Ci arriva sottomano un documento della “Rete dei Comunisti” relativo all’analisi del tracollo elettorale –ma ben più che unicamente tale!- della “sinistra radicale” e alle contromisure da prendere perché esso non coinvolga un determinato “ceto politico” fallimentare (come qui si dice), ma tutto un più esteso corpus militante da preservare e far marciare oltre –operazione del tutto legittima e rispettabile, nella quale ci pensiamo coinvolti–.
Dobbiamo premettere che, data l’attuale frammentazione e mancanza di comunicazione tra forze che o sono o si dicono comuniste, la nostra conoscenza della Rete è limitata a sani rapporti in loco a Roma e, sin qui, prevalentemente sulla base di incontri “sul da farsi” a certe scadenze ed alla lettura del giornale d’organizzazione, Contropiano, il cui carattere prevalente, però, è di natura agitatoria-“interventista”, mentre solo ora comincia da parte nostra un esame dettagliato dei “testi di orientamento” della Rete stessa. Ragion per cui le nostre osservazioni vanno prese con un certo beneficio d’inventario, dovendo esse, per forza di cose, basarsi su elementi di valutazione parziali. Da qualche parte abbiamo letto che essa ha perlomeno trent’anni di esperienza militante alle spalle, e ci crediamo fermissimamente. E’, purtroppo, incredibile che un tale curriculum non si sia sin qui incrociato, in qualche maniera, col nostro, il che sta a riprova della frammentazione e della debolezza della “riserva indiana” comunista (virgolettata o meno). E del nostro potremmo addirittura vantare un’ascendenza più “veterana”, nella quale i decenni neppure si contano, ma sempre con lo stesso effetto di “incomunicabilità”. Non lo diciamo per vantare primati temporali, perché qualcuno potrebbe anche concludere: ebbene, se in tutto questo torno di tempo non avete concluso nessuna rivoluzione, peggio ancora per voi! L’“investimento” militante, in realtà, non si misura in base ai cartellini timbrati, e su questo siamo perfino d’accordo.
Detto questo, vediamo di entrare nel merito del documento proposto(ci) dalla Rete.
A noi suona già male il titolo: “Per una proposta politica ai comunisti e alla sinistra anticapitalista”. Una proposta comunista si presume che prima e come condizione della “politica” (del “che fare”) si denoti come indirizzo di fini e principi, che qui assolutamente non troviamo. In secondo luogo, ci fa specie che ci si indirizzi a due distinti soggetti: i comunisti e la “sinistra anticapitalista”. Credevamo, sin qui, che l’unica opzione anticapitalista sia quella dei comunisti. Che tanti altri siano suscettibili di esservi portati dentro sulla base di un’opposizione agli effetti del “capitalismo reale” è certo, ma a condizione di arrivare al dunque, che è comunista o non è. “Compagni di strada”? Sia pure, ma gradiremmo sapere di chi si parla e dove e come li si voglia portare. Nel documento di tutto ciò non v’è traccia. Ovvero: ci dicono (siamo sempre pronti alla rettifica qualora ciò non corrispondesse al vero) che, in altri tempi, la Rete ha promosso “unioni popolari” sulla base della non-identificabilità comunismo/“alternativa al capitalismo” (il che già spiegherebbe il titolo del documento) e, conseguentemente, la “parzialità” del richiamo al partito comunista, elemento tra molteplici “altri” dell’“anticapitalismo” (come qui appare evidente). Anzi, come vedremo poi, il doppio binario è nel documento esplicitamente teorizzato, e non sempre ai “comunisti” è concesso quel TGV che si preferisce affidare ad altri “inediti protagonisti” sbucati dal “sociale”.
E, da subito, non ci piace la descrizione dei due blocchi egemoni della politica italiana, PD e PDL. Il primo dedito alla “governance dei conflitti sociali presso i gruppi capitalisti”, il secondo alla “reazione” aperta. In pratica: un gruppo opportunista, l’altro apertamente ed esclusivamente capitalista. Sinistra e destra (del capitale?, non si capisce bene). Il campo “realmente” anticapitalista, si scrive di seguito, è purtroppo in arretramento complessivamente in Europa (curiosa autodelimitazione “eurocentrica”, come piace dire ai fessi), salvo... Zapatero, la Linke tedesca, Grecia e Portogallo. La tedesca Linke, ad esempio, si è proposta in termini molto deutsch!, per non parlare del guzzantiano Zapatero, di cui persino il Manifesto ha potuto tracciare un ritratto esatto prendendo in considerazione la sua politica anti-immigrati, rispetto alla quale Berlusconi fa la figura di un gran signore “accogliente”).
La condanna del PRC e del PdCI suona qui molto seducente all’apparenza. Ma andiamoci piano. Al PRC si imputa che, di fronte allo “scioglimento del PCI” (che nel documento appare come l’amante perduta, non si sa come, non si sa perché), esso “ha progressivamente trasformato il proprio ruolo da una possibilità di tenuta di una presenza/identità comunista e di sinistra (!!!, ci risiamo col dualismo “anticapitalista”, n.) ad un processo di liquidazione della stessa”. Si sono, nel percorso, abbassate o tolte le bandierine? Ma dove stava, sin dalla formazione del PRC, la “presenza comunista”? Nelle chiacchiere “identitarie” (per di più secondo identità irrevocabilmente disgiunte dal contenuto del comunismo marxista) e secondo una linea di costante e progressivo adattamento alle politiche capitaliste “di sinistra” sottoscritte e ministerialmente fatte proprie. Addirittura, nel commentare negativamente la rottura del PdCI nel ’98, gli si dà atto di un’opposizione all’“eclettismo” (??!!) del PRC, ma in chiave “pragmatista”, tipo vecchio PCI. Da studiosi della lingua italiana vorremmo sapere cosa significhino questi due termini, eclettismo e pragmatismo. Per noi, ignari, ciò vuol dire: disponibilità da ambo i lati ad una politica “riformista” (si fa per dire...), in versione “dura” in quanto ipoteca sulle politiche di alleanze col capitale “progressista” (“ci dovete dare qualcosa” entro il sistema e perché “il sistema funzioni”), e “molle” in quanto si accetta il “meno peggio” come equivalente del progressismo (capitalista) per scongiurare Berlusconi. Curiosamente: tutti appassionatamente assieme poi pro-Prodi. Un buon PRC “delle origini”, prebertinottiano? Questa singolare interpretazione (non sappiamo se, in passato, connessa ad amorosi incontri Rete/PRC “vergine”) si ricollega ad una interpretazione particolare della stessa storia del vecchio PCI, sul quale abbiamo letto qualcosa della Rete quanto all’esaltazione del gramscismo “sviluppato” successivamente da... Togliatti. Un’eredità “comunista”, secondo i nostri, poi andata a pallino. Non si capisce come e perché. Sembrerebbe di trovarci di fronte al complesso degli “orfani”: il vecchio, glorioso PCI “ammazzato” (o suicidatosi?).
Testuale: “Dal 1995 (Bertinotti assunto –come? perché?– quale “manager”... antitogliattiano, n.n.) il PRC, a fronte dello scioglimento del PCI (quali i manager dell’operazione e come mai?, n.n.?), ha progressivamente trasformato il proprio ruolo da una possibilità di tenuta di una presenza/identità politica comunista e di sinistra (binomio caratteristico dei nostri, n.) ad un processo di liquidazione della stessa”. Non neghiamo, naturalmente, che quel tanto (o poco) che c’era di corpo militante a vaghe ispirazioni “comuniste” (ossia di riformismo duro e pagante, secondo la logica picista) agli esordi del PRC si è andato via via dissolvendo. Ma l’esito finale di una data malattia dipende (per il PCI prima ed assai più corposamente che il PRC) dal suo insorgere, dal suo decorso e dalle cure tossiche imposte, e non dal caso, da mancate “preveggenze” per evitare l’ostacolo o da considerazioni formali e derivate quale l’insorgere del “burocratismo”, del “funzionariato” o delle passerelle da show televisivo di qualche “manager” capitato lì per sbaglio. Vale anche per circostanze future: il doveroso tentativo di strappare dei militanti sinceri ai baracconi “ultrasinistri” od anche semplicemente riformisti –ma costretti a far di conto con lo sfracello delle attese in ciò riposte– può conseguire dei risultati positivi (e per lunga pezza non sarà facile, dato il peso controrivoluzionario del passato!) solo a patto che la critica comunista di questi Barnum sia integrale e spietata. Il che non esclude affatto il fronteunitarismo alla Lenin.
Un elemento di indubbio interesse, che ci riserviamo di approfondire eventualmente in seguito, dopo attenta compulsazione di materiali analitici e prospettici che sappiamo prodotti dalla Rete, ma di cui al presente poco abbiamo, è quello relativo alle trasformazioni del capitale attuatesi in profondità in questi ultimi decenni ed alla “discontinuità (che ne consegue) con il periodo precedente non solo sul piano della condizione materiale e lavorativa, ma anche sul piano della identità, della coscienza riflessa del proprio ruolo sociale e dunque della ideologia”. Siamo d’accordo sul fatto che non si possa sorvolare su questo cambiamento di aspetto materiale del capitalismo quasi che nulla fosse successo (di qui il genericismo di certi richiami ad un capitalismo ed un proletariato sempre eguali a sé stessi in certi gruppi). Ma ciò non può in alcun caso nascondere o negare il fatto che il capitalismo rimane uno, dalle origini alla sua consumazione rivoluzionaria, e così il proletariato. Entrambi procedono in avanti da quel dì e concordiamo coi compagni nel dire che oggi, sempre di conseguenza, il proletariato costituisce una riserva più ampia e potenzialmente antagonista. Potenzialmente e non di fatto? Ciò non deriva principalmente dalle “rivoluzioni strutturali” capitaliste che lo “destrutturano”, ma dall’azione controrivoluzionaria delle forze “riformiste” astrette per loro natura a... ristrutturarsi a seconda dei “nuovi” interessi, più concentrati e centralizzati, del capitale. Quando qui si dice: “Sarebbe però un errore colossale omettere che per un lungo periodo tale cultura riformista è stata in sintonia con la composizione di classe assunta dalla società e con le sue ricadute immediate sul piano dell’espressione politica ed elettorale” si omette proprio di considerare questo aspetto, tra l’altro confondendo composizione di classe (e sue espressioni riformiste) e programma comunista. Da qui, a quanto pare, il “rispetto” per la politica non solo del PCI di Togliatti, ma del PCUS e del “mondo socialista” espressasi sino agli anni ’70 “in conformità alla composizione di classe” con i noti straordinari risultati (poi “sperperati e traditi”). Da dove il male successivo? Leggiamo: “Il modo di fare politica (?), la forma (?) dell’organizzazione politica, i meccanismi stessi di esistenza dei partiti (?) sono rimasti immutati rispetto al modello di partito comunista di massa praticato nella seconda metà del ’900”. E pertanto va rimessa “in discussione l’essenza stessa del partito (!) di massa, non per quello che è stato utilmente nel secolo passato, ma per come è inutilizzabile in questo momento storico”. Abbiamo il sospetto che si voglia buttar via il bambino e tenersi l’acqua sporca.
Ricetta: “Costruire un polo di tenuta e resistenza politica, sociale e morale in questa nuova fase, un punto di resistenza che consenta alle soggettività oggi sotto pressione o demoralizzate di riprendere coraggio”. E’, giustamente, il minimo cui dobbiamo concretamente attenerci, salvo che questo minimo ha correlativamente bisogno di un massimo di espressione da/di partito, “oltre” il ’900 della Terza Internazionale, se vogliamo, ma non per ritirate caporettesche da esso.
E, invece, leggiamo: oggi “il conflitto di classe materiale è politicamente più avanzato del conflitto direttamente politico, che peraltro oggi è praticamente inesistente”. Cosa diavolo si vuol dire? Lo scontro di classe scorporato o contrapposto al suo aspetto direttamente politico? Lo scontro materiale che “supera”, o si postula da sé, quello politico, che esso stesso pone come imperativo e risolutore? Corpo contro anima, materia contro “idea”? Aveva allora ragione Bebel di scrivere in una sua lettera: sì, Marx ed Engels sono dei grandi teorici, ma sul piano pratico non hanno mai combinato nulla di serio e se oggi abbiamo in Germania un forte partito è perché l’ha messo in piedi Lassalle e perché esso si è mosso e si muove su basi “materiali”, conforme alla “composizione di classe”. Anche per Bernstein il “movimento reale” era più avanti dell’“ideologia” marxista (e, si badi bene, all’epoca, nel tentativo di esaltare il “concreto” con tutti i suoi tangibili risultati materiali conseguiti; poi... Il rifiuto dell’“ideologia” marxista dà, per definizione, un’altra ideologia –questa sì senza virgolette–: quella del capitale). Compagni!, se volete dire che il conflitto politico oggi è “praticamente inesistente” nel senso che esso non si esprime immediatamente in presenze risolutive dell’antagonismo di classe dite una cosa esatta. Ma, in tutta immodestia, noi diciamo però che il lavoro dei (pochi) comunisti presenti sulla scena è per sua natura un fattore, il primo fattore, concreto, materiale della ripresa e sta (o dovrebe stare) davanti e non dietro le “lotte”, anche le più significative, deprivate dell’anima comunista.
Siamo alla ennesima riscoperta dell’“autonomia delle lotte nel territorio” (in testa TAV, Vicenza, Napoli etc.), talmente autonome da produrre “elementi di totale impossibilità di direzione ed organizzazione politica (vedi le banlieues napoletane sui rifiuti)”. Giusto che questa “dimensione” sia ineludibile per i “primi passi” su cui fondare una (pregressa) prospettiva comunista. Ma qui, da quanto almeno ci riesce di capire, l’“inizio” si riduce ad una alterità e financo contrapposizione movimenti territoriali/partito. Mettiamo le cose in ordine: 1) l’antagonismo sociale, in quanto dato insopprimibile, riparte da contenziosi, all’immediato, locali, territoriali e comunque parziali (e non si esce, sin qui, dal riformismo); 2) crescentemente, però, le lotte che ne derivano non possono essere contenute entro questo ambito e richiedono un indirizzo politico (che è qualcosa di più che il semplice “allacciamento di contatti” tra entità per definizione “autonome”); 3) l’“autonomia sociale” o si incontra alla lunga con questo indirizzo (oggi ultraminoritario e debole “concettualmente”), magari sprigionandone da sé le scintille, o è costretto a cedere duplicemente le armi, sgonfiandosi di numero e buone intenzioni: vedi il movimento no-global, no-war (salvo dover ripresentarsi con una maggior esigenza di partito). E’ tipica dei bertinottiani e dei post-bertinottiani la concezione dell’“autonomia (e Sovranità) dei movimenti” collegata al picconamento della “vecchia forma-partito” e del suo corollario di “espropriazione antidemocratica” dei “diritti dei singoli” e...della (perfettibile) società borghese. (Si veda il nostro commento al congresso PRC). Quelli del Manifesto, cui è d’obbligo declinare dieci volte al giorno le litanie antipartito a favore di un inedito nuovo alternativo senza cordoni ombelicali col passato, si inventano quotidianamente di “nuovi soggetti”, sino a comprendere i rave party e le tifoserie da stadio armate come “forme di nuova aggregazione sociale” perfettamente “autonome” dai vecchi schemi “politicisti” (forse un po’ meno dal mercato della droga e delle camorre, ma tant’è...)
Sulla questione sindacale abbiamo detto che ne riparleremo altrove. E’ un punto su cui la Rete suggerisce anche delle cose interessanti, ma ancora una volta nell’ottica suicida di “un nuovo tipo di sindacalismo” che surroghi e soppianti, se del caso, l’“istituzione” partito. Stessa logica di cui sopra.
Si arriva all’internazionalismo. E, ad onta di tutto l’impegno internazionalista che va riconosciuto alla Rete, non ci si discosta dallo schema: “E’ un aspetto decisivo –si legge– per la formazione di una nuova generazione politica liberata dalla mefitica cultura eurocentrista della sinistra europea e consente di far crescere una cultura politica antimperialista aggiornata al nuovo scenario mondiale”. Cioè: ancora una volta l’“autonomia” per frazioni di movimento che, al massimo, possono “toccarsi” per addizione. La bubbola dell’“eurocentrismo” giova ottimamente alla bisogna. Noi restiamo al Lenin che definisce il PCb e la rivoluzione russa come cellule del partito e del movimento rivoluzionario mondiale sulla base della dottrina “eurocentrica” (per qualche fesso!) del marxismo. Una solidarietà coi movimenti “degli altri” da appoggiare, ma su cui non “interferire” non è solidarietà, ma una (involontaria, se volete) pugnalata alla schiena.
Stesse cose quanto alla questione ambientale, con l’aggiunta di echi della teoria dello “sviluppo sostenibile” e della “decrescita” oggi in voga come “imperativo universale per l’Umanità” (capitalisti compresi?, e se no che si fa?, si fa l’alter-ecologismo post-capitalista rimanendo in piedi il capitalismo? La nostra visione dell’ambiente è un tassello della generale lotta anticapitalista cui far pervenire le spinte ambientaliste radicali o fa parte degli interessi e ideologie “generali”, “di tutti” per definizione?)
Ultimo campo di battaglia (e qui siamo al top!): la “creazione di una rete di resistenza alle ingerenze oscurantiste del Vaticano” che entra “direttamente nel campo della civilizzazione di una società moderna anche nelle condizioni del capitalismo” sì che i comunisti possano essere “un elemento dinamico e avanzato (!?) di ogni movimento di lotta contro la restaurazione clericale e reazionaria sullo stato (!!!) e sulla vita sociale” attraverso “alleanze vaste e trasversali”. C’è da non credere ai propri occhi. Nell’Ottocento abbiamo dovuto combattere la menzogna dell’“universalismo laico” della borghesia –a quel tempo ancora rivoluzionaria– con cui si invitava il proletariato alla “lotta anticlericale” nel bene di “tutti”. Oggi che la società borghese (putrescente) si è definitivamente liberata dalle vestigie del temporalismo vaticano ed opera completamente di suo (magari riscoprendo il “sacro” per le proprie reazionarie convenienze quando occorre e la “sovranità dello Stato laico” contro l’invasione politica ecclesiastica quando questa accenni a deplorare –per quanto platonicamente– il capitalismo “laico” e... laido), ci si vorrebbe far tornare agli inviti ai fronti anti-oscurantisti da massonico XX Settembre! E, addirittura, per salvare...lo Stato!
Una cosa simile l’abbiamo già vista in opera nel ’49 da parte del PCI togliattiano in occasione della (sgradita) scomunica doverosamente comminata dalla Chiesa. Ripetiamo le parole di allora di Bordiga (Anticlericalismo e socialismo, in Battaglia Comunista, n° 35, 14-21/9/’49) :
«Il segnale del nuovo schieramento è stato dato dalla scomunica vaticana, provocata dal fatto che i locali staliniani hanno cominciato a dar troppo fastidio non alle nuove gerarchie (vaticane), ma ai circoli dirigenti del capitalismo internazionale. E siccome ormai mezzo unico di lotta politica (..) è l’appello ad una mobilitazione di collegati, subito è stata lanciata la campagna per la unione di tutti gli “spiriti laici”, gelosi della sacra conquista della “libertà di pensiero” e delle nobilissime tradizioni anticlericali italiane. Non sappiamo più dove questi alleati, ausiliari e collegati si potranno ritrovare, affittato com’è tutto l’ambiente borghese e piccolo-borghese di taglia massonica al capitale e allo stato maggiore occidentale. Ma la sgonfiata laicista era di rigore e si tenta lo stesso. (..) La via del rinculo è una via senza fine. Siamo partiti da un vago riformismo della società borghese, siamo arrivati ad una difesa della rivoluzione borghese e addirittura alla rifabbricazione di essa (..) Oggi apologizziamo il riformismo della società feudale».
Chiudiamo, a questo punto con una doverosa “apertura” alla parte finale del documento della Rete: tutti coloro che, oggi, intendono riferirsi al comunismo hanno bisogno di leggersi reciprocamente, di sentirsi, di confrontarsi pubblicamente e in modo organizzato, di prendere (quando possibile) impegni comuni e, su questa via, di ricostruire un “filo”, una “rete”. I nostri appunti di cui sopra vanno, secondo noi, precisamente in questa direzione, contro l’“incomunicabilità” pregiudiziale, ma anche contro l’intergruppismo a costi zero quanto a sforzi di chiarezza teorica e politica.
Ci aspettiamo, pertanto,
risposte su questa stessa lunghezza d’onda.
1 ottobre 2008
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Per la lettura dei documenti della Rete cui ci si riferisce, vedi:
www.contropiano.org