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QUESTIONE SESSUALE E VITA DI PARTITO



In particolare negli ultimi numeri, il nostro giornale ha affrontato sistematicamente la questione del partito, della militanza comunista e di come si pone in essi il problema del rapporto individuo-collettività e del rapporto uomo-donna. Su questi temi sin dall’inizio abbiamo richiesto le riflessioni e anche le critiche dei nostri lettori. Raccogliendo questo invito, alcuni di essi hanno rivolto al che fare interrogativi e obiezioni che qui riportiamo, per riprendere ed approfondire il filo del nostro ragionamento.




Perché mai – ci scrivono questi lettori – l’organizzazione rivoluzionaria dovrebbe entrare nel merito dei vari aspetti della "vita privata" dei compagni? Quando il militante garantisce la costanza del proprio impegno, non è forse questo l’essenziale? Perché l’organizzazione dovrebbe pretendere di "regolare" la vita sessuale del compagno disincentivandolo, ad esempio, dal fare il farfallone amoroso? E perché dovrebbe colpevolizzarlo quando, per soddisfare il suo bisogno sessuale, diversamente inappagato, va a prostitute? E quanto a farfallonismo, gli stessi Marx e Lenin non ne hanno fatte di bricconate?

Vita individuale = vita collettiva

Queste obiezioni, che si basano tutte su una supposta separazione tra una sfera privata di proprietà del militante-individuo e una sfera sociale di "legittima competenza" del partito, ci danno l’opportunità di ritornare su alcune questioni teoriche di interesse sia per i nostri militanti (direttamente chiamati in causa) sia per quelle avanguardie proletarie che intendono confrontarsi e impegnarsi sul terreno di una prospettiva rivoluzionaria.

Le obiezioni sollevate riflettono un pertinace luogo comune, quello che identifica la sfera privata nello "spazio personale" di ognuno, concepito come un campo neutrale in cui ciascuno non risponde che a sé stesso. Per il militante comunista, invece, la sfera personale è un’articolazione di un contesto sociale più generale, in quanto tutte le azioni e manifestazioni dell’essere umano hanno una derivazione e una valenza sociale, anche quando nascono dal bisogno o dall’aspirazione più intimi. E a questo riguardo lo stesso militante può riflettere, in quanto anch’egli prodotto della società capitalistica, la generale estraniazione dell’uomo dai suoi bisogni umani, e può essere spinto ad emulare, a causa della forza dell’abitudine e dei costumi correnti, l’individuo membro della società borghese. E l’emulazione viene indotta anche in forza di bisogni e istinti essenziali come quelli sessuali.

La forza dell’abitudine a rapporti disumani, mediati dall’interesse e dal denaro, concepiti e praticati come esercizio di potere, può portare alla ricerca di una falsa soddisfazione del bisogno di stare insieme e del rapporto con l’altro sesso. E si può arrivare a ritenere, come fanno questi nostri lettori, riflettendo purtroppo un senso comune, che tutto ciò appartiene a una sorta di campo neutro, in cui si possono emulare i comportamenti bestiali della società borghese, senza restarne però contaminati.

Per i comunisti è vero il contrario. Vita privata e vita collettiva sono legate da un comune denominatore: la valenza sociale delle azioni dell’uomo. A questo legame non si sottrae la vita privata dell’essere umano militante. Anzi, il militante (maschio o femmina che sia, giovane o meno giovane, salariato o non, etc.) è chiamato alla coerenza con i propri obiettivi complessivi, tanto nella sfera dell’attività di partito che in quella privata.

E’ chiaro che non è facile realizzare coerentemente dei rapporti "umani" nella sfera sessuale, che appartiene all’esperienza personale di ognuno e che difficilmente si può esaurire all’interno delle nostre piccole "comunità" di partito. E’ chiaro anche che per andare contro corrente rispetto alle ferree leggi della società borghese, è necessaria una forte auto-disciplina. Ma anche l’azione che il militante esplica sul piano politico non è forse un’azione disciplinata? Sì, lo è in quanto finalizzata all’emancipazione del proletariato, unica possibilità della sua stessa emancipazione. Ed è a questa finalità e a nessun’altra, che si assoggetta il militante.

Nel subordinarsi a questa prospettiva, però, egli non vi si disciplina a mò di salame, o nel modo borghese. Il militante che intenda a pieno il senso della propria appartenenza alla causa tende in modo cosciente a un’altra società, alla futura comunità umana, e nell’aderire a questa prospettiva, manifesta una scelta. Prende l’impegno a riconoscersi non nel cittadino, nell’individuo borghese, ma nel membro della futura collettività umana comunista.

Militante e prostituta

Sono queste astruserie? Rimaniamo nell’astratto? Bene, caliamoci allora senza esitazioni nel concreto. Dove faremo senz’altro belle scoperte, prima fra tutte quella che, se abbandoniamo le nostre funi e i nostri picchetti, ci mettiamo ben poco a cadere nel vuoto ed a ritrovarci – dopo un lungo salto – nell’abisso dei costumi e dell’ideologia borghese.

Cosa c’entra l’andare a prostitute con la militanza rivoluzionaria? Il sesso è sesso, il bisogno è bisogno e il militante rivoluzionario che non è un asceta, ha bisogno di sesso. La mattina diligentemente distribuisce in fabbrica il volantino contro lo sfruttamento degli immigrati, e la sera, magari, va con la prostituta albanese. Tutto in regola? O non piuttosto tutto in disordine, a cominciare da una sorta di schizofrenica dualità? Davanti alla fabbrica chi si è? E davanti alla donna che si prostituisce? Ma chi sono, poi, le prostitute? Se escludiamo il circuito della prostituzione di alto bordo, il mercato del sesso le recluta nella parte più diseredata del proletariato femminile e, oggi, in modo ancora più devastante tra le giovanissime immigrate o importate con la forza dai paesi più poveri. L’uomo, proletario o meno, militante o no, nel rapporto con la prostituta, utilizza e legittima un privilegio che è consacrato da questa società, che gli assicura la libertà di comprare sul mercato il soddisfacimento del proprio istinto sessuale. In questo innaturale rapporto l’uomo si pone come lo sfruttatore che utilizza questo privilegio, come il padrone borghese di fronte al suo operaio.

D’altra parte è evidente che l’uomo che utilizza questo privilegio è in generale quello più alienato, più abbrutito, quello con maggior difficoltà relazionali in genere e con l’altro sesso. Quello, cioè, che non è nemmeno capace di limitarsi ad utilizzare quel medesimo privilegio nell’ambito di un "normale rapporto di coppia" in questa società alienata. E’ chiaro, dunque, che esiste un reale disagio frutto di questi rapporti sociali. E i comunisti oppongono a questo disagio la forza della propria prospettiva. Essere parte di un tutto, costruirsi collettivamente come comunità sociale, come uomo sociale, vuol dire arricchirsi, liberarsi, e quindi sforzarsi di porsi anche nei rapporti individuali, o in quelli che il militante vive al di fuori della vita collettiva di partito, in modo nuovo.

Siamo dunque ben lontani dal fare del moralismo, o dal predicare l’astinenza. La questione è un’altra: chi è il militante? A quale istinto ubbidisce di fronte agli aut-aut di questa società in decadenza? Oggi nell’epoca delle mucche carnivore, sempre di più si pone l’alternativa tra comunismo e barbarie in tutte le sfere umane, ben oltre i rapporti immediati materiali di produzione. E’ un aut-aut al quale è chiamata a rispondere la classe, non senza che a ciò si sia previamente attrezzata la sua avanguardia politica: il partito. E da questo punto di vista non esistono un codice di regole o degli statuti da osservare formalisticamente. C’è però una regola sostanziale: o il militante si sforza di perseguire il massimo obiettivo possibile, a partire dalle condizioni date, per rendere più umani i rapporti che vive, o si centralizza inevitabilmente, in una forma o nell’altra, alla bestiale società capitalista.

D’altra parte se il disagio investe i militanti, figuriamoci quanto può incidere nel proletariato in quanto classe per il capitale. Compito del partito è dunque quello di favorire in ogni modo la ribellione delle donne, e il loro rifiuto di essere e di essere considerate merce in vendita, e al tempo stesso intervenire nel proletariato per colmare il ritardo che esiste sulla questione femminile. Per chiarire che dalla perdita dei propri privilegi e vantaggi di maschio e di marito, il proletario ha, "paradossalmente", tutto da guadagnare. Perché quei privilegi, che perpetuano l’oppressione sulla donna, servono al contempo a mantenere la sua schiavitù. Rifiutare un rapporto abbrutito con l’altro sesso, negarsi come "cliente"-sfruttatore della donna prostituta, riconoscere in essa la sorella di una stessa classe, di una stessa causa di liberazione, non significa certo risolvere il problema della prostituzione (su questo avremo modo di tornare), ma almeno iniziare a rifiutare, anche su questo terreno, la logica di funzionamento di questa marcia società.

Militanza e farfallonismo amoroso

Ma veniamo a un’altra obiezione sol-levata da questi nostri lettori: perché il militante comunista dovrebbe abbandonare pose e pratiche da farfallone amoroso? Non si vorrà fare dell’OCI una setta di morigeratissimi preti?


Se presupponi l’uomo come uomo e il suo rapporto col mondo come un rapporto umano, potrai scambiare amore soltanto con amore, fiducia solo con fiducia ecc. Se vuoi godere dell’arte, devi essere un uomo artisticamente educato; se vuoi esercitare qualche influsso sugli altri uomini, devi essere un uomo che agisce sugli altri uomini stimolandoli e sollecitandoli realmente. Ognuno dei tuoi rapporti con l’uomo, e con la natura, dev’essere una manifestazione determinata e corrispondente all’oggetto della tua volontà, della tua vita individuale nella sua realtà. Se tu ami senza suscitare una amorosa corrispondenza, cioè se il tuo amore come amore non produce una corrispondenza d’amore, se nella tua manifestazione vitale di uomo amante non fai di te stesso un uomo amato, il tuo amore è impotente, è un’infelicità.

Karl Marx, da Manoscritti economico-filosofici del 1844


La nostra risposta è: evidentemente no. Aborriamo ogni idiota rappresentazione della milizia come comunità di puri e perfetti. Noi non esprimiamo la nostra contrarietà al farfallonismo sulla base di un pregiudizio, ma perché lo riteniamo una tara dell’attuale società, in quanto tiene costantemente impegnate le energie vitali (mentali e fisiche) di chi lo persegue in una vuota attività di continua rincorsa del piacere (o del... dispiacere, come altra faccia dell’inseguimento amoroso). Questa rincorsa non è innocua poiché crea, in chi la pratica, una coazione al sapersi distinguere, proporre e, dunque in definitiva, vendere, sfuggendo così a quella autenticità e completezza di rapporti che noi perseguiamo, e perché comporta al tempo stesso una limitazione ed un impedimento verso una vera vita sociale di partito.

Il legame all’organizzazione è un fatto vivo, non consiste in una dichiarazione di semplice convincimento verso le "idee" proprie dell’organizzazione, per cui per essere militanti basta avere capito date "idee". No, lo sforzo è maggiore: pensare, essere e dunque agire come collettività umana non consente zone franche, o personalità scisse. Negandosi alla necessità di aderire alla teoria nella pratica quotidiana, il farfallone amoroso si nega al legame vivo, sociale del partito.

Ma, ci si potrebbe obiettare, non è proprio la prospettiva del comunismo che prelude ad una soddisfazione degli istinti sessuali in modo libero e facile? Perché allora condannare il farfallonismo? Per la risposta, allora, scomodiamo quel "farfallone" di Vladimir Ilic, che è stato portato dai nostri contraddittori come un esempio di "bricconaggine": "... voi (C. Zetkin – n.n.) conoscete bene il vostro compagno Huz. E’ un giovane perfetto, ricco di doti, ma temo che non ne venga nulla di buono. Si agita e si getta da una avventura amorosa ad un’altra. Ciò è un male, per la lotta politica e per la rivoluzione. Io non garantirei, riguardo alla sicurezza e alla fermezza nella lotta, delle donne il cui romanzo personale si intreccia con la politica, né degli uomini che corrono dietro ogni gonnella". Se queste preoccupazioni erano giustificate nella Russia del 1920, in cui lo sconvolgimento della morale borghese poteva dar adito a interpretazioni un po’ troppo "personali" della nuova "morale" rivoluzionaria da creare, tanto più lo sono nell’attuale società borghese, in cui tutti gli eccessi sono il sintomo della decadenza.

Quanto alle cosiddette "bricconate" di Marx e Lenin, chiariamo anzitutto che esse non rientrano – come ognun sa – in nessuna delle casistiche di comportamento qui prese in esame. In secondo luogo, frugare golosamente in tutti i singoli atti delle loro vite alla ricerca di eventuali "incoerenze" della loro condotta, sarebbe un’attività pochissimo utile ai nostri fini, poiché i comunisti, da materialisti storici quali sono, non cercano in esse quel che i cattolici cercano nelle "vite dei santi". E – terzo – i comunisti non hanno mai inteso trovare argomenti a sostegno dell’inviolabilità del vincolo monogamico, né risolvere il problema del rapporto uomo-donna con una precettistica formale e astratta, valida al di sopra del tempo e dello spazio. Essi si riconoscono, e seriamente, in un solo precetto generale: nel condurre la lotta senza quartiere alla morale ed alla società borghese, nell’impegno a instaurare tra i sessi dei rapporti autenticamente umani, di scambievole fiducia, di solidarietà, di amore, a cui sia estranea la pratica mercantile del comprare e del vendere, dell’andare e del mettersi sul mercato.

Morale borghese e "morale di lotta"

Engels diceva che dalla condizione riservata alla donna si può misurare il grado di civiltà di una società nel suo complesso. E qual’è questo grado di civiltà in una società che non è capace di far vivere il rapporto tra uomo e donna come rapporto umano, ma che ne fa un rapporto mercantile, di potere? E come, concretamente, può essere condotta la lotta contro questa società e la sua morale da parte dei militanti e dei proletari che si avvicinano al partito, anche sulla sfera personale?

Non si può avere, ad esempio, da parte del militante uomo un atteggiamento che riproduce nella "sfera personale" la doppia morale borghese, ossia l’esistenza di due codici di comportamento differenziati per sé e per la "propria" donna. Il fatto, ad esempio, che la propria donna non faccia attività politica può giustificare la comoda acquiescenza al lavoro domestico che questa svolge come schiava? O non deve piuttosto essere motivo per farle recuperare, fattivamente energia e tempo, per risvegliarla dal torpore casalingo e proiettarla fuori di questo?

Il militante, il proletario non devono sottrarsi a questi minimi obiettivi col pretesto che la ricostruzione del naturale rapporto tra i sessi presuppone la totale distruzione dell’economia capitalistica, e il superamento – più difficile perché non scaturisce meccanicamente dalla distruzione delle basi economiche – dei costumi e delle abitudini borghesi.

Nel negare la morale borghese, noi non possiamo certo immaginarci di anticipare la futura società comunista in delle "comuni liberate" in versione partito. Ci impegniamo, invece, a stabilire una nostra disciplina di combattimento ed un nostro riferimento. Un riferimento che risiede nella "morale della lotta", e cioè in quel senso rivoluzionario che il proletariato ha espresso storicamente nella sua lotta per la liberazione e che torna ad esprimere – come ha dimostrato di saper fare in Belgio, nelle mobilitazioni contro la pedofilia – quando vuole disfarsi di tutta la melma che la società borghese gli ha attaccato addosso. Un senso rivoluzionario che rivive anche, in qualche modo, in tutti i movimenti di autentica ribellione all’oppressione capitalistica.

E’ questo un idealismo destinato ad infrangersi nella realtà dell’alienazione e dell’isolamento sociale a cui questa società condanna gli individui? No! Contro l’immiserimento dell’uomo soffocato dall’individualismo borghese, noi comunisti costruiamo, e disveliamo a noi stessi, le enormi potenzialità di un lavoro veramente collettivo e di una vera vita di partito, che sin da oggi alludono e tendono al bisogno realizzato di una comunità veramente umana.

Bisogna sognare! Perché il nostro sogno precorra gli eventi che condurranno l’umanità a superare la sua preistoria. Bisogna sognare! Perché il sogno sostiene e rafforza l’energia antagonista del militante, che sin da oggi vede materializzarsi nella crisi del sistema la prospettiva del futuro.

(Che fare N.42, marzo;– aprile 1997)