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Sui morti italiani a Nassiriya

Ci è stato domandato cosa abbiamo da dire sui carabinieri e i soldati italiani morti nell’attentato di Nassiriya. Nessun problema, eccoci qui.

Anzitutto: non possiamo unirci, è evidente, alla retorica di stato sul loro "eroismo", poiché non riusciamo a vedere in cosa potrebbero aver dimostrato eroismo, di quali "imprese eccezionali" (così leggiamo sul vocabolario alla voce eroe) e, tanto più, di quali imprese eccezionalmente coraggiose essi si siano dimostrati capaci. Come risulta dalle loro biografie pubblicate sui giornali, la maggior parte di questi militi italiani caduti a Nassiriya era lì per i quattrini che si guadagnano in simili "missioni", di cui diversi erano degli habitués (Kosovo, Somalia, Afghanistan...), con le ottime abitudini di simili habitués (del tipo insegne fasciste in camerata, e così via).

Escludiamo con ciò che qualcuno di loro si sia sentito per davvero un peacekeeping, uno che va a mantenere o stabilire la pace in Iraq a favore delle popolazioni irachene? No, vogliamo ammetterlo, e ammettiamo del pari che nelle dichiarazioni di qualche loro familiare è venuto fuori esattamente questo ingenuo sentimento. Neppure ci fa fatica accettare che non tutto ciò che è stato raccontato dalla stampa e dalla tv circa i "buoni rapporti" tra i militari italiani e la popolazione locale sia stato inventato di sana pianta. A parte il fatto che, come risulta da svariate fonti comprese alcune interviste a militari italiani, questo è valido solo per una fetta minoritaria, e non quella più popolare, degli iracheni. Ma facciamo l’ipotesi che sia completamente vera la luna di miele tra la gente (non solo i capi tribal) della zona e i militari italiani. Anche in tal caso più delle credenze contano i fatti. E i fatti dicono che i "nostri" erano e sono lì, con tutta la loro vera o presunta "diversità", come parte integrante delle truppe di occupazione dell’Iraq; il cui compito è quello di consentire alle imprese petrolifere occidentali di accaparrarsi a costo zero l’oro nero iracheno e di assicurare la dominazione occidentale sull’Iraq e sulla regione medio–orientale. Sfruttamento e dominio: pur se al loro interno possono esservi dei "bravi ragazzi" o dei "poveri ragazzi" che credono di esser lì per tutt’altro, le "nostre" truppe sono laggiù a garantire rapporti di questo tipo. Ed un "lavoro" del genere non ci sembra, francamente, gran che "umanitario".

C’è tuttavia anche un altro fatto di cui bisogna prendere atto: è che gli iracheni, a differenza di altri (gli stessi serbi, ad esempio, o, negli anni ’80, i libanesi), questo lo hanno inteso molto bene. Con quell’attentato, e tutto ciò che prima e dopo di esso è venuto, "ci" hanno mandato a dire, senza la minima possibilità di equivoco (più chiaro di così!), che "ci" ritengono truppe di occupazione, e che ci tratteranno come è giusto trattare degli aggressori. Possiamo continuare ad ignorarlo?


(Che fare n. 62 – dicembre 2003 / gennaio 2004)