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In un articolo pubblicato sul numero 3–4 della nuova serie di «Prometeo» (luglio–settembre 1952), la politica economica del New Deal rooseveltiano fu minutamente illustrata a riprova di due tesi cardinali del marxismo rivoluzionario: 1) che di fronte alle sue crisi interne il capitalismo reagisce in tutti i Paesi, quale che sia la sovrastruttura politica, in modo unitario e con metodi di intervento, di accentramento e di dirigismo statale che accomunano democrazia e fascismo in un convergente obiettivo di difesa del regime; 2) che, lungi dal significare l'assoggettamento del Capitale all'imperio di un preteso ente collettivo e superiore alle classi (e, in linea subordinata, della borghesia ad una «nuova classe» di burocrati e tecnici, i managers), il «capitalismo di Stato» nelle sue diverse manifestazioni costituisce la forma più spietata di manovra dei «pubblici poteri» ad opera di una cerchia sempre più ristretta d'interessi privati.

L'analisi non sarebbe tuttavia completa se prescindesse dalla considerazione della parte che in questo processo ha avuto (e purtroppo continua ad avere) il movimento operaio organizzato in America, dove l'interventismo statale in regime politico democratico ha trovato la sua prima manifestazione organica, e in Inghilterra, dove ha raggiunto, nel dopoguerra, la forma più compiuta sul terreno pratico e su quella delle formulazioni «teoriche». In realtà, l'analisi di questa seconda faccia del «New Deal» americano e del «Welfare State» (Stato assistenziale) britannico dimostra non soltanto che la macchina dell'intervento e della gestione economica statale ha potuto mettersi in moto solo in virtù di una preventiva corruzione opportunistica del movimento operaio, ma che in entrambi i casi fu la dirigenza controrivoluzionaria di questo a fornire alla classe dominante le armi teoriche e pratiche necessarie al tamponamento della crisi. E ciò è un'altra prova della unitarietà del capitalismo nei propri metodi di conservazione: il fenomeno dell'opportunismo operaio, elemento necessario della difesa capitalistica contro l'assalto rivoluzionario del proletariato, assume dovunque gli stessi aspetti; ai dirigenti controrivoluzionari dei sindacati il capitalismo non chiede più soltanto di contenere nell'ambito della legalità, della riforma e della collaborazione gli urti di classe, ma di farsi promotori (come in America) od amministratori (Inghilterra laburista) di metodi più efficaci – «progressisti», cioè più conservatori del regime dello sfruttamento della forza–lavoro – di gestione dell'economia, e, di là dalle pretese differenziazioni ideologiche, il John Lewis ispiratore di Roosevelt e il Bevin o l'Attlee pianificatori dell'economia inglese postbellica e gestori delle avvenute nazionalizzazioni tendono la mano ai Di Vittorio elaboratori di piani di risanamento industriale e di investimenti produttivi o ai loro colleghi d'oltre cortina, che esercitano già adesso quei compiti di gestione economica ai quali la C.G.L. italiana o la C.G.T. francese possono per ora soltanto porre la propria. candidatura.

Non è qui la sede per un riesame critico della storia del movimento operaio americano e del complesso intreccio di fattori storici che impedirono nel secolo scorso lo sviluppo di genuine forze classiste nell'ambiente della sfrenata ascesa capitalistica statunitense, e provocarono il fatale declino di organizzazioni pur nate con una forte impronta di classe (i Knights of Labour della seconda metà dell'Ottocento, gli Industrial Workers of the World del primo ventennio del Novecento) mettendo i sindacati a rimorchio del regime borghese (1); importa qui rilevare soltanto come la prima guerra mondiale affrettò il processo di corruzione opportunistica dell'A.F.L., come il decennio 1920–30 ne completò lo sfacelo anche organizzativo, e come infine d'appoggio indiretto al regime borghese si trasformò, dal '32 in avanti, in diretto sostegno. Da un lato, l'illusoria prosperity del periodo bellico e postbellico, con la sua cornice di salari in aumento (almeno nelle categorie più elevate della classe operaia), di facilità di acquisto e di relativa sicurezza nell'occupazione, smorzava lo slancio di rivolta delle grandi masse operaie industriali; dall'altro il «capitalismo illuminato» copriva la sua rabbiosa campagna antiunionista con una politica di «provvidenze» a carattere aziendale intese a legare i produttori alle sorti del luogo di produzione (partecipazione agli utili, forme di azionariato operaio, unioni aziendali, taylorismo, «democrazia industriale», opere assistenziali, ecc.); frattanto i dirigenti sindacali, William Green al vertice dell'A.F.L. e figure come John Lewis alla direzione di grandi sindacati di categoria, assorbivano in pieno l'ideologia della collaborazione fra datore e prestatore d'opera, dell'interesse operaio per l'efficienza dell'azienda, della partecipazione dei lavoratori ai frutti «collettivi» della prosperità capitalistica; sabotavamo gli sforzi per l'organizzazione di un partito operaio indipendente dalle due grandi organizzazioni borghesi repubblicana e democratica (e John Lewis, quello stesso che, sotto il New Deal, passerà per il rinnovatore del movimento operaio imputridito nella pratica del riformismo e intorno al quale lo stalinismo fronte–popolaresco creerà un'aureola da eroe «rivoluzionario», gettava il peso della sua autorità personale e della forza organizzata dei suoi minatori a sostegno del candidato repubblicano alla presidenza) ; rifiutavano ogni appoggio alle agitazioni operaie dirette contro i contratti collettivi da essi firmati e non più rispondenti alla situazione, o apertamente sconfessavano i moti a ispirazione illegalitaria, mentre l'organizzazione sindacale assumeva sempre più il carattere di un'associazione di difesa dell'«aristocrazia del lavoro» e della sua posizione nel quadro del regime sociale capitalistico e faceva sua l'ideologia individualista e «sanguigna» della tradizione borghese americana, cosicché W. Green poteva legittimamente accettare nel 1930 la medaglia d'oro della Roosevelt Memorial Association «per i segnalati servigi nella lotta contro i confiitti operai» (F. Rh. Dulles)!

La potente organizzazione sindacale dell'A.F.L. era, alla vigilia dello scoppio della «grande crisi», praticamente conquistata al regime capitalista; ridotti gli effettivi, precluso l'accesso alla grande massa dei non–qualificati e dei disoccupati, ceduta gran parte del proprio potere di contrattazione e di assistenza agli organismi aziendali creati dagli stessi padroni, assorbita la pratica della collaborazione fra le classi e del lealismo verso gli istituti politici della classe dominante, il movimento operaio organizzato fu sorpreso dal «venerdì nero» non meno dell'alta finanza e dei grandi trusts, e vi reagì, d'altronde lentamente, come era inevitabile che facesse: portando acqua al mulino non della distruzione ma del salvataggio prima e della conservazione poi del regime del profitto.

La verità è che, quando il «trust dei cervelli» (poveri cervelli) di Roosevelt si riunì per studiare le misure di emergenza richieste dal disastro del 1929–32, non fu dalle meningi né di uomini d'affari né di professori di università che balzarono fuori, ancora grezze e confuse e intinte di empirismo, le grandi linee della NIRA, ma dalla lunga esperienza di riformismo dei dirigenti sindacali, e ad essa attinsero a piene mani i pianificatori.

Nell'articolo di «Prometeo» a cui ci riallacciamo si è dimostrato come queste misure – presentate demagogicamente come dirette contro l'arbitrio padronale e l'illimitato individualismo dei dirigenti industriali – mirassero in realtà a favorire la concentrazione, la cartellizzazione e l'autodisciplina della produzione, nell'interesse generale di conservazione del regime. Orbene, un primo progetto in questo senso, che prevedeva la sospensione della legislazione antitrust, la limitazione della concorrenza sfrenata tra produttori, la fissazione di prezzi minimi, ecc., era stato suggerito ad una commissione del Senato da John Lewis già nel 1928, e fu ancora John Lewis, il 17 febbraio 1933, a proporre su scala nazionale e in modo organico l'introduzione delle intese padronali controllate dallo Stato per la stabilizzazione dei prezzi e della produzione, abilmente collegandola alla richiesta di una tutela degli interessi proletari mediante riduzione delle ore di lavoro (per favorire il riassorbimento dei disoccupati), assicurazione di salari minimi, riconoscimento ufficiale del diritto di organizzazione dei lavoratori, e attribuzione ai sindacati così riconosciuti del compito di negoziare collettivamente coi padroni. Era già, in embrione, il rooseveltiano National Recovery Act (nato pochi mesi dopo) che faceva sue tanto le proposte di intervento «risanatore a dell'economia» quanto quelle relative alla cosidetta legislazione sociale (la famosa Sezione 7.a). Il capitalismo dava con una mano quello che toglieva dall'altra: sembrava cedere all'assalto dei lavoratori; di fatto, legava stabilmente ad una politica programmata di ricostruzione capitalistica il movimento sindacale. E, soprattutto nel periodo della seconda presidenza di Roosevelt, promuoverà i lavori pubblici, la rete dei sussidi ai disoccupati, delle pensioni ai vecchi e agli invalidi, la pratica del fiscalismo a fini assistenziali, cioè avocherà allo Stato la gestione delle «riforme sociali» mentre si assicurerà l'appoggio elettorale del Labor e si ergerà ad arbitro dei conflitti di classe in preparazione dello sforzo di assistenza alle «democrazie in guerra» e, più tardi, del riarmo nazionale. Il «New Deal» era varato, e il movimento sindacale lo teneva a battesimo nelle sue finalità conservatrici contro l'offa di «concessioni» alla classe operaia in tal modo vincolata ai destini dell'esperimento di direzione economica dello Stato.

Concessioni inderogabili, per la classe dominante, e non solo per la ragione che il mancato riconoscimento delle unioni sindacali rappresentava un insostenibile anacronismo rispetto alla prassi corrente in tutti i Paesi capitalistici avanzati (insostenibile, beninteso, non per ragioni morali o di aderenza a paradigmi ideali, ma per ragioni di efficienza e di organicità nella difesa del massimo bastione capitalistico mondiale dall'urto dei contrasti di classe), ma soprattutto perchè l'aprirsi della crisi economica interna gettava in movimento poderose masse operaie e scatenava agitazioni a raggio esteso e ad imprevedibili sviluppi. Tutto il sottosuolo sociale della repubblica stellata era in ebollizione, e particolarmente preoccupante era la minaccia di quelle tali masse di operai non specializzati, che il processo della meccanizzazione tendeva sempre più a far coincidere con tutta l'estensione del proletariato industriale ma che la A.F.L, si era tenacemente rifiutata di accogliere nelle proprie file, e del gigantesco esercito dei disoccupati, fluttuante, incontrollabile e, in situazioni di crisi, non più manovrabile né come arma di contropressione né come riserva di braccia cui attingere contro i fratelli occupati.

L'inefficienza organizzativa delle unioni ultrariformiste ed ultralealiste si convertiva, per il regime borghese, in un pericolo: il loro riconoscimento e la parvenza di una legislazione filo–operaia erano condizione indispensabile del ristabilimento della pace sociale interna, e perciò della stessa ripresa economica. Bisognava preparare l'ovile a cui ricondurre, via via che le misure anticrisi si sviluppavano e sortivano il loro effetto, le masse disciplinate, fluttuanti e continuamente gettate dalla crisi sull'arena del conflitto sociale. Né l'ovile poteva essere più soltanto la vecchia A.F.L.

Fatto significativo: il «consulente» e padre putativo della N.I.R.A. è John Lewis, e John Lewis, fin dal 1932 ma soprattutto nella fase successiva, sarà il grande organizzatore dei non organizzati, i manovali semplici dei grandi trust, in specie di quelli del carbone, dell'acciaio e delle automobili. Fatto ancor più significativo: nel 1935 la N.I.R.A. è dichiarata incostituzionale e, prima che il nuovo turno d'interventismo statale rooseveltiano s'inizi, gigantesche agitazioni sociali si scatenano, il processo di radicalizzazione delle masse si accentua, il 1936–37 è il periodo ardente delle occupazioni su scala generalizzata delle fabbriche; ebbene, alla fine del 1935, John Lewis crea il C.I.O, la seconda organizzazione sindacale sorta in concorrenza con la A.F.L., fondata su base industriale e raggruppante tutti gli operatori della stessa industria senza distinzione di categoria e di mestiere. E' un colpo maestro; l'antica aspirazione di un organismo operaio non frammentato in compartimenti stagni e abbracciante la totalità della forza–lavoro pare realizzarsi; si realizza, in realtà, sotto la guida di uomini che di questa poderosa forza finalmente organizzata si serviranno a sostegno della classe dominante e del suo Stato. Il vecchio lupo non ha cambiato pelo: John Lewis prende l'iniziativa della creazione del C.I.O. solo per prevenire la formazione di un'autonoma centrale sindacale «rossa».

Lens, citato da Guérin, ricorda il discorso pronunciato nel 1935 da uno dei fondatori del C.I.O., Howard: «I lavoratori di questo Paese stanno organizzandosi e, se non sono messi in condizione di organizzarsi sotto la bandiera della A.F.L., si organizzeranno sotto un'altra direzione, o perfino senza alcuna direzione. Cadranno sotto l'influenza di forze sovversive, situazione che, certo, nessun delegato al congresso dell'A.F.L. auspica». E lo stesso Lens commenta: «Il disaccordo fra Lewis e il resto dei dirigenti dell'A.F.L. non poggiava su una concezione fondamentalmente diversa dei problemi sociali, ma unicamente sul punto di sapere come arrestare l'allarmante sviluppo del radicalismo nei sindacati». Lewis risolverà il problema non soltanto organizzando i non–organizzati, ma convogliando nella sua organizzazione elementi radicali, assegnando posti di apparente primo piano a vecchi e giovani organizzatori estremisti, servendosi spregiudicatamente dell'arma della corruzione; renderà un ulteriore servizio alla stabilità del New Deal rooseveltiano intervenendo come elemento conciliatore nei grandi scioperi del 1936–37 e condannando la pratica diffusa dello sciopero bianco; parerà (fedele anche in questo alla tradizione dell'A.F.L.) la minaccia di una «politicizzazione» del movimento operaio mettendo a disposizione della campagna per la rielezione di Roosevelt la rete organizzativa e, non ultimi, i fondi della propria unione sindacale, e – confidente fino al 1938–39 di Roosevelt – saprà sconsigliargli il ricorso alla forza contro gli scioperanti del 1937 assumendosi egli il compito di trattare sottobanco coi padroni la liquidazione del conflitto. Né inganni l'episodio della successiva, personale rottura con Roosevelt: il «servo sciocco» aveva finito di essere indispensabile al padrone, né la rottura ridurrà più che di una unità l'esercito di riserva delle pedine governative ufficiali in seno al movimento operaio. Non a caso la seconda guerra mondiale e il secondo dopoguerra vedranno A.F.L. e C.I.O. rabbiosamente schierati a sostegno dello sforzo bellico e dell'espansione imperialistica degli Stati Uniti (e, durante il conflitto, elementi di punta del sabotaggio delle rivendicazioni operaie saranno gli staliniani).

Il cerchio era chiuso: il New Deal, dopo aver fatti suoi i piani di risanamento economico e di pacificazione sociale del sindacalismo ultrariformista, otteneva attraverso i suoi buoni uffici l'inquadramento sotto le proprie bandiere delle masse operaie e il riassorbimento della prima e più pericolosa ondata di agitazioni sociali. Il «wildcat», lo scioperante in agitazioni non autorizzate e incontrollate, diventava la bestia nera del governo come degli organizzatori dell'A.F.L. e del C.I.O.: la vernice sociale del New Deal riusciva ad esercitare la sua influenza conservatrice sulle masse solo in virtù dell'azione convergente dell'opportunismo.

Ben più faranno il Partito laburista e le Trade–Unions in Inghilterra: svilupperanno cioè e gestiranno lo «Stato assistenziale» già in parte costruito durante la guerra sotto l'ispirazione dei Keynes e dei Beaverbrook, e forniranno – come vedremo prossimamente sulla scorta dei New Fabian Essays – la giustificazione pseudo–teorica di un «nuovo regime» qualitativamente non più capitalista e solo quantitativamente e formalmente diverso dal socialismo...



(1) Ricchissime fonti sono a questo proposito il primo volume di Où va le peuple américain? del trotzkista indipendente D. Guérin (Paris, Juillard, 1950) e la Storia del movimento operaio americano del prof. Foster Rhea Dulles (1950; trad. ital. Milano, Comunità 1953) ai quali in parte ci riferiamo; ma il secondo ha un interesse prevalentemente informativo (per quanto molto documentato) e il primo è viziato, pur nella robusta parte critica, da un'impostazione unilaterale e spesso eclettica.



(da "Sul Filo del Tempo" - maggio 1953)