(sottolineature ns)



Da “Due uomini in barca” (Living Marxism n.1, autunno 1941)

Quando affermiamo che la crisi capitalistica non può che essere risolta a spese dei lavoratori, siamo pienamente consci che ciò vale, più che per questo particolare processo, per il capitalismo in generale. Se la crisi non può essere risolta che a spese degli operai, essa diventa una condizione permanente della società, per quanto questa permanenza possa venir mascherata da continui mutamenti nella distribuzione della ricchezza. Quando si parla delle iniziative economiche di Hitler o del New Deal di Roosevelt come di “provvedimenti socialisti”, si parla in realtà della ridistribuzione della ricchezza, un processo di livellamento che indebolisce ulteriormente i gruppo sociali meno forti a vantaggio dei ceti privilegiati.

Si tratta, qui, dell’imposizione forzata attraverso strumenti politici di ciò che è normalmente il risultato di un lungo processo di sviluppo capitalistico: la polarizzazione della società in due gruppi sociali antagonistici formati da una parte dalle larghe masse prive di ogni potere di controllo e, dall’altra, da un gruppo ristretto dotato di tutto il potere di controllo. Ciò non risolve naturalmente la crisi capitalistica ma, incrementando “artificiosamente” l’attività economica fino all’esaurimento del processo di livellamento, consente il finanziamento – nell’interesse della stabilità sociale – di alcune imprese improduttive.

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Con la creazione dell’Europa tedesca i nazisti rivendicavano semplicemente il diritto a partecipare in termini più equi alla moderna “economia del benessere”. Incapaci di eguagliare la WPA (struttura creata dal New Deal che per circa 10 anni diede lavoro a più di 8 milioni di persone, ndr) di Roosevelt sul suolo tedesco, essi domandavano un maggiore Lebensraum. E’ il loro serio tentativo di salvaguardare le strutture capitalistiche, non di abolirle, che li fa parlare in termini “socialistici”.


(sottolineature ns)