nucleo comunista internazionalista
confronto politico




ROSSA:
UNA “PROPOSTA” CHE ARRETRA
SUL PIANO DEL PROGRAMMA POLITICO
E DELLA PROSPETTIVA

Le dichiarazioni propositive di Ross@ sono disorganiche e sfuggenti.

Ci riferiamo in particolare alla “dichiarazione comune per un movimento politico anticapitalista e libertario” dell’11 maggio ’13, al “documento della prima assemblea nazionale a Bologna del 15 maggio”, e al “documento-promemoria del seminario nazionale di Roma del 15 giugno”.

Per una reale capacità di collegamento e indirizzo di forze, per quel che Rossa si propone di fare, avremmo ben rinunciato all’estetismo della @ finale in cambio di una maggiore sostanza di contenuti chiari e di vera passione politica, questi sì indispensabili.

La proposta di Rossa è percorsa da un tambureggiante invito ad attivizzarsi, con l’enfasi calcata su “passaggi epocali” e “rotture” (in atto e già consumate) che renderebbero “improponibili le ricette del passato” (quali!?, n.n.) e necessario il “cambio di registro” cui le campane di Rossa chiamano perentoriamente a raccolta.

Se non interpretiamo male si punta a mettere insieme forze dai percorsi lontanissimi, quand’anche declinati sotto la comune bandiera del “comunismo” (peraltro dichiaratamente non esclusiva in Rossa). Ci si rivolge in primo luogo ai “resti” della cosiddetta “sinistra radicale” ovvero ai vari PRC e PdCI ipersuonati dalle batoste elettorali che li hanno lasciati definitivamnte a secco di scranni parlamentari (vale a dire di “ossigeno” per tal genia di “comunisti”), e a seguire – a quelli “della sinistra rivoluzionaria uscita sconfitta dal durissimo scontro politico e sociale degli anni ’70”(così troviamo scritto nel coevo “documento politico della Rete dei Comunisti” di aprile 2013, sul quale invitiamo a leggere il nostro articolo “Alla ‘riforma non riformista’ del ‘pensiero comunista’ rispondiamo con la necessità di riconquistare il comunismo autentico”).

Questo disegno e questa sostanza vediamo confermati nelle assisi di Rossa e la nostra lontananza da un siffatto “quadro di famiglia” è assodata.

Ciò è scontato quanto agli epigoni del partitone di Togliatti-Napolitano-Berlinguer, ma nondimeno lo è rispetto a quella “sinistra rivoluzionaria degli anni ’70” che si è dimostrata incapace di riannodare il filo con la vera tradizione del comunismo rivoluzionario avendo preso in carico il potenziale di lotta espresso dal ’68 senza fare un solo passo reale (se si esclude la radicalizzazione delle forme di lotta) oltre e contro l’orizzonte politico e programmatico del togliattismo, cioè del riformismo. Che di questo si tratta lo conferma il disegno di ricomporsi con gli ultimi cocci rotti del partitone che fu, inteso ciò non come positiva proiezione a organizzare su tutt’altre basi energie militanti che non vadano disperse e verso le quali anche noi – ferme le tutt’altre basi nostre – non ci sogniamo alcun atteggiamento di supponente chiusura, ma come penoso tentativo di veder finalmente trionfare la propria opzione che non mette minimamente in discussione l’impianto di fondo e anzi pensando che le disgrazie elettorali dei vari sottotronconi di comunisti rifondati diano oggi più forza alla propria “proposta politica”.

Detto questo, non deriviamo da ciò il nostro giudizio e andiamo a misurare i meriti proposti, pronti a valorizzare ogni spunto utile, quale ne sia il punto di partenza.

Rossa spergiura di non voler essere un intergruppi, ma di fatto i suoi scritti sono un centrifugato che male amalgama ingredienti diversi, ovvero le essenze sfumate che ne restano dopo il trattamento che li ha resi “unitari” (ma a quel punto senza sapore né di carne e né di pesce: digeribili per questo?), per forze e percorsi politici che portano in dote, tutti e ciascuno, le proprie arzigogolate rifondazioni e circonvolute particolarità. Ne deriva l’assenza di organicità e l’affastellamento di mozziconi di analisi e proposizioni staccate, omessi i più ampi ragionamenti che forse avrebbero almeno chiarito qualche significato.

La sensazione è quella dell’enfasi degli “svolti epocali”, dei disvelamenti finali di verità brandite, della ribadita necessità di abbandonare una volta per tutte i sentieri che non siano quelli indicati da Rossa, senza che da cotanto tambureggiamento sia dato attingere un’analisi effettiva delle “rotture” e dei “cambiamenti” di cui si dice, una pur minima intelleggibilità delle verità propinate, uno straccio di bilancio su cosa realmente sarebbe accaduto a giustificare e dare forza a tanta perentorietà (oltre all’avanzare della crisi e alla crescente difficoltà di settori sempre più ampi della classe proletaria, sul che nessuno può nutrire dubbi). Il tutto reso ancor più pressante dall’agitazione del disastroso stato attuale delle forze “anticapitaliste” dal quale solo con la proposta di Rossa ci si risolleverebbe (nulla da obiettare neanche su questo, solo si stratta di capire se Rossa possa essere effettivamente l’antitodo e noi ne dubitiamo).

Nondimeno Rossa evoca a suo modo la necessità di un bilancio e gli scritti sono pur sempre pervasi dalla verifica del passato volendo segnare la strada dell’oggi e la prospettiva del futuro. E’ per questo che, senza farci incantare dall’abusata enfasi, siamo interessati a dare seguito alla professata necessità di una riflessione di fondo, realmente imprescindibile per contribuire alla ripresa della lotta. Lotta che a nessuno è dato, neanche nelle condizioni presuntamente più propizie, di poter promuovere a tavolino. E’ per questo che, mentre lasciamo cadere gli inviti ad arruolamenti confusi (quanto alla lotta, se e dove realmente data, sapremo prendervi il nostro posto), siamo invece interessati a capire quale sia l’attrezzaggio teorico-politico messo a disposizione dalle forze che animano Rossa come proprio contributo per la ripresa di classe.

Le “colpe passate” del “socialismo reale”

I promotori di Rossa partono dalla “necessità di costruire un’alternativa”. Necessità che “le offese e le devastazioni di un capitalismo criminale rimettono all’ordine del giorno”. Si può essere d’accordo, ma l’alternativa non la si costruisce sulle reticenze e le omissioni.

Leggiamo negli appelli di Rossa che “certo il socialismo reale è crollato nel passato per colpe sue”, ma i promotori nondimeno “sentono vive le proprie radici comuniste e libertarie, antifasciste e antirazziste, femministe e ambientaliste”.

In questo crogiuolo di “radici pluraliste” Rossa pianta anche la bandierina del comunismo, previa ammissione delle “sconfitte passate” e ridimensionamento del rango “alla pari” con altre “radici” (che il comunismo di per sé ben comprende quanto a cosiddetti “antirazzismo femminismo e ambientalismo” legittimati per il giusto verso nella propria onnilaterale denuncia del capitalismo e relativa battaglia, oppure esclude quanto a contenuti “libertari” e antifascisti essendo impegnato a valorizzare le istanze proletarie che in quei contenitori possono esprimersi sul piano della propria visione teorica e del conseguente programma di classe).

Se “il socialismo reale è crollato”, quel che si capisce è che la faccenda non riguarderebbe i promotori di Rossa (crollato “per colpe sue”... – !? –), salvo il fatto che i crolli passati sembrano giustificare la prospettiva di un’alternativa che sarebbe ora “comunista e libertaria”.

Superando il fastidio che ci suscitano questi anguilleschi giri di valzer, mille volte noi ripeteremo a note semplici e chiare che a crollare non è stato alcun “comunismo”. Semplicemente il comunsimo non è stato in grado di vincere la battaglia data nel 1917 e negli anni seguenti sul decisivo scenario europeo e mondiale e per questo non potè affermarsi né in Russia (dove aveva conseguito la sua gloriosa ma non risolutiva vittoria) e né altrove: è una cosa completamente diversa. Questa e solo questa è la “sconfitta storica” subita dal proletartiato e datata negli anni ’20 del passato secolo con ultimi sussulti di rivoluzione nel decennio succcessivo ancora in Germania e nella tragedia spagnola.

Sconfitta da non banalizzare affatto quanto a lezioni della controrivolzione da prendere in carico, ma che è tutt’altra cosa rispetto ai crolli miserabili avvenuti sotto gli occhi delle nostre generazioni, epilogo questi ultimi del corso politico di snaturamento e auto-distruzione del movimento comunista internazionale che ebbe a prevalere come conseguenza della sconfitta degli anni ’20-’30 del passato secolo e del corrispondente trionfo della controrivoluzione nel mondo intero e a Mosca.

I crolli del 1989-1991, giammai riferibili al “socialismo”, sono la stazione d’arrivo della degenerazione consistita nel voltare le spalle alla prospettiva del comunismo internazionalista, sputtanandone oltretutto in modo inverecondo la teoria e il programma per potersene avvalere a copertura di una sostanza politica affatto diversa. E’ giusto che chi ha fatto proprio l’intero corso del falso “comunismo” di Mosca ammetta la sconfitta della propria ipotesi e bandiera politica. E’ bene però che non appiccichi al proletariato le proprie sconfitte, perché il proletariato, quand’anche si presenti ai nostri giorni piuttosto malconcio per mille diverse ragioni, negli anni 1989-1991 non ha combattuto alcuna battaglia (men che meno per arginare i crolli “socialisti”) e non ha subito alcuna “sconfitta storica”!

Che poi i compagni di Rossa di quei crolli se ne lavino elegantemente le mani risulta finanche risibile! “Crollato per colpe sue”? Quali sono queste colpe? Per noi non è accettabile che chi fino all’altro ieri e ancor oggi ha accreditato e accredita nelle proprie “proposte politiche” la categoria storica di un “campo socialista” oggi liquefatto (e si tratta di una buona parte dei promotori di Rossa), possa scaricarsene il peso scrivendo di “colpe sue”! Non è forse questo trasformismo? Nella migliore delle ipotesi è il maldestro tentativo di allontanare l’impegno di un bilancio della propria storia, giustificandolo peraltro con il fine pratico di mettere insieme le forze più disparate e con i “comunisti” ora disposti a cospargersi il capo di cenere.

Non si tratta di fare di Rossa o di altre istanze del genere la sede di un bilancio complesso, ma qualsivoglia proposta di “un’alternativa” che invece di recepirne almeno la necessità e l’istanza lo eluda in un modo così papale è destinata a franare sulle basi inconsistenti che ha inteso darsi. Insomma quale che sia il genere di proposta che si avanza, mai nulla di alternativamente buono potrà essere costruito senza la consapevolezza su ciò che già una volta è crollato!

“Colpe passate” dei “real-socialisti” e degli “anarchici di governo”

Che non si possa procedere in questo modo sta scritto, a ben vedere, anche negli appelli di Rossa dove leggiamo che Rossa “colloca la propria sfida culturale sul terreno della modernità del cambiamento sociale (translate please!?, n.n.), che esclude la riproposizione dei modelli sconfitti (quali? n.n.)”. Infatti – si prosegue – “la parola libertaria con tutte le sue implicazioni non è accessoria...” e “nel percorso di Rossa va collocata una sede teorica che istruisca il confronto sul programma fondamentale...”. Vedremo se si darà seguito. Resta il fatto che premesse più ondivaghe, capitolarde e confuse non potevano essere concepite.

Ben vengano, beninteso, l’interlocuzione e il confronto con altre radici e in particolare con quanti intendono richiamarsi all’anarchismo. Considerati i crolli del “comunismo” fasullo è del tutto comprensibile che la ripresa della lotta e la ricerca di orientamento possano scartare i riferimenti al comunismo e a Marx per volgersi altrove e in particolare alla tradizione anarchica. Nessun settarismo o spocchia di alcun genere contraddistinguono il nostro atteggiamento al riguardo. Una cosa però è certa. La nostra disponibilità si basa su quanto detto e non su altro, anche perché le cosiddette “sconfitte del socialismo”, riferite al corso disastroso dello stalinismo, sono state all’occorrenza ben assecondate dai “libertari” più o meno accodati ai vari fronti popolari e antifascisti.

Per approfondire “tutte le implicazioni della parola libertaria” suggeriamo di leggere il testo appassionante di Agustin Guillamòn “I Comitati di Difesa della CNT a Barcellona 1933-1938” Edizione “All’insegna del gatto Rosso” gennaio 2013. Pur non condividendo la somma tratta nel saggio d’appendice di Gilles Dauvè, questa lettura è utilissima per ricordare che, se “il socialismo nel passato è fallito”, il movimento libertario non ha davvero trionfato, e laddove è stato protagonista, come nell’insurrezione di Barcellona del luglio 1936, ha dapprima disorganizzato “scientificamente” la propria azione rivoluzionaria rifuggendo anche solo dal considerare la “presa del potere” perché non in linea con le “radici” proprie, e quindi poi ha offerto i suoi quadri e ministri alla collaborazione con gli stalinisti in quel governo repubblicano che, in ossequio all’unità antifascista e alle sue alleanze internazionali con Inghilterra e Francia, si incaricò di reprimere e fare piazza pulita dei Comitati di Difesa, cioè dei potenziali organismi della rivoluzione e della dittatura proletaria (ministri nel governo repubblicano sì, artefici della dittatura del proletariato no!).

Questa è la storia e non si cancella.

Insomma per noi non è nessuno scandalo, anzi, se è data l’opportunità di discutere e lottare del tutto fraternamente e alla pari con compagni libertari (anche su questo non mancano i giusti precedenti storici e sarà utilissimo conoscerli), purchè sia chiaro che giammai pensiamo di mettere in discussione la battaglia e le acquisizioni teorico-politiche del marxismo che sono definitive. Acquisizioni che, a volerle e saperle riconquistare e non continuamente rifondare/riaffinare/riformare, hanno garantito e garantiscono al proletariato (anche contro le teorizzazioni e le mene anarchiche) basi solide per il proprio agire rivoluzionario.

Peraltro le “concessioni” teorico-programmatiche di Rossa non finiscono qui e l’arretramento della prospettiva è di molto più marcato.

Cominciando a vedere dove vada concretamente a parare cotanta fioritura di radici, leggiamo con una certa sorpresa che “oggi tutta l’Europa deve liberarsi dalla tirannia del capitalismo finanziario e della sua oligarchia economica, politica e culturale, come nel 1848 e nel 1945 doveva liberarsi dalla tirannia dei sovrani assoluti e del fascismo”.

Veramente nel 1848 il programma dei comunisti era quello di “liberarsi dai tiranni assoluti”?!

In realtà a inizio di quell’anno fu dato alle stampe, redatto da Marx su incarico della Lega dei Comunisti, il Manifesto del partito comunista che non fu un fortunato best-seller occasionalmente pubblicato in quell’anno, bensì il concretissimo indirizzo e programma politico dei comunisti nella rivoluzione del 1848, laddove si trattava per il giovane proletariato di appoggiare la borghesia (allora e non certo oggi) assumendone per sé le rivendicazioni democratiche disponendosi al tempo stesso ”un minuto dopo la conseguita vittoria” a volgere le armi contro la borghesia per affermare contro di essa gli interessi storici della propria classe e il programma del comunismo. Questo è scritto nel Manifesto del partito comunista e non certo “la lotta contro i tiranni assoluti” (né, 100 anni dopo, l’union sacrée nazionale contro il fascismo a scapito e cancellazione dell’indipendenza politica del proletariato e del programma di classe)!

Per completare il quadro dei riferimenti annotiamo bensì dagli appelli di Rossa che si vuol “rendere attuale il socialismo”, per un “socialismo del 21° secolo” e quant’altro, ma quando poi si entra un po’ più nel merito si legge (oltre alla “tirannia da cui liberarsi”) la precisazione che “siamo anticapitalisti, non liberali di sinistra” e questa sarebbe la demarcazione!

In conclusione i riferimenti più gettonati di “movimento anticapitalista” e – con maggiore insistenza – “anticapitalista e libertario” assumono (per chi vuol capire) il significato di consapevoli dissolvenze successive del riferimento al comunismo.

Su queste basi ci si candida realmente a “ruota di scorta della catena di Sant’Antonio” del capitalismo nazionale!

Detto ciò, la proposta di Rossa è quella di un movimento politico in “totale alternativa” al centrosinistra, che rompa con ogni ipotesi di “sinistra del centrosinistra” e “ruota di scorta” nella “catena di sant’Antonio” che porta al PD.

Al tempo stesso Rossa misura il dato dell’inesistenza in Italia di un movimento generale di lotta contro l’incalzare delle politiche di rigore che attaccano a fondo le condizioni di lavoro e di vita del proletariato. Una presa d’atto condivisibile, al pari della critica alla “retorica del movimentismo senza movimento reale” che invero ha trovato e trova i più diversi interpreti. (Ci domandiamo peraltro se anche Rossa non cada in questa retorica laddove annota che “tutti i tentativi di far emergere un progetto politico anticapitalista unitario dalle lotte sociali, civili, ambientali e per la libertà delle donne sono falliti”. Negli anni che abbiamo alle spalle abbiamo pur visto lotte sociali e “ambientali” – a partire dalla difesa del proprio territorio –, ma francamente non sappiamo a cosa ci si riferisca quanto a “lotte civili o per la libertà delle donne”. Se ci si riferisce agli appelli e alle aduntate sporadiche delle promotrici di “Se non ora quando”, peraltro sparite di scena non appena il PD si è reso disponibile ai governi tecnici e di larghe intese, come lamentarsi poi che i tentativi di costruire un “movimento generale” su queste basi siano falliti? E come liberarsi della “retorica del movimentismo” senza lotta reale se poi ci si cade dentro con tutti e due i piedi?).

“La verità – Rossa lo scrive – è che ci sono lotte qua e là ma non c’è un movimento generale di lotta”. Sottoscriviamo. Nel recente passato i passaggi di lotta più significativi sono stati gli scioperi della Fiom contro la politica degli accordi separati (punta di lancia di un attaco padronal-governativo portato ai metalmeccanici ma in realtà all’insieme del mondo del lavoro) e le iniziative del Comitato No Debito, in particolare la manifestazione del 27 ottobre 2012 che raccolse a Roma la partecipazione di un gran numero di lavoratori dopo che il vertice Fiom aveva ingranato la retromarcia scegliendo di riconciliarsi con la segreteria confederale per rientrarsene all’ovile con un mezzo accordo elettorale PD-SEL in tasca (e poi si è visto a che è servito). Del Comitato No Debito abbiamo apprezzato i meriti e i limiti; Rossa con tutta franchezza non ci sembra un suo positivo sviluppo laddove il passaggio da comitato a “movimento politico” non può darsi sulla genericità e la confusione del programma.

La Cgil (per non dire di Cisl e Uil) dapprima ha isolato i metalmeccanici e sabotato la generalizzazione della lotta, poi, quando il PD è entrato nel governo tecnico, ha dismesso qualsiasi idea di mobilitazione. Dal canto suo la Fiom sin dall’approssimarsi di nuove elezioni aveva iniziato la manovra di rientro al termine della quale l’intero sindacato confederale, questa volta senza eccezioni, da un lato ha accettato il cosiddetto “accordo sulla rappresentanza” che mette la museruola a chiunque voglia ribellarsi sui posti di lavoro e dall’altro si pone oggi come un responsabile interlocutore – se non addirittura sponsor – del governo Napolitano-Letta. Addirittura, a petto della minacciata sfiducia di Berlusconi al governo Letta, Cgil-Cisl-Uil hanno paventato manifestazioni a sostegno dell’esecutivo delle larghe intese. Non si è scioperato contro la riforma delle pensioni e la libertà di licenziamento, lo si sarebbe fatto a sostegno del governo “contro l’irresponsabilità del cavaliere che metteva a repentaglio l’Italia”!

Lo scenario è dunque quello di un PD al governo con la sua “cinghia” (di trasmissione della smobilitazione) sindacale schierata a difesa della paralisi sociale. La FIOM ha fatto totale dietro front e, insieme a SEL (da sempre collocata nel puro gioco istituzionale), punta le fiches sulla possibilità di spostare un po’ più a sinistra il quadro politico, candidandosi a reale ruota di scorta della “catena di Sant’Antonio del PD”. Questo è il senso dell’appello del 12 ottobre dove il vertice FIOM non chiama più il mondo del lavoro alla lotta perché l’asse è decisamente spostato su quella “difesa della Costituzione” che nei discorsi di Landini se ne va a braccetto con la rivendicazione dell’ “accordo sulla rappresentanza” (coerente applicazione della borghese democrazia!), per istanze di classe dismesse sul loro reale terreno e trasfigurate in tediose disquisizioni giuridiche e relativi osanna alla Corte Costituzionale (se e quando “i giudici supremi” riconoscono a Landini e soci “vittorie” legali che lasciano il tempo che trovano).

Le forze “antagoniste e anticapitaliste”, anche quelle che si coordinano in Rossa, avrebbero quindi il campo libero per raccogliere la disponibilità alla lotta di ampi settori del mondo del lavoro e del proletariato che in questa fase difficilmente troverebbero (così stanno le cose allo stato) altri canali e istanze pronti a raccoglierne la potenziale volontà di mobilitazione.

Ben vengano lo sciopero dei sindacati di base del 18 ottobre e la manifestazione “dei movimenti” del giorno successivo. Noi vi partecipiamo dando il nostro contributo affinchè questi passaggi non siano vissuti nell’autoreferenzialità dei “sindacati conflittuali” e dei “movimenti antagonisti”, sì invece proiettati e valorizzzati per lanciare un segnale e una chiamata alla lotta rivolti alla più ampia massa di lavoratori e proletari che tuttora si astengono dal prendere in carico la mobilitazione. Con la consapevolezza che se a ciò contribuisono certamente i bagni freddi propinati da pseudo –“sinistre”–centro e sindacati istituzionali, al tempo stesso la ritrovata unità tra Cgil-Cisl-Uil e la capitolazione della Fiom non sono mere manovre di vertice, perché interagiscono e fanno leva sulla difficoltà della nostra classe, falcidiata dai licenziamenti e oggi sfiduciata sulla possibilità di garantirsi con la lotta la soluzione dei problemi immediati. La linea Bonanni che ha trionfato nell’intero sindacato confederale non è senza agganci nel mondo del lavoro, dove da un lato lo sciopero diventa un sacrificio insopportabile se viene immancabilmente svalorizzato e buttato al vento dai quei vertici sindacali, e dall’altro si fa strada la rassegnazione a dover subire i sacrifici che sarebbero resi ineluttabili dalla crisi per potersi solo un domani risollevare.

Su questo attuale stato dell’arte giocano non solo e non tanto i rivoltanti manovrismi dei vertici sindacal-politici della “sinistra istituzionale”, ma anche e soprattutto, e questo ci riguarda direttamente, l’assenza di una prospettiva di classe come forza presente e agente nelle difficoltà e nelle lotte del proletariato.

Tutto questo serve a dire che il movimento di classe è uno solo e non esiste “movimento generale” che nasca dalla “sommatoria delle singole lotte” purché “nel rispetto e nel riconoscimento reciproci” (come si legge negli appelli di Rossa) senza darsi il compito di un intervento su coerenti basi di classe che sia rivolto all’insieme del proletariato. Sia chiaro, non sminuiamo minimamente l’importanza del 18-19 ottobre. Volendo indirizzarli nella giusta direzione diciamo che non sarebbe sufficiente chiamare a raccolta il “movimento” di tutti quelli che “hanno rotto con il PD”, perché occorre anche e soprattutto dare una prospettiva di classe e di lotta all’insieme del proletariato sia a quanti saranno in piazza il 18-19 ottobre e sia ai tanti che non ci saranno perché anestetizzati dalle peggiori sirene borghesi, del PD e anche di altri più a destra (e sempre più a destra). E’ questo il compito che devono prendere in carico i settori già disposti alla lotta.

La “rottura con il PD” è tale se avviene sul piano della prospettiva generale: o rivendicazione dell’integrale programma di classe o difesa del capitalismo nazionale

La “rottura con il PD” sarebbe un altro fuoco di paglia se si limitasse alla contingente mobilitazione “alternativa” di quanti avrebbero “già rotto” ma su basi programmatiche fragilissime essendo pronti, al primo rovescio di scenario, a ritrovarsi agganciati alla “catena di santAntonio”.

Oggi questo rischio a certuni appare lontano perché il PD è saldamente ancorato alle larghe intese, garantite dalla Cgil e dall’intero movimento confederale. Che PD (con “cinghia” Cgil e ruotino SEL) siano da quel dì irrecuperabili al programma di classe è fuor di dubbio, ma che questo significhi che essi mollino la presa sul mondo del lavoro, una presa funzionale ad annichilire il protagonismo di classe e a tal fine comprensiva dell’eventuale presa in carico della mobilitazione a fini conservativi del capitalismo e per la difesa di un qualche “bene supremo” cui i lavoratori sarebbero interessati (la democrazia minacciata da un centro-destra che si svincoli dalla larghe intese, il supremo interesse della nazione per la crescita e la stabilità politica contro quanti la minaccerebbero, etc. etc.), questo è per noi totalmente escluso.

Nelle “immense praterie” che si aprirebbero per la “sinistra” dovute alla “totale irrecuperabilità del PD a politiche ispirate al concetto di sinistra e all’improbabile recupero di SEL” (così Paolo Favilli sul Manifesto del 3/10/13, ma calcoli non dissimili si fanno dalle parti di Rossa) il grugno del programma di sottomissione al capitalismo portato tra i lavoratori da agenti PD-Cgil (ma anche da altri con peggiori vesti e programmi) si ripresenterà puntualmente. Le larghe intese non cancellano questo nodo, come molti sognano.

Se oggi Rossa suona la grancassa della “rottura con il PD” noi ricordiamo che nel 2011, quando lo scenario politico tirava alla resa dei conti finale tra berluscones e “difensori della democrazia e della costituzione”, tutti costoro erano già belli e aggregati alla catena di Sant’Antonio antiberlusconiana che andava da Napolitano fino ai più estremi “rivoluzionari”. Esageriamo? E allora si vada a rivedere l’appello “Dobbiamo Fermarli” dell’estate del 2011 dove si legge di “un movimento di lotta diffuso in crescita” comprensivo tra altro “della mobilitazione delle donne, di quella dei precari della conoscenza, dei movimenti civili e democratici contro la corruzione e il berlusconismo”, insomma “una vasta e convinta mobilitazione che ha cominciato a cambiare le cose e che ha raggiunto la maggioranza del Paese”, dove il riferimento andava al referendum sull’acqua ma anche ai risultati delle recenti amministrative e all’aspettativa – quand’anche non dichiarata – di una vicina sconfitta elettorale del centro-destra (poi sfumata insieme all’enfasi balorda di questo appello). In questo appello non solo è rivoltante la retorica del “movimentismo senza movimento reale” ma soprattutto è rivoltante la retorica di un movimento (in larga parte inesistente) concepito esattamente come catena di sant’Antonio che inizia dal PD e si beve tutti gli “alternativi” del piffero.

Che questa sostanza (di union sacrée contro la presunta minaccia reazionaria) non fosse solo scritta negli appelli, ma anche praticata nei fatti noi lo abbiamo visto nei patetici interventi del Partito Comunista dei Lavoratori (che ora prende le distanze da Rossa ma partecipava al No Debito) quando si rivolgeva alla piazza del 12 marzo 2011 (convocata dal PD contro Berlusconi a difesa della costituzione, sventolante di tricolori, cantante l’inno nazionale e plaudente al nome di un Napolitano che proprio in quei giorni benediceva l’inizio imminente dei bombardamenti sulla Libia) come si trattasse di una piazza Tahrir che stesse lì lì per defenestrare il Mubarak italico. Lo abbiamo anche ascoltato da Radio Città Aperta sia nell’enfasi sui “diritti dei cittadini” che “la costituzione” garantirebbe, e sia in concretissimi appelli lanciati da quei microfoni a raggiungere e dare man forte ai presidi della “base del PD” sotto Montecitorio contro gli ultimi “colpi di mano anti-democratici” di Berlusconi prima che fosse costretto a cedere il passo al governo tecnico. Appelli incontrollati e occasionali? Noi stiamo ai fatti e chiamiamo le cose con il loro nome: aggregati alla catena di Sant’Antonio del PD e “parte dellaillusoria! n.n. maggioranza del paese che aveva cominciato a cambiare le cose” (per ritrovarsi al giro successivo scaricati a terra con un pugno di mosche in mano).

Questo sul piano politico. Sul versante sindacale vige per certo “sindacalismo conflittuale” (in primis per la USB) la regola capovolta della assoluta separatezza degli scioperi. Vero è che il deficit di una vera prospettiva di classe, se non impedisce al “sindacato conflittuale” di raccogliere la disponibilità a scendere in piazza di molti lavoratori quando la Cgil dismette la mobilitazione a sostegno del PD che governa (del che alla USB abbiamo sempre dato merito), al tempo stesso non gli consente di caratterizzare la propria partecipazione a uno sciopero indetto anche dalla Cgil in chiave di efficace ed utile battaglia politica – quanto a contenuti, metodi di lotta e prospettiva generale – verso e nella massa dei lavoratori contro la fallimentare conduzione cigiellin-confederale. E’ a causa di questo deficit che la partecipazione del “sindacalismo conflittuale” si risolve, quando è data, in una deprimente gara di numeri e nel reale azzeramento della propria presenza a beneficio dell’unica regia in campo: laddove non pensiamo alle gazzarre sotto i palchi, ma alla capacità di un intervento e una battaglia seri e organizzati che sappiano portare tra i lavoratori la necessità di una ben diversa prospettiva della lotta facendo almeno vivere la discussione e il confronto nelle piazze dei lavoratori.

L’ “unificante retorica” della “difesa della costituzione”

Niente di tutto questo vediamo all’orizzonte, e la proposta di Rossa è foriera di esiti non dissimili anche nella fase dei governi tecnici e delle larghe intese.

Intanto anche Rossa fa propri il “costituzionalismo democratico” e la “difesa della costituzione”.

Per demarcarsi da FIOM-SEL aggiunge che la difesa della costituzione “non può più essere la retorica comune che unifica tutti” (cos’è, l’ammissione autocritica che in passato proprio di questo si è trattato? saremmo già un passo avanti! n.n.), ma deve “contrastare i veri promotori della controriforma” che sono “Napolitano, il governo delle larghe intese e il PD”.

Il capitalismo impone la stretta centralizzatrice della macchina statuale in funzione di una più efficace tutela dei propri interessi e della necesstià di scaricare ancor più direttamente sulle spalle dei lavoratori il peso della crisi. Questa stretta passa anche per le “riforme costituzionali”, non a caso accompagnate da un battage di propaganda che le presenta come necessarie “per il bene di tutti” e “risolutive di una situazione bloccata”. Alla stretta del capitale occorre rispondere opponendo gli interessi di classe di un proletariato che recuperi la via maestra del proprio indipendente protagonismo, non certo “il costituzionalismo democratico” auspicabilmente supportato dalla “maggioranza del paese” cioè dal vuoto di un movimento di lotta effettivo in cui nondimeno riconoscersi e nella cui “unificante retorica” annullarsi.

I promotori del 12 ottobre, nel fare la voce grossa sull’ “applicazione” della costituzione a oltre 60 anni dal mirabile parto, non si avvedono di dare essi stessi la prova provata che in tal modo si pesta l’acqua nel mortaio indicando una via che semplicemente non esiste. Invece di contrastare la realtà dell’applicazione costituzionalissima per 60 anni filati di sfruttamento e del dominio di classe, declamano le frasi “nobili” rimaste lettera morta per il medesimo arco temporale. Sessanta anni di “applicazione” non bastano a chiarire la realtà dei rapporti sociali, effettivi e “costituzionalizzati”. Così si decampa dalla lotta reale, si distolgono le aspettative e la potenziale disponibilità (di una parte e non certo dell’intera piazza del 12 ottobre) a una mobilitazione vera verso uno scenario di pressione sul centro-sinistra istituzionale e di sostanziale “battaglia opinionistica”... contro i mulini a vento.

Tutto ciò peraltro andrebbe bene a Rossa e sarebbe anch’essa della partita se solo sul banco degli imputati di “lesa costituzione” si mettessero i veri responsabili, cioè Napolitano e il PD. Le pseudo-demarcazioni di Rossa in realtà candidano ancora una volta i propri effettivi a confluire nella “retorica unificante” di cui sopra: per un tal esito basterebbe che Napolitano e PD negli sviluppi della partita trovassero comodo agitare essi per primi la “difesa della democrazia e della costituzione” contro quanti la minaccerebbero, mettendosi a capo della tavola che intanto i fessi di turno gli avrebbero nuovamente apparecchiato ritrovandosi cancellati in una frazione di secondo (chi fonda il proprio agire politico sulle sabbie mobili di questo genere di “raffinate strategie” – e di reale opportunismo ammantato di fraseologia antagonista – fa questa fine e non sarebbe la prima volta).

O si pensa che lo scenario dell’ union sacrée per la salvezza della nazione (ieri contro Berlusconi, domani anche a ingredienti variati) non sia rieditabile e che d’ora in avanti “Napolitano e PD” indosseranno per sempre e di buon grado i panni di chi “smantella costituzione e democrazia”? Non ci si è accorti che è bastata la dichiarata volontà di Berlusconi di far cadere il governo delle larghe intese (ed è tutto dire!) per rilanciare ancor più forte il clima di chiamata generale a salvare l’Italia e la democrazia contro il demone di Arcore?

Rossa ritiene ormai lontani questi scenari non solo perché PD e PDL vanno a braccetto, ma anche perché a minacciare la “democrazia italiana” è il “commissariamento del supergoverno della Troika” che ha imposto la costituzionalizzazione del pareggio del bilancio e che “occupa l’Europa come nel 1848 la occupavano i tiranni assoluti e nel 1945 il fascismo”. Per questo è necessario, e siamo al cuore della proposta di Rossa, “rompere con l’Unione Europea”.

L’ “alternativa” al “capitalismo criminale” sarebbe l’ “uscita dell’Italia dall’Euro”?

Ora è ben chiaro che il proletariato europeo è chiamato a contrastare con la lotta le politiche antiproletarie varate dalla santa alleanza delle borghesie europee e dai governi unificati negli organismi sovranazionali da dove coordinano un’offensiva antioperaia centralizzata. Diamo atto che la proposta di Rossa recepisce questo dato e aspira a definire un indirizzo di lotta per i lavoratori attaccati dal capitalismo europeo. Si tratta di capire se Rossa delinea l’indirizzo giusto e noi su questo abbiamo sempre espresso i nostri dubbi.

Leggiamo che “il popolo non è più sovrano, è solo debitore”, sicché “occorre che i popoli conquistino la sovranità sulla moneta e sulla spesa pubblica”. Rossa avanza la “richiesta di referendum, da abbinarsi alle elezioni europee, su fiscal compact e trattati”. Altrove si legge del “rifiuto del vincolo del debito” per “trattati che vanno cancellati” in quanto “non c’è nulla da rinegoziare” (o si “rifiuta e cancella” ciò che “non è da rinegoziare” o si mettono ai voti i trattati per mere consultazioni di indirizzo: non ci pare che nei due casi si dica esattamente la stessa cosa). Si dice che “occorre conquistare la sovranità sulla moneta e sulla spesa pubblica”, ma sulla questione della “moneta unica” i nodi non sono sciolti essendo Rossa “impegnata ad assumere una posizione formale dopo consultazione e confronto” in una prossima “assemblea costituente”.

Le prime battute di questo dibattito (se l’euro vada superato in direzione di un euro B dei paesi PIIGS oppure se “all’inizio dobbiamo pensare a noi stessi” reintroducendo la lira) ci convincono di come, pur a fronte di problemi e necessità reali, la proposta di Rossa si avvii verso una china che sarà di scarso aiuto e di reale disorganizzazione delle forze disposte a mobilitarsi contro l’offensiva del capitale.

Vogliamo ancora ammettere che la battaglia contro le politiche di austerità non può limitarsi a un elenco di richieste immediate perché invece deve essere sorretta da una visione politica di portata generale. Il senso di questa verità viene però capovolto in Rossa laddove la visione politica e la prospettiva del proletariato semplicemente non esistono. Esiste soltanto la possibilità per i lavoratori di pensare quale sarebbe la soluzione più congeniale non per la propria classe ma per “la propria nazione”. La divaricazione dei campi cui allude la proposta di Rossa non è quella tra proletariato e borghesia (non lo é alla scala domestica e men che meno a quella europea e internazionale), bensì tra settori di punta della borghesia nostrana interessati e legati ai destini dell’Europa e all’euro e tutto il resto della popolazione, comprese congrue frazioni borghesi alla testa, che sarebbe invece interessata a perseguir meglio gli interessi nazionali collocandosi fuori dall’Europa e dall’euro.

“Il popolo non è più sovrano”. Quindi prima dell’euro “il popolo” sarebbe stato sovrano? E che ci ha fatto “il popolo” con la “sovranità della moneta”? Ricordiamo a Rossa che prima dell’euro né “il popolo” né il proletariato (per quel che ci riguarda) erano “sovrani” di niente. La “sovranità della moneta” consentì bensì nel 1992 al governo Amato (non al “popolo”) di fronteggiare le tensioni sulla lira ricorrendo infine alla svalutazione, ma con quali risultati? “Sovranità monetaria” e svalutazione furono premessa e strumento di stangate anti-proletarie non dissimili da quelle che oggi ci arrivano (e ci arriveranno moltiplicate) dai trattati europei.

Abbiamo già chiarito, per chi fosse aduso a fraintendere, che dell’Europa e dell’euro non ci interessa un fico secco e il nostro ragionamento non è se l’euro B o la Lira, a seconda dei gusti, siano “meglio” dell’euro. Meglio per chi? Lo sarebbero per un coagulo di forze a salda guida borghese se il proletariato sin dall’inizio è chiamato ad annullare i propri contenuti classisti per mettere al centro la questione della moneta migliore. Noi non abbiamo preferenze a questa stregua, perché in tutti i casi previsti non cambierebbe la sostanza della sottomissione dei lavoratori all’interesse nazionale declinato in uno od altro modo. La nostra preferenza va alla capacità del proletariato di difendere i propri interessi di classe contro un capitalismo che denomini la moneta nell’una o nell’altra maniera. Il punto non è euro o euro B, il punto è se contro il capitalismo dell’euro o dell’euro B il proletariato sappia alzarsi in piedi e difendere i propri distinti interessi di classe, inscrivendo la propria lotta non nel disegno di un diverso e più competitivo assetto del capitalismo nazionale e nella sua revanche contro quanti lo soffocherebbero, ma rivendicando apertamente la prospettiva di una futura società internazionale e il socialismo, che non saranno dietro l’angolo come invece potrebbe esserlo l’euro B e la rottura dell’Europa, ma che nondimeno costituiscono una prospettiva politica da opporre allo squallido presente. L’euro dei PIIGS è solo una possibile variante di questo marcio sistema, possibilità ben presente ai pensieri di moltissimi suoi autorevoli e ferocemente anti-proletari rappresentanti.

La nostra prospettiva dell’internazionalismo di classe

Per dare una facciata di sinistra al programma di separazione politica e monetaria dei PIIGS dall’euro si evoca l’alleanza degli Stati latinoamericani. Si dimentica però che l’Italia non è l’Ecuador o il Venezuela (né la Grecia e né l’Irlanda, dove peraltro il referendum è stato vinto dai favorevoli all’euro, e dai nostrani referendari anti-europei si sentì dire: “almeno loro hanno potuto decidere” –!?–). Ciò comporta che in Italia, come in altri paesi PIIGS, è francamente difficile pensare a un movimento che possa stare in campo in nome dell’euro B (o della lira) e che al tempo stesso possa anche solo pallidamente essere o apparire “di sinistra”.

Si sente dire che non si deve lasciare questa battaglia alla destra. Vecchia e rancida storia. Nel 1936 il partito comunista in avanzato stato di cancrena rivolse un vergognoso appello ai “fratelli in camicia nera” presentandosi ad essi come il sincero portabandiera del programma fascista delle origini invece tradito dai gerarchi (e ci è toccato per una vita intera sorbirci da costoro una indigesta “unificante retorica” antifascista!). Noi diciamo che di “tatticismi” (e di reale opportunismo) si muore. Se veramente si vuol togliere il terreno sotto i piedi alla destra (e alla sinistra) borghese occorre mettere in campo il protagonismo di classe e non già castrarlo inseguendo l’aborto dei programmi della destra ma “sul versante di classe” (che diavolo mai potrà significare, se non che ci si dispone a fare i lacché della borghesia al soldo di questa e contro quell’altra opzione borghese?). Ciò significa che il nostro compito, oggi che c’è l’euro, è quello di contrastare con la lotta la mannaia delle politiche di rigore che si abbatte sul proletariato. Significa anche che nel caso si desse l’invocata “uscita dall’euro” la trincea dei proletari non cambierebbe, perché si tratterebbe anche in quel caso di contrastare la medesima mannaia denominata in altra moneta, e non già di abbandonare la trincea di classe in nome di una “rottura” che non avverrebbe certo, men che meno alle condizioni oggi date, in direzione del programma storico del proletariato (come invece Rossa darebbe a bere).

Nel documento di Rossa si sentenzia che il movimento di Seattle è stato bruciato dalla decisione di Rifondazione Comunista di entrare nel governo Prodi. Di molto altro si è trattato e ne abbiamo scritto sul nostro sito, ma Rossa, che scarica sempre elegantemente sugli altri tutte le colpe date, perché non registra – visto che ricorda il movimento di Seattle-Genova – che un movimento di lotta che sia reale espressione delle aspettative di emancipazione delle classi sfruttate non si annuncia sulla rivendicazione di una moneta, né sulla “retorica unificante” del costituzionalismo democratico, sì invece sull’istanza di “un altro mondo possibile” (con tutti i limiti del caso ma nella direzione sufficientemente chiara di voler mettere sotto accusa il capitalismo)? Il movimento di Genova-Seattle, con tutti i suoi enormi limiti, ha portato nelle piazze come sia la denuncia dei disastri del capitalismo, cioè aspettative diffuse e sia pur confusi ideali di una società umana migliore, non certo il calcolo ragionieristico di dove e come meglio potrebbe piazzarsi la nazione Italia per non farsi travolgere dal marasma della crisi mondiale, così assecondando la disperazione della piccola borghesia illusoriamente desiderosa di tirarsene fuori (disattrezzando realmente il proletariato a difendersene).

Non a caso le aspettative che hanno animato le piazze erano le stesse da Seattle a Genova. La “rottura dell’Europa” di Rossa è invece un programma talmente nazionale che, mentre volta dichiaratamente le spalle ai proletari del Nord Europa, non sostanzia in niente neanche il suo presunto “internazionalismo” costruito attorno all’ “alleanza dei paesi PIIGS” (per un “internazionalismo” ridotto ad alleanza tra Stati, cioè a burla).

Siamo ben consapevoli di quanto sia dura e difficile la ripresa della lotta e siamo consapevoli di quale sia oggi la distanza tra i lavoratori dei diversi paesi, europei e figuriamoci poi alla scala del mondo intero. Non per questo abbandoniamo la prospettiva della lotta di classe e della necessaria unificazione del proletariato internazionale. Ogni iniziativa di lotta a questo deve tendere, a rivolgersi e a creare collegamento e in prospettiva unificazione di forze non tra Stati PIIGS ma tra proletari di tutti i paesi europei (Nord e PIIGS, tra proletari italiani e britannici, greci e tedeschi, spagnoli e scandinavi) e del mondo intero. Di questo non c’è traccia negli appelli di Rossa, questa invece è la prospettiva che noi siamo impegnati a portare nelle lotte del proletariato.


In conclusione il “pluralismo di radici” cui allude Rossa e la sua “retorica unificante sulla difesa della costituzione” non garantiscono alcuna vera rottura programmatica con la catena di Sant’Antonio del capitalismo. Lo conferma una “proposta politica” che cancella ogni riferimento alle classi e innanzitutto al proletariato in quanto classe internazionale, per avanzare un programma il cui soggetto di riferimento è la nazione italiana e il contenuto la politica presuntamente più saggia (e illusoria) per trarsi fuori come capitalismo nazionale dagli impacci della crisi.

14 ottobre 2013