nucleo comunista internazionalista
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A seguito della pubblicazione sul sito di un nostro opuscolo del 1985 sotto il titolo “ Col proletariato e i lavoratori rivoluzionari del Kurdistan”, abbiamo ricevuto la richiesta – che accogliamo volentieri – di ripubblicare un ulteriore nostro l’articolo del 1991: “L’ultimo, ed anche il più amaro, atto dell’annoso dramma dei kurdi”.
28 settembre 2014


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Dopo l’operazione "Massacro nel deserto"

L’ULTIMO, ED ANCHE IL PIÙ AMARO, ATTO DELL’ANNOSO DRAMMA DEI KURDI

Quale crudele beffa si è consumata ai danni del popolo kurdo! Mentre questo cadeva ancora una volta vittima di una brigantesca pace imperialista, ecco le cancellerie occidentali farsi avanti a "deprecare" quella rappresaglia del regime iracheno di cui sono pienamente corresponsabili, e levarsi dal neonato Pds – oscenità si aggiunge ad oscenità – espressioni di rimpianto per i limiti imposti dalla realpolitik di Bush a quell’intrepido vendicatore degli oppressi che risponde al nome di Schwarzkopf...


Eravamo stati facili profeti a scrivere nel n.19 del "Che fare" che per le popolazioni kurde sarebbe stato senza meno un disastro mantenersi fuori dalla mobilitazione anti-imperialista montante in Medio Oriente nella illusione di poter fare "i conti con le borghesie – non è una sola! che opprimono il popolo kurdo" senza battersi "a fondo anche ed anzitutto contro l’imperialismo" o, peggio, "nella speranza – quante volte vana e suicida in passato – di poter ottenere per buoni servigi resi all’Occidente la tanto agognata autodeterminazione". La nostra sarà sembrata non ne dubitiamo – una richiesta troppo esigente ed ultimativa nei confronti di un popolo che, dopotutto, chiedeva e chiede "soltanto" di vedersi riconosciuto un diritto borghese che l’ordinamento internazionale esistente attribuisce, in astratto, a tutte le nazionalità. La solita pretesa "ideologica" dei rivoluzionari, insomma, di riportare la risoluzione di tutte le situazioni di oppressione a bomba, e cioè alla lotta contro il sistema capitalista-imperialista nel suo complesso. Ed invece gli avvenimenti del Kurdistan dell’Iraq, con tutto il loro carico di tragedia, stanno lì a riprovare che quello marxista è l’unico apprezzamento veramente realistico delle condizioni internazionali e locali necessarie alla liberazione del popolo kurdo.

Nella trappola americana

Fare le spese delle cosiddette intese di pace non è purtroppo un’esperienza nuova per le masse oppresse del Kurdistan. Nella lunga galleria degli orrori del riverito diritto internazionale, la risoluzione ONU del 3 aprile è venuta infatti buona ultima (1) a dischiudere una nuova stagione di lutti e di diaspora per gli sfruttati kurdi. È un’esperienza già fatta, dunque, che è però questa volta particolarmente amara perché, per le circostanze e le modalità con cui si é materializzata, ha assunto i connotati di una disfatta politico-militare senza precedenti. Una disfatta dovuta principalmente alla totale impreparazione ed improvvisazione, alla paurosa confusione di prospettive politiche che hanno caratterizzato il movimento insurrezionale.

Per giustificare la rotta, la irresponsabile (a dir niente) direzione "nazionale" che ne porta la colpa, ha chiamato in causa la natura spontanea di essa. Ma la verità dei fatti è un tantino differente.

L’aggressione imperialista all’Iraq ha messo le masse lavoratrici kurde in una posizione fortemente contraddittoria. La parte più cosciente di esse ha inteso a volo che l’armata del Pentagono e dei suoi consoci ed ascari era sbarcata in Arabia per sferrare un attacco deterrente contro tutti i popoli del Medio Oriente, e non certo per punire il regime di Saddam Hussein per i suoi crimini verso i lavoratori e le minoranze nazionali oppresse. I proletari kurdi di Diyabakir e di altre città del Kurdistan turco (Bingol, Batman, Idil, Sirnak, ecc.), del resto, lo hanno gridato nelle loro manifestazioni, all’unisono con i minatori turchi e milioni di oppressi arabo-islamici. È stata questa convinzione a portare i settori più avanzati del movimento kurdo, in Europa, in Medio Oriente e perfino in Iraq, a sentirsi in qualche misura solidali con le masse irachene martoriate dai bombardamenti degli "alleati". Si spiega così che, nonostante la incessante sobillazione di Washington, di Ankara, di Damasco e delle forti corti feudali, i kurdi iracheni non siano stati disponibili ad insorgere né prima durante l’operazione "Massacro nel deserto". Lo stesso equivoco Jalal Talabani professava ancora neutralità, dichiarando che Bush e Saddam erano da considerarsi entrambi "nemici dei popoli del mondo" e che il movimento kurdo avrebbe combattuto solo ed esclusivamente per se stesso.

D’altro canto, l’aggressione imperialista al popolo iracheno non poteva certo cancellare il giustificatissimo odio degli sfruttati kurdi per il regime oppressore di Baghdad. La sconfitta di quest’ultimo, anzi, ha sortito l’effetto di rinfocolare in loro la speranza di poterla far finita con esso. Non si sostenga, però, che la sollevazione del Kurdistan iracheno è scattata automaticamente all’atto della "liberazione" del Kuwait (vi risultano dimostrazioni kurde di giubilo per il ritorno a casa del Lassie dell’imperialismo?) e che Pdk e Puk ne siano stati trascinati al seguito. È accaduto, piuttosto, l’inverso. È stata l’"opposizione" al regime baathista (un informe coacervo di forze che non offre, in quanto "blocco", ai lavoratori credenziali politiche preferibili a quelle del "piccolo Satana"...) a soffiare a pieni polmoni sul malcontento di massa fino a provocare l’incendio. E lo ha fatto, ecco il punto decisivo della questione, sulla base della fiducia insensata, ammesso che fosse autentica, nell’intervento pro-kurdi delle potenze imperialiste. L’ottimismo e l’incitamento dei "propri" capi e la mobilitazione dei Peshmerga, scesi dopo molto tempo dalle montagne, hanno funto da innesco della generale sollevazione kurda. Questa poi ha, a sua volta, travolto con il suo generoso impeto ogni residuo calcolo e furbizia tattica delle dirigenze, facendo insorgere l’uno dopo l’altro i centri urbani, pur in assenza della benché minima chiarezza – specialmente tra le masse lavoratrici – sugli indirizzi e gli obiettivi politici (autonomia? autodeterminazione?, caduta di Saddam o contrattazione con Saddam?, convergenza obiettiva o accordo con gli imperialisti?, cooperazione con il governo turco o con i kurdi turchi?, ecc.) e della benché minima preparazione e della necessaria predisposizione al combattimento con l’esercito iracheno.

Nonostante l’adesione alla rivolta di un certo numero di soldati e ufficiali "regolari", insorgere in queste condizioni significava consegnare il destino della sollevazione nelle mani dell’amministrazione yankee. Il portavoce dei kurdi negli USA, Salih, non si è peritato di ammettere che "i kurdi non si sarebbero sollevati se non avessero ricevuto promesse dagli americani" ("l’Unità", 8 aprile). Altrettanto esplicito il massimo esponente del Pdk, Masud Barzani: "Abbiamo semplicemente risposto in modo positivo all’appello lanciato dal presidente Bush. La nostra popolazione si è sollevata contro Saddam Hussein con lo scopo di far fuori il governo di Baghdad; appunto come veniva chiesto dagli Stati Uniti" ("il manifesto", 10 aprile).

Ma gli USA non avevano alcunissimo interesse a favorire la vittoria della ribellione popolare anti-Saddam. Nulla è più lontano dagli intendimenti imperialisti per il Medio Oriente, e per l’intero campo dei paesi dominati, della nascita per via insurrezionale di sia pur piccole entità "democratico-popolari". Ne sanno qualcosa gli sfruttati di Palestina e del Centro America. A ben altro e contrapposto risultato miravano Bush e C. Nei loro piani la miscela di devastanti bombardamenti "alleati" sul Kurdistan iracheno (se ne ricorda più nessuno?) e di accattivanti appelli a "ribellarsi al tiranno", come la manovra gemella verso le popolazioni sciite della regione di Bassora, puntavano sì ad attizzare la sommossa popolare, ma al solo e preciso scopo, stabilizzante in senso pro-imperialista, di assestare l’estremo colpo al "personaggio-simbolo" Saddam dall’interno, causandone la caduta a mezzo di un golpe militare. Essendo questo, e non certo il successo dell’insurrezione di massa, l’unico modo realmente consentaneo agli interessi degli stati imperialisti di aprire il dopo-guerra di "pacificazione" in Iraq e nell’area.

Fallito il proprio obiettivo, constatato che andava facendosi concreto il rischio di un’estensione della rivolta kurda al nord e del raggio di influenza "islamica" a sud, i governi "alleati" non hanno esitato a dare disco verde alla Guardia repubblicana. Soffocare nel sangue senza indugi l’insorgenza popolare è diventato, a quel punto, interesse comune sia del governo borghese vinto che del fronte imperialista vincitore. Tanto di guadagnato per quest’ultimo, poi, che fosse ancora una volta il regime di Baghdad a conciare di persona la pelle degli sfortunati kurdi. Per parte sua, la società multinazionale di conciatura della pelle dei lavoratori che ne trae comunque i maggiori profitti, alias l’Occidente imperialista, poteva così più agevolmente scaricare sul proprio ex-protetto ogni responsabilità per l’accaduto e celebrare per contrappunto la propria smisurata umanità...

Un bilancio storico assolutamente ineludibile

Se la sollevazione delle popolazioni kurde dell’Iraq è caduta in pieno nella trappola tesa da Washington, se i "fieri kurdi" han dato di sé l’immagine di un’orda di sbandati alla deriva, ciò si deve in larga misura alle incapaci e corrotte direzioni feudal-borghesi che ancor oggi conservano l’egemonia nel movimento nazionale. A loro è da ascrivere non soltanto la leggerezza da avventurieri (poco importa se consapevolmente in affitto, o meno) con cui hanno mandato allo sbaraglio le proprie popolazioni, ma anche il comportamento tenuto dopo il "tradimento" dei governi imperialisti. Crollate "inaspettatamente" le attese nell’aiuto del "padre Bush" (con questo epiteto – ahilui – un fuggitivo kurdo ha gratificato il proprio primo nemico!), esse, contrariamente ai roboanti proclami del giorno avanti, hanno subitaneamente dato la direttiva della fuga in massa, senza esser capaci di apprestare neppure un minimo di barriera difensiva nei confronti di un’esercito iracheno, pur profondamente disorganizzato dalle diserzioni ed altrettanto minato nel morale.

La propaganda imperialista spiega lo sconcerto ed il panico delle masse dei profughi con la spietata repressione del regime di Saddam Hussein. A noi pare – pazienza se diciamo cose impopolari – che siano stati effetto anche, se non principalmente, della diserzione dal campo di battaglia dello stesso "stato maggiore" kurdo-iracheno, bancarottiero tanto sul piano politico quanto sul piano militare. È altresì probabile – le notizie di cui disponiamo sono, a questo proposito, insufficienti a darne certezza – che l’esodo sia stato disposto, o per lo meno favorito, dal Pdk e dal Puk anche per disfare sul nascere quell’embrione di "armata popolare" e di "amministrazione popolare" direttamente investita dei propri poteri dalle masse sfruttate insorte che la sollevazione aveva creato a Sulaimanyia e, sembra, in altre città. Non è da oggi, d’altra parte, che quelle organizzazioni sono impegnate a contrastare con tutti i mezzi, dentro e fuori il Kurdistan dell’Iraq, ogni passo verso l’autonomia di classe del giovane proletariato e delle altre classi sfruttate.

Il repentino tracollo della rivolta si spiega pure con il suo quasi completo isolamento rispetto alle zone non irachene del Kurdistan. È una storia vecchia: il movimento nazionalrivoluzionario kurdo non è mai riuscito a realizzare, neanche in nuce, la propria unità al di là delle artificiali frontiere impostegli dall’imperialismo. Fattori materiali forti vi si sono opposti. Anzitutto, gli stati interessati alla perpetuazione dell’oppressione dei kurdi hanno accortamente scoraggiato la formazione di un mercato capace di unificarli su vasta scala. In secondo luogo, sono tutt’oggi grandi il campo di permanenza ed il peso inerziale di secolari rapporti sociali pre-capitalistici. Fattori che, evidentemente, rendono difficile l’unificazione reale delle masse kurde. Ricade sulla borghesia kurda nel suo insieme, però, il demerito di non avere mai saputo (e voluto) mettere con chiarezza all’ordine dei giorno la questione dell’unità dei movimento di resistenza e di lotta kurdo di Turchia, d’Iraq, d’Iran e di Siria, per il timore degli sconvolgimenti sociali ed internazionali che una "semplice" lotta di autodeterminazione di tale portata avrebbe.

È venuta per contro costituendosi, tra i "partiti" (semi)borghesi kurdi, la orrenda tradizione di "appoggiarsi" ai rivali borghesi o perfino imperialisti del governo che direttamente li opprime anche a costo di pugnalare altri movimenti "fratelli". Su questo piano il Pdk ed il Puk si sono segnalati a più riprese per la collaborazione prestata ai regimi sciaoista e khomeinista di Teheran nella repressione delle insorgenze kurde in Iran, ed allo stesso regime baathista "nemico" nello schiacciamento delle organizzazioni politiche considerate di maggiore pericolosità sociale, quale ad esempio il Partito comunista iracheno (2). Per non smentirsi, i "partiti" feudal-borghesi kurdo-iracheni hanno stretto nei mesi passati relazioni... particolari – pensate un po’ – proprio con quella Turchia di Ozal che, da bastione della NATO in Medio Oriente quale è, ha funzionato da base di appoggio (operativa) nella aggressione imperialista all’Iraq ed a tutti i popoli oppressi dell’area, compreso, quindi, quello kurdo. Nei giorni in cui l’esercito turco reprimeva nel sangue le dimostrazioni contro la guerra all’Iraq e contro la presenza delle truppe imperialiste in Turchia, a cominciare da quelle svoltesi nel Kurdistan turco, il braccio destro di Barzani, Dyiazee, si lanciava in una vera e propria lode del governo turco: "La sua posizione è cambiata in meglio – garantiva costui – sotto l’impulso della politica di apertura del presidente Ozal, e della situazione internazionale. Riteniamo che per la questione kurda questa sia una svolta (!). Le autorità turche hanno capito che il nostro obiettivo non é fondare uno stato separatista in Iraq, ma ottenere il riconoscimento dei nostri diritti, e che secondo noi il problema kurdo non si pone nello stesso modo in Turchia e in Iraq (nel senso che in Turchia, dove è tuttora ufficiale la tesi che non esistono i kurdi, le cose vanno assai meglio che in Iraq... n.). Che cioè spetta ad ogni singolo paese risolvere i propri problemi secondo la sua situazione interna. Per quanto riguarda noi kurdi, la Turchia non è l’Iraq, e ad Ankara lo abbiamo detto chiaramente" ("la Repubblica" del 15 marzo). Un paio di settimane appena ed Ankara passava all’incasso la cambiale del tradimento, sconfinando in Iraq e trucidando 125 "terroristi del Pkk", il Partito dei lavoratori del Kurdistan turco ("Corriere della sera" dell’8 aprile)... Un tradimento, è ben evidente, che si abbatteva immancabilmente sugli stessi kurdi iracheni. Il sistema di alleanze contro-natura che Pdk e Puk hanno intessuto con forze che, al pari del regime di Saddam, sfruttano e opprimono le masse kurde, senza riuscire ad assicurare alcun "sostegno" all’insorgenza kurda in Iraq, l’ha invece potentemente isolata ed in certo grado compromessa agli occhi degli sfruttati del Medio Oriente, e delle altre popolazioni kurde per prime.

Di fronte a questa ennesima tragedia, l’avanguardia dei lavoratori kurdi, dentro e fuori l’Iraq, non può limitarsi ad esecrare l’infame violenza della Guardia repubblicana al servizio di Baghdad; deve – è gran tempo! – fare il più severo bilancio di decenni di eroiche battaglie e saldare i conti definitivamente con le vecchie direzioni feudal-borghesi idonee soltanto più, ormai, a provocare brucianti sconfitte. I termini di questo bilancio prorompono nitidi da tutto il corso di una esperienza pressoché secolare, e sono in sintesi:

1. L’oppressione, lo sfruttamento e la divisione del popolo kurdo sono stati storicamente opera dell’imperialismo (3), e rimangono tutt’oggi interesse delle potenze imperialiste, e non soltanto delle borghesie di Turchia, Iraq, Iran e Siria. Di conseguenza non solo non può venire dagli stati e dai governi imperialisti alcuna sorta di "aiuto" alla guerra degli sfruttati kurdi per il proprio riscatto nazionale e sociale, ma questo medesimo riscatto passa necessariamente attraverso la lotta congiunta alle borghesie direttamente sfruttatrici e all’imperialismo.

2. La borghesia kurda si è progressivamente ritratta dal perseguimento degli obiettivi nazional-rivoluzionari, sostanzialmente abbandonando lo stesso obiettivo della autodeterminazione all’interno dei singoli stati oppressori. Pur sentendosi sacrificata nella posizione di sotto-borghesia stracciona, e perciò tenendo in piedi tuttora strutture di resistenza e prendendo parte – e perfino talora dando impulso – alla lotta nazionale, essa si è acconciata sempre più alla collaborazione con le borghesie dell’area, con l’imperialismo e – all’interno – con una classe dei proprietari terrieri solo in parte svezzatasi dalle costumanze tribali. La borghesia kurda avverte sul proprio collo il fiato della rabbia e l’esasperazione delle grandi masse sfruttate, e se ne difende. È a questo permanente interesse di classe, e non a contingenti "errori" di valutazione di singoli "personaggi" carismatici, che si devono l’incoerenza, il doppiogiochismo ed i veri e propri tradimenti della causa nazionale dei vari Pdk, Puk e via dicendo.

3. Poiché, anche a causa di ciò, l’oppressione nazionale e sociale sul giovane proletariato e sulle masse povere urbane e rurali del Kurdistan si è accentuata, spetta a queste classi assumere direttamente sulle proprie spalle, revocata ogni forma di delega alle tradizionali direzioni feudal-borghesi, tutti i compiti della lotta di liberazione, a cominciare da quello – che rischia altrimenti di irrancidirsi – di realizzare un’effettiva unità tra le stesse masse lavoratrici kurde. In questa lotta esse potranno contare soltanto sulla forza, peraltro potenzialmente immensa, degli sfruttati del Medio Oriente e del proletariato internazionale con cui condividono, sul piano storico, l’interesse a rovesciare il sistema capitalistico.

Se si abbraccia con uno sguardo d’insieme l’esperienza del movimento nazional-rivoluzionario kurdo, ci si può convincere, essendovi disposti, che non stiamo sognando ad occhi aperti. Infatti, pur risentendo negativamente delle traversie passate e presenti del movimento proletario e comunista internazionale, il movimento di lotta del popolo kurdo è stato contrassegnato da un duplice, e positivo, cambiamento in profondità. il suo baricentro è andato spostandosi, sul piano sociale, dalle classi piccolo-proprietarie a quelle sfruttate e, sul piano politico, dal nazionalismo (quasi sempre: sub–nazionalismo) borghese (via via più moderato) a prime espressioni di tendenze orientate verso il marxismo e l’internazionalismo classista. Rimane tra queste di particolare significato l’esperienza del Komala, l’organizzazione kurda del Partito comunista d’Iran. Al di là delle sue attuali posizioni (di cui molto poco sappiamo) ed anche ammettendo che, nell’isolamento, sia paurosamente regredito al suo stadio di partenza populista-maoista e perfino più in basso, il Komala ha rappresentato finora, nella prima metà degli anni ’80 il tentativo più avanzato (non diciamo: "perfetto", ché tale non era e non potrebbe comunque essere la più bolscevica delle organizzazioni rivoluzionarie presa separatamente, specie se in un paese ultra-arretrato) di inquadrare e risolvere la questione kurda in termini di classe. Un’esperienza che fu possibile, non a caso, soltanto per l’impulso di una insorgenza "popolare" a più vasto raggio, quale fu il movimento insurrezionale che rovesciò il regime dello Scià, e – dentro di esso – di un "giovane marxismo" proteso a riannodare il filo con la tradizione rivoluzionaria della III Internazionale. E che poté procedere in avanti per qualche tempo anche per la sua capacità di giovarsi dell’ossigeno proveniente da una conflittualità della classe operaia metropolitana più accesa di quanto non sia oggi.

Siamo certi che se l’avanguardia dei lavoratori kurdi terrà tutto ciò nel debito conto, la stessa recente disfatta potrà non essere venuta invano.

Dalla parte dei kurdi oppressi o del super-macellaio Schwarzkopf?

Molto, se non quasi tutto, dipende naturalmente dall’aiuto che il proletariato ed i comunisti della metropoli daranno alle masse kurde. (Non parliamo qui dell’aiuto materiale immediato in cibo e vestiario, benché anche questo – che per gli imperialisti è segno della loro prodigalità – è frutto esclusivo del lavoro e dello sfruttamento operaio, e sarebbe bene non scordarlo. Parliamo, invece, dell’aiuto programmatico e politico, che è anche la più alta forma di sostegno materiale, mentre non è vero, ed anzi é per lo più falso, l’inverso). A riguardo le cose vanno tra male e malissimo, e riconoscerlo e denunziarlo è indispensabile proprio per superare l’attuale situazione.

La drammatica vicenda del Kurdistan iracheno è stata per una certa "sinistra" (del capitale), altro che occasione per una autentica solidarietà verso gli oppressi kurdi e perciò di una violenta denunzia dei loro oppressori – quelli di casa "nostra" in testa –, lo spunto per un ulteriore passo nel senso del più sfrenato oltranzismo sciovinista. Aprendo "l’Unità" dell’8 aprile ci è toccato di leggere, ad esempio, a firma di Paolo Flores D’Arcais, uno dei "grandi nomi" (grandi fetenti) imbarcati dal prode Achille nel Pds, un articolo che è assai indicativo di un umore che sta guadagnando terreno nella "sinistra", ivi inclusa una bella fetta del "pacifismo". Costui afferma che se i kurdi iracheni fuggono e muoiono, la colpa è di quanti non hanno voluto che la guerra a Saddam Hussein venisse portata fino in fondo. "Un fatto è certo – dice –:centinaia di migliaia di uomini, donne, vecchi e bambini, non avrebbero avuto troncata l’esistenza se il generale "Orso" (4) Schwarzkopf avesse potuto prolungare le operazioni belliche ancora per un paio di giorni. Quel paio di giorni di "pace" hanno condannato centinaia di migliaia di kurdi all’annientamento". Anatema, dunque, sulle timidissime e insufficientissime manifestazioni "per la pace" e, soprattutto, per le "mancate manifestazioni di massa" necessarie a dare un secondo "via libera" a Schwarzkopf, le cui mani grondano del sangue ancora caldo di centinaia di migliaia (e in questo caso i dati sono veri!) di iracheni e di kurdi. Né ci si ferma qui. "ONU o non ONU – incalza il suddetto –, diritto internazionale o meno, Saddam andava combattuto, e distrutto nel suo potenziale bellico, perché la sua sanguinaria dittatura intendeva estendersi all’intera area del Golfo, in forma di egemonia imperialistica regionale, con il dichiarato obiettivo di sopprimere poi l’entità sionista, vale a dire Israele". Messo al bando qualsiasi conformismo legalitario, "la sinistra" dovrebbe, d’ora in avanti, essere pronta, in nome dei suoi "valori", a scendere in campo al fianco degli Schwarzkopf di turno contro i "tiepidi" e i "diplomatici" alla Bush.

E quali sono i "valori" in difesa dei quali arruolarsi? "Salvare i kurdi dal genocidio"? Assicurare "i diritti umani di tutti e di ciascuno"? Ah-ah-ah-ah! Se a simile gente fosse importato realmente qualcosa del popolo kurdo, non l’avrebbero "scoperto" soltanto quando la sua tragedia fa comodo per chiedere un supplemento di distruzione dell’Iraq; non si sarebbero fregati le mani di compiacimento per il "successo" dell’aggressione imperialista che é stata anche "Tempesta" (= massacro) in Kurdistan; non tacerebbero, complici, sulla cinica trappola che gli USA hanno teso alle popolazioni kurde; non passerebbero sotto silenzio le infamie che ai danni di queste popolazioni si continuano a perpetrare, oltre che in Iraq, nelle "amiche" Turchia e Siria e nel "neutrale" Iran; e, soprattutto, dovrebbero aver qualcosina da ridire sulla ribadita, categorica negazione – da parte degli "alleati" – del diritto all’autodecisione delle masse kurde. Se ai liberal-democratici, dentro o fuori il Pds che siano, importasse davvero qualcosa della "libertà dei popoli" e dei "diritti umani" nei paesi sottoposti a "sanguinarie dittature", dovrebbero chiamare alla lotta implacabile contro l’intero capitalismo imperialista che è l’oppressore numero uno della "libertà dei popoli" ed il beneficiario numero uno di tutte le "sanguinarie dittature" dei paesi dominati dall’imperialismo, i cui bestiali metodi terroristici sono la irrinunciabile (per l’imperialismo, e non solo per le borghesie dipendenti) base dell’affluenza e della "democrazia" metropolitane.

Ma questo sarebbe, agli occhi dei Flores D’Arcais, il supremo dei crimini, dacché i "valori" a presidio dei quali invocano e preparano, "ONU o non ONU", la "guerra santa" imperialista, sono i valori della "libertà" delle democrazie imperialiste di sfruttare e dominare il proletariato ovunque, di dettar legge sui popoli oppressi ovunque e – se necessario, e sarà necessario – di rifarla "la legge dell’ONU", di sradicare e distruggere qualsiasi forza osi attentare alla "egemonia imperialistica" mondiale dell’Occidente, di proteggere con tutti i mezzi non soltanto l’"entità sionista" che opprime il popolo palestinese, ma anche le "entità" ad essa gemelle quali – ad esempio – quell’Eden dei "diritti umani di tutti e di ciascuno" che è il feudale emirato del Kuwait o, per restare in Arabia, l’autocrazia saudita. L’effettiva essenza della apparente perorazione a pro della "salvezza" dei kurdi è, dunque, la salvaguardia della più totale libertà d’azione del capitale (il sole, come sempre, di tutti i "valori"). Il vero nemico contro cui si chiama alla guerra senza mezze misure (neppure "un paio di giorni di pace"...) è, al di là dell’utile pretesto del momento Saddam, il minaccioso esercito degli sfruttati arabo-islamici e della "periferia". Ed il reale bersaglio dell’isterico attacco in questione non è l’innocuissimo "pacifismo" (tutt’altro che neutrale, tra l’altro, come ha rivendicato con orgoglio la sua leader-ship), bensì quel tanto di sentimento anti-militarista, quel tanto di resistenza a farsi attivi sostenitori dei piani di guerra del "proprio" imperialismo che, nonostante tutto, c’è nella classe operaia e tra i lavoratori e che, se non annientato per tempo, può trasformarsi in futuro in "potenziale bellico" anti-capitalista. Ci riflettano bene sopra quei compagni che si attendono dal Pds "risposte nuove" ai "problemi nuovi": le "novità" che vi ammannirà la neonata formazione sono del genere testé illustrato, anti-proletario ed anti-comunista a tutto tondo.

Se dall’ala più oltranzista del Pds, peraltro non smentita e tanto meno bastonata – come meriterebbe – dal suo partito, passiamo al campo "pacifista", le cose non si fanno gran che più allegre. Tralasciamo quella non ristretta porzione del movimento "pacifista" sulla quale le ragioni dello sciovinismo liberal-democratico già stanno facendo presa, e veniamo a quella componente in certo grado più genuina (meno ideologizzata) e di base del "movimento per la pace", che si è sforzata di dare alle masse kurde una solidarietà differente da quella di richiedere la ripresa della devastazione dell’Iraq. In questi organismi si trovano sentimenti ed intenzioni lodevoli, ma vi regna pure una incredibile contraddittorietà delle analisi politiche ed un conseguente smarrimento sul che fare.

Qui ci si avvede, almeno in parte, che la sacrosanta denunzia della repressione compiuta dal regime di Baghdad è solo un aspetto e, se si vuole, anche il più "semplice", della questione. Si cerca, perciò, di allargare il campo delle responsabilità e di risalire, tanto per cominciare, alla spartizione coloniale degli anni ’20. Ma questa spartizione è vista spesso in modo del tutto errato, come se i soggetti di essa fossero stati l’URSS (a quel tempo uno stato niente affatto colonialista, ché anzi punto di riferimento della rivoluzione anti-coloniale) ed i quattro stati in cui oggi è diviso il popolo kurdo, e non si comprende invece come le vere protagoniste della spartizione, a tutt’oggi canonizzata dal diritto internazionale e vera fonte dell’oppressione dei kurdi (Saddam doveva ancora essere concepito...), sono state le grandi potenze imperialiste democratiche Gran Bretagna, Francia e Stati Uniti, potenze che avevano in tutto o in parte il dominio sugli stati direttamente "beneficiari" (due dei quali, peraltro, esistevano solo sulla carta). Si continua a parlare, poi, di semplice complicità dell’Occidente con gli stati che opprimono direttamente i kurdi come se quello tra l’imperialismo e Turchia, Iran, Iraq e Siria fosse un rapporto tra pari, il che non è, e come se l’Occidente si fosse limitato a far da palo, il che non è né in quest’ultimo atto del dramma kurdo, e neppure nei molti che l’hanno preceduto. (Si ammetterà che prendere il capo, o la cupola, di una banda per il "palo" della stessa è una piccola svista, o no?). Ma ciò che risulta il massimo della illogicità, è che, dopo avere sia pur solo in parte identificato le responsabilità delle grandi potenze, è di nuovo alla "comunità internazionale", alle Nazioni Unite, al diritto internazionale, alle conferenze internazionali "di pace" che ci si rivolge per vedere riconosciuto "il diritto del popolo kurdo all’autodeterminazione", ovvero a quelle medesime forze e sedi imperialiste che da quasi un secolo, per ragioni materiali e politiche il cui peso si è dal 1923 accresciuto, lo conculcano. È mai possibile che per la vittima non ci sia altra possibilità che rimettersi al buon cuore dei propri carnefici?

Lo è e lo sarà fino a quando non si prenderà a punto di riferimento per la liberazione di tutti gli sfruttati e gli oppressi del mondo non la "comunità internazionale" delle nazioni borghesi dominata con banche, bombe e diritto dalle potenze imperialiste, ma la nostra "comunità internazionale": LA COMUNITÀ INTERNAZIONALE DI INTERESSI E DI AZIONE DEL PROLETARIATO E DEI LAVORATORI. Soltanto se questo "piccolo" passaggio "logico" e pratico sarà compiuto, potremo troncare alla radice i rapporti sociali che rigenerano di continuo un’esistenza piena di tormenti per le classi sfruttate, e ripulire la terra (il più straordinario disinquinamento di tutti i tempi!) dai Bush come dagli Schwarzkopf, dai Saddam Hussein come dai Flores D’Arcais. Quella sarà vita! E però, anche nelle questioni scottanti dei nostri giorni è soltanto lavorando in questa direzione che non si porterà acqua ai mulini della borghesia.



Note


1) Nel 1923 fu il trattato di pace di Losanna a cancellare dalla geo-politica regionale il mini-stato kurdo previsto nel 1920 a Sèvres ("Anche il ’Kurdistan indipendente’ previsto da questo trattato – ha scritto Kendal – sarebbe stato comunque un paese amputato di due terzi del suo territorio – senza considerare il Kurdistan persiano – nonché delle sue terre fertili e delle zone di allevamento tradizionali", sicché "se il trattato fosse stato applicato il paese kurdo si sarebbe trovato diviso in cinque parti tra la Francia ad ovest, la Siria a sud, la Persia a est, l’Armenia a nord ed al centro un Kurdistan indipendente"). All’iniquità di Sèvres se ne sostituì una più grave: il territorio del Kurdistan fu diviso in quattro e lo stato del Kurdistan indipendente venne cancellato (il trattato di Losanna porta – si badi bene – anche la firma dell’Italia). Non meno infausti, per il popolo kurdo, altri celebri accordi di "pace". Nel 1946 fu lo spirito del patto di Jalta (e la promessa di qualche concessione petrolifera) ad indurre l’URSS staliniana ad abbandonare al proprio destino la Repubblica democratica kurda di Mahabad, sorta nella zona iraniana del Kurdistan. Nove anni dopo, a Baghdad, la Turchia, l’Iran e l’Iraq hashemita vararono, con il famigerato Patto voluto dalla Gran Bretagna, una pratica di cooperazione nello schiacciamento del movimento nazionale kurdo che, allargata alla Siria, funziona ancora oggi al di là di qualsiasi altra ragione di contesa. Si deve poi all’accordo di Algeri, siglato nel 1975 tra l’Iran dello Scià e l’Iraq baathista sotto l’alto patrocinio di Kissinger, la liquidazione della guerriglia guidata da Mustafà Barzani, ed alle manovre preparatorie del cessate il fuoco del 1988 tra l’Iran di Khomeini e l’Iraq di Saddam Hussein l’atroce massacro di Halabja e la quasi totale ripresa di controllo di Teheran sul Kurdistan dell’Iran. Sulle insegne di lotta dei kurdi dovrebbe essere legittimamente scritto: maledetta sia la pace!

2) Alcune notizie a questo proposito (un po’ frammentarie) si trovano in un articolo di M. Galletti in "Politica internazionale", 1990, n.11/12. Un quadro completo delle formazioni politiche kurde è in Ch. More, Les Kurdes aujourd’hui, L’Harmattan, 1984.

3) Prescindiamo qui dall’oppressione subita dai kurdi ad opera dell’impero ottomano, contro il quale vi furono cinquanta insurrezioni kurde nell’Ottocento; una oppressione i cui benefici, comunque, sono stati in buona misura, poi, "prelevati" dall’imperialismo occidentale.

4) Per noi, sempre rimanendo – com’è giusto – nel regno animale, non "orso" ma porco.


(“che fare” N. 21, maggio – giugno 1991)