nucleo comunista internazionalista
confronto politico





DISCUTENDO TRA COMPAGNI

ANTIPER: UN DOCUMENTO INTERESSANTE PER L’ANTI E IL PER

All’indirizzo e-mail di un nostro compagno è pervenuto un documento (Il ciclo sgonfiato) di una organizzazione sin qui a noi sconosciuta, Antiper, relativo all’esame delle recenti vicende elettorali vincolato ad una più vasta interpretazione del “ciclo” attuale e, successivamente, l’invito a far presenti ai destinatari le proprie considerazioni per una seconda versione, allargata ed aggiornata, come si dice in campo editoriale, a più largo respiro. Per comodità dei nostri lettori, li rinviamo al sito di partenza perché essi possano prender visione diretta del materiale in questione: www.antiper.org.

Nulla sappiamo sin qui di questo gruppo. Possiamo solo “sospettare” trattarsi di un non molto numeroso insieme di “teste pensanti” (detto come complimento rispetto a troppe teste s-pensanti in circolazione nel milieu “comunista”), certamente attento alle lotte “concrete” della classe, ma non vincolato alla retorica opportunista della full immersion nel “movimento”  per “esserci” e “contare” sul piano di una miserabile “presenza”  immediatista. Studieremo in seguito tutta la produzione di esso (sulla quale probabilmente ci saranno da avanzare delle riserve, detto a naso), ma, intanto, ci preme qui sottolineare il grande valore di novità in positivo di un’analisi articolatissima delle ragioni di lungo corso della disfatta delle pretese “sinistre radicali”, non riducibili (come, purtroppo, nella più parte dei casi di “critica comunista” alla deriva) ad improvvise ed inspiegabili casualità dovute a presunte “deviazioni” dell’ultim’ora o a disdicevoli personalità (con cui ,magari, in passato si era ben trescato): “Questa crisi non è un ‘incidente di percorso’ perché le sue ragioni (..) non sono puramente congiunturali, ma vengono da lontano. In estrema sintesi possiamo dire che la crisi della sinistra arcobaleno è un episodio della più generale crisi di credibilità del riformismo che a sua volta è determinata dalla più generale crisi politica ed economica del capitalismo”. Ottimamente! (Salvo un punto centrale: noi non crediamo di essere alla crisi “finale” del capitalismo, semmai questa espressione avesse un senso meccanicistico; va meglio considerato questo tema: se ci troviamo, immediatamente e semplicemente, di fronte ad un generale redde rationem planetario, o se non ci troviamo di fronte ad una ridefinizione in fieri dei rapporti inter-capitalistici in cui in certe aree del mondo il capitalismo continua in maniera progressiva e progressista ad avanzare –Cina, India, Brasile, Russia stessa– con, tra l’altro, spazi di “riformismo” dall’alto e dal basso, pur sempre nell’ambito di un intreccio sempre più interdipendente tra i vari “settori” del capitale globale, “combinato e diseguale”, il che esclude senz’altro pacifiche soluzioni di ricambio al predominio USA; la prospettiva che si apre è guerra tra stati e/o guerra tra classi)

Questo documento sostanzialmente ci piace in forza di questa impostazione di fondo, espressa in termini chiarissimi alla lettura: 70 pagine!, che in nessun punto obbligano al fastidio di imbattersi nei linguaggi contorti e altisonanti, ma privi di ogni materiale significato, propri di certi ambienti che, con quattro parole altisonanti e vacue, mimano il Peppino di Totò, Peppino e la malafemmena che farfuglia cose incomprensibili e conclude “E ho detto tutto!”. Ed anche per la vena ironica e sarcastica con cui si vivisezionano posizioni che meritano sì di essere affrontate, ma come e per quel che si meritano, senza troppi complimenti dottoralmente distaccati. Una cosa è fare i conti con Hegel, una cosa coi fessi di quartiere.

Opportunamente il discorso sul quadro attuale della “sinistra arcobaleno” e delle sue piccole code “rivoluzionarie” parte dall’esame della politica del PCI togliattiano, padre “nobile” di tutti i piccoli aborti oggi sulla scena. Qui, sicuramente, ci sarebbe da fare un rilievo: varrebbe poco parlare delle “colpe” togliattiane qualora non le si riconnettesse all’intera vicenda del tracollo opportunista della Terza Internazionale, prima sul piano delle tattiche e delle strategie e poi degli stessi principi (fatti salvi i “fini ideali” come astratta petizione domenicale); in una parola entra in campo quel che, per comodità di cose, si chiama lo “stalinismo”. Né siamo d’accordo con la seguente proposizione: “Qualcuno potrebbe dire che già l’alleanza interclassista del CLN della Resistenza può essere considerato il prodromo di future alleanze: questa sarebbe la ragione per cu gli operai difendevano le fabbriche durante la ritirata dei tedeschi. Al contrario, la difesa delle fabbriche è l’espressione della convinzione che domani, dopo la vittoria, saranno i comunisti alla guida del paese e quindi avranno bisogno delle fabbriche per dirigerle e per distribuirne i frutti al popolo”. Che migliaia di proletari resistenzialisti abbiano avuto la “convinzione” di una uscita dalla guerra attraverso una soluzione “socialista” può essere senz’altro vero, ma lo è altrettanto che la politica ciellenista andava esattamente in senso contrario conformemente alla stessa definizione della Resistenza come rotella della “comune guerra antifascista” alla coda dell’imperialismo anglo-britannico cauzionata dallo stalinismo dopo il breve periodo di indipendenza e contrapposizione alla “guerra imperialista da entrambi i lati” della fase patto Hitler-Stalin. I confini reali della Resistenza erano stati strettamente segnati a Jalta e tradotti, in italiano, nell’abbraccio mortifero con le forze borghesi candidate al post-fascismo, molti fascisti pentiti compresi (battaglia “giusta”, oggi, anche per Fini, e non a caso). Le buone “aspirazioni” di tanti proletari, incapsulate entro questa cornice, a nulla potevano approdare né hanno quasi mai prodotto una capacità autonoma dal punto di vista di classe di contrapporsi decisamente, per forza propria, alla “linea generale” picista ed imperialista. Qui si mischiano “aspirazioni” (“ideali”) di tanti militanti incapaci tuttavia (per ben precise ragioni storiche) di una propria indipendenza antagonista di classe e le strutture politiche che questa incapacità hanno programmaticamente fissato per tradurla nella beffa della “democrazia progressiva” sottoscritta a milionate di adesioni “popolari”. Nessun “tradimento” della Resistenza: la classe operaia avrebbe potuto dire la sua non “portando più avanti” la Resistenza, ma uscendo dai suoi schemi e contrapponendosi ad essa, secondo la linea tracciata controcorrente da Trotzkij e dagli internazionalisti italiani (a parte tutte le riserve sulle relative “capacità” di darvi uno sbocco pratico tangibile, et pour cause!). Potremmo anche aggiungere che l’unico corposo tentativo di agire in questo senso, ma anche qui in maniera deviata, è stato quello dei tanti proletari dell’incandescente Est italiano aggregatisi alla lotta di liberazione (nazional-borghese radicale) del titoismo in armi e, poi, della “costruzione del socialismo in quel solo paese”, il che pareva uscire dagli schemi ingabbianti del resistenzialismo togliattiano. Anche qui, però, alla coda di forze non nostre ed a noi opposte, nell’accodamento ad uno “statalismo progressista”, in attesa che “addavenì Baffone” (o Tito), mentre la nostra posizione non ha mai addavenì.

Può trattarsi di una semplice svista correggibile, ma non secondaria. Comprendiamo il senso positivo dei compagni di rifiutare, in vista del partito a venire, la “tendenza ideologica a “spaccare il capello in 4” su Stalin, Bordiga e Trotzkij (etc. etc., n.) senza mai neppure tentare di ragionare in termini materialistici sulla storia del movimento comunista novecentesco”, se con questo si vuol dire che non si tratta di ragionare in termini astratti di “principi” iperuranici; ma “ragionare in termini materialistici” significa in primo luogo vedere proprio le fratture... materiali dentro quel movimento così come si sono dovute esprimere in determinate posizioni (“ideologiche”?) in campo tattico, strategico e, infine, di principi. Ciò va ben al di là delle vicende dei microgruppi derivati dall’antistalinismo ed involutisi (ideologicamente, questo sì) su se stessi: checché ne sia stato e ne sia di essi, la questione –poniamo– del “socialismo in un solo paese” resta tutt’altro che un’inezia tipo “spaccare il capello in 4”. Non vorremmo, ad esempio, trovarci di fronte a riedizioni “antifasciste” in chiave frontepopolaresche, come potrebbe adombrarsi attraverso formulazioni “gramsciane” (Antiper ne abbonda) “aggiornate” e s/corrette.

A scopo costruttivo, suggeriamo ai compagni, poi, di allargare il discorso, ben impostato, della non corrispondenza meccanica, “economicista”, tra crisi delle basi riformiste e immediata ripresa rivoluzionaria allargando l’indagine alle vie provvisorie di “ricollocazione” politica dei proletari attorno a forze variamente di destra (dalla Lega a –persino– Storace.). Perché questo avviene? Come uscirne? Elementi non secondari di lettura sono già individuati. Andiamo più a fondo. Ad esempio, prima con l’OCI poi nel nostro piccolo abbiamo concretamente affrontato il tema del rapporto nostro con quei settori della  nostra  classe posizionata attorno alla Lega. Sarebbe il caso di discuterne, perché non si tratta semplicemente di prender atto di una “deviazione di tiro”, ma di agire nei suoi confronti per riportarla a dirittura.

Detto questo, prendiamo atto di un’analisi puntigliosa e precisa del decorso non semplicemente “suicida”, ma “omicida” (per quel che ci riguarda) della “sinistra arcobaleno” e frattaglie marginali, che larghissimamente condividiamo (ed utilissime a tutti i compagni per la dovizia di dati “storici” cui far riferimento, contro la tendenza a tutto risolvere nell’impressionismo del momento). A conferma di ciò, alleghiamo qui di seguito, a titolo di esempio, il capitoletto del documento sull’“astinenza degli italiani”, uno dei più belli e brucianti di esso. L’“astensionismo elettorale” (provvisorio, sempre in attesa di migliori eventi) di certi gruppi delusi dalle forze “sinistra arcobaleno” non hanno maggior dignità dell’elettoralismo di queste ultime in quanto partono dalle stesse premesse di fondo, e talora anche più in arretrato. Ci vengono, ad esempio, in mente certi documenti di Aginform (altro sconosciuto, per noi) che, essendosi data in famiglia la consegna astensionista, presi in considerazione i dati... elettorali, canta vittoria: “Abbiamo vinto!”. E’ vero invece che il proletariato non si astiene mai, e men che mai quando pratica per sé e con le proprie forze l’“investimento politico sul non voto”. La critica, qui, ad una sorta di “anticapitalismo” ridotto all’“antiberlusconismo” ed all’“antiarcobalenismo” in quanto “incapace” di rispondere a... Berlusconi (l’ombelico e tutto il corpo del “capitalismo”!) ci pare estremamente efficace.

Infine: il capitolo sull’“organizzazione di transizione”. E’ suggestivo il richiamo alla “fase dei circoli” marxisti in Russia per delineare, senza identificazioni assurde tra due situazioni storicamente ben diverse, il quadro attuale delle sparpagliate, e tutte deboli, forze “comuniste” in campo oggi in Italia (e nel mondo, ci sembrerebbe), dai gruppi alle singole individualità pensanti ed agenti. Forse si potrebbe introdurre un parallelo con la “fase delle sette” premarxiste dell’Ottocento, fatte salve le differenze del caso, e non ci sbaglieremmo, visto il livello generale di “assimiliazione” del marxismo di fronte al quale, nei più dei casi, ci troviamo di fronte. Che questa fase vada superata e non lo possa essere lasciando semplicemente incancrenire l’isolamento e la ristrettezza, in tutti i sensi, dei “circoli” attuali è un dato di fatto. Perciò, e concordiamo pienamente, “se pensiamo che oggi non sia possibile la fondazione di un partito comunista, nondimeno pensiamo che sia non solo possibile, ma auspicabile –di più, indispensabile– l’avvio di un confronto aperto tra comunisti, organizzati e non”. Su questo punto vitale, Antiper affaccia la proposta di determinate misure attuative, a nostro avviso piuttosto generiche ed astratte, anche perché, si dice, “non intendiamo avanzare alcun appello” e “non ci mettiamo neppure a stilare liste di possibili interlocutori o di ‘punti irrinunciabili’ su cui un accordo politico-organizzativo potrebbe essere possibile dal nostro punto di vista”, ma un “dialogo indiretto”. Sarà pure il caso, ad un certo momento, di prendersi in carico un’operazione di setaccio di interlocutori cui fare “appello”, con cui trovarsi a confrontarsi in carne ed ossa! Senza di che a chi e come parlano le “proposte di transizione”? Parleremo sempre “indirettamente” a ectoplasmi fuori da ogni possibile lista epperò additando misure formali quanto al “confronto aperto”. Sarebbe una contraddizione in termini. Come “transizione alla transizione” ci sta bene, comunque, un lavoro come questo di Antiper su cui concretamente ragionare, e noi lo mettiamo nella nostra lista in quanto, almeno parzialmente, corrispondente ai nostri “punti irrinunciabili”. Capisca chi deve e può capire qual è il nostro metodo.   

29 settembre 2008



Riproduciamo il capitolo “Astinenza degli italiani”, tratto  dal documento “Il ciclo sgonfiato”


L’ASTINENZA DEGLI ITALIANI


Come in ogni tornata elettorale un elemento da analizzare è quello dell’affluenza al voto che in questa occasione è stata dell’80,512%: grosso modo, il 3% in meno rispetto al 2006 (83,62%85). Ad una prima lettura quantitativa si osserva che

“l’incremento di astensionismo che si è verificato il 13-14 aprile 2008 è stato uno dei maggiori, rispetto alle elezioni precedenti, di tutta la storia repubblicana: +3,1 punti percentuali, di poco inferiore all’incremento massimo di +3,2 punti percentuali delle elezioni del 1996”86.

Questo picco di variazione ha portato l’astensione al suo valore storico massimo, 19,5%, un dato peraltro non particolarmente alto87 in Europa.
Ma come ogni altro, anche questo dato deve essere letto nel suo contesto storico e politico, un contesto che potevano considerare caratterizzato dai seguenti elementi

– una campagna martellante contro la cosiddetta “casta” con una proliferazione straordinaria di pubblicazioni in merito (dal best seller La casta di Stella-Rizzo, ai libri di Travaglio sul malaffare politico, alle inchieste dei vari Report o Annozero...);

– il “fenomeno” Beppe Grillo che invitava a disertare le elezioni politiche (anche se molte liste civiche si sono presentate localmente con risultati piuttosto scadenti);

– un diffuso “senso comune” di disaffezione verso la politica che un po’ tutti, politici compresi, segnalavano “con preoccupazione”;

– una campagna elettorale molto meno caratterizzata che non in passato dallo scontro verbale tra i poli e dal “pericolo Berlusconi” che il PD non poteva agitare più di tanto avendo scelto di andare senza la “sinistra radicale”; la SA stessa non poteva agitare il richiamo del “battere le destre” perché era chiaro che solo il PD era ipoteticamente in grado di vincere.

C’erano dunque le condizioni per un’astensione molto più significativa. Tanto più che l’astensione al voto nel 2006 era stata considerata da tutti gli osservatori molto bassa88 (e quindi destinata fisiologicamente a risalire).

Prima conclusione politica: gli italiani, tutto sommato, votano e chi si rallegra per l’aumento dei non votanti (“siamo un partito del 20%...”) commette il solito errore di ascriverli arbitrariamente ad un unico “partito del dissenso”. Non c’è bisogno di ricordare che negli USA, con percentuali di partecipazione al voto molto più basse, il sistema di potere riesce a governare contraddizioni sociali molto più esplosive.

Prima conseguenza. La “casta” ha resistito bene, tenuto anche conto del fatto che l’astensione – di per sé stessa – è una forma passiva di dissenso che se non viene combinata con un critica attiva, cosciente e organizzata non conduce da nessuna parte (e tanto meno verso una critica anti-capitalista dell’esistente). Sarebbe meglio riflettere seriamente piuttosto che cantar vittoria perché non c’è quasi nulla per cui cantare.

In termini marxisti, la questione se si debba o meno partecipare al voto viene risolta valutando concretamente, di volta in volta, se ciò possa essere o meno utile (non alla propaganda di qualche mini-partito neo-riformista, ovviamente, ma agli interessi di classe dei lavoratori).
Il 13-14 aprile scorso bisognava cogliere, ad esempio, la differenza tra non votare ed investire politicamente sul non voto. Sembra una “questione di lana caprina” ma non lo è. Non si poteva votare perché nessuna lista rappresentava gli interessi dei lavoratori (le liste di sinistra con falce e martello rappresentavano a mala pena sé stesse e si presentavano solo per farsi propaganda attraverso programmi riformisti); non si poteva investire nel non voto perché i marxisti non hanno una posizione “astensionista di principio” e il capitale politico di una eventuale astensione di massa era già stato pre-egemonizzato dai vari Beppe Grillo e soci. Per gli interessi dei lavoratori la conclusione era la stessa.

Cercare di inserirsi “da sinistra” nella “propaganda anti-casta” (confidando sul fatto che il 13 e 14 aprile 2008 ci sarebbe stata un’altissima astensione dal voto come una lettura superficiale del “dibattito politico” poteva lasciar supporre) è stata la dimostrazione di non aver capito, innanzitutto, che ad alimentare la critica alla politica89 non era la visione di un’altra politica, ma l’idea della non politica. Non a caso la fanfara “anti-politica” è stata sostenuta anche dal padronato che ha dato il suo contributo (innanzitutto pagando, stampando, pubblicizzando e distribuendo le pubblicazioni “anti” casta) per delegittimare ogni politica partendo dalla delegittimazione di questa politica, il tutto in nome di una tecnocrazia – il dominio della tecnica come lo avrebbe chiamato Gunther Anders e in particolare il dominio, presentato come “oggettivo” e “scientifico”delle leggi del mercato – del tutto funzionale al potere capitalistico in ogni sua versione.

I partiti che stanno in Parlamento “fanno schifo”? Sì, ma il punto è che a noi “fanno schifo” in quanto espressione più o meno diretta – di destra o di “sinistra” – del sistema capitalistico e ci farebbero “schifo” anche se non ci fosse corruzione e tutti rispettassero onestamente le leggi del capitale.
Noi non ci scandalizziamo nell’ascoltare Berlusconi che promuove qualche amichetta o si propone come ruffiano per acquistare qualche parlamentare; casomai ci appare degno di nota il fatto che il destino di un governo si giochi intorno al fatto che l’“amichetta” di un alleato di Bertinotti e Diliberto possa avere o meno qualche particina in RAI. Così come non ci siamo “scaldati” quando, nel 1992-1994 “mani pulite” cercava di dare una rassettata ad un sistema politico divenuto impresentabile. Per noi non è più – ma semmai altrettanto – grave che Berlusconi faccia il magnaccia o difenda i suoi interessi personali, di quanto lo sia la joint venture tra sindacati e imprese nello sfruttamento del TFR e dei fondi pensione dei lavoratori, oppure il connubio affaristico che lega i partiti della “sinistra” alle cooperative “rosse” alle grandi banche italiane ai centri di potere cattolici (come la Compagnia delle Opere, vedi agenzie di lavoro interinali). Sono aspetti diversi dello stesso sistema da abbattere con ogni mezzo possibile e necessario.

Noi non abbiamo mai abboccato alla favola del “capitalismo dal volto umano; l’accumulazione di capitale, specialmente quella originaria, è sempre disumana e avviene attraverso espropriazioni, sopraffazioni, massacri; la condizione necessaria per l’esistenza stessa di un capitalismo è, oggi come sempre, la morte per fame, guerre, malattie ... di centinaia di milioni di persone in tutto il mondo. Un sistema sociale fondato sulla violenza, lo sfruttamento, l’umiliazione dell’umanità non può avere un “volto umano” e il fatto che funzioni con o senza la corruzione cambia poco per i proletari che non devono lasciarsi depistare dalla lotta per difendere i propri interessi di classe verso la lotta per difendere gli interessi di una frazione della classe avversa.
Non a caso i paladini della lotta contro il malaffare politico sono giornalisti90 che guadagnano milioni di euro all’anno mettendo la propria penna al servizio di editori, giornali, televisioni controllati dal grande capitale che con i politici corrotti fa poi affari d’oro. Che i padroni si siano stancati di una “casta” intermedia che lucra sopra la difesa dei loro interessi lo possiamo capire. Ma l’immensa quantità di denaro dilapidata da politici corrotti dove finirebbe con l’eliminazione dei loro privilegi? Nelle tasche dei padroni, non certo nelle nostre.
Grillo, Travaglio, Di Pietro, Sabina Guzzanti, Camilleri e tutto il resto del “circo Barnum”... si scandalizzano per la corruzione o il clientelismo di Mastella (che viene eliminato dalla scena politica per mostrare al cittadino-pollo che un po’ di pulizia si fa... colpirne uno per proteggerne cento) o per le leggi “ad personam” di Berlusconi (che guarda caso i partiti che loro hanno votato – PD, IdV, SA – non hanno minimamente toccato).

Grillo propone di escludere dalle liste elettorali i condannati91. Ma a noi, più che discutere dei rei interessa discutere dei reati.
“La proprietà privata è un furto”, diceva Proudhon e Marx gli faceva eco. Che ne direbbero, Travaglio, Di Pietro e Grillo, di creare una norma che impedisce di essere candidato alle elezioni chi possa anche solo lontanamente avere avuto a che fare, come imprenditore o politico, con lo sfruttamento salariato di qualcun altro o con la sua morte nel posto di lavoro o con il bombardamento di una popolazione o con la distruzione del “salario sociale” dei lavoratori o con la privatizzazione dei servizi sociali, ecc...?
Il problema non è se le leggi sono o meno rispettate, ma se le leggi sono o meno giuste; in un sistema capitalistico, le leggi sono giuste per i capitalisti e se non fossero buone per loro, semplicemente, non ci sarebbero. In regime capitalistico, la democrazia è sempre “democrazia per i ricchi, un inganno per i poveri”, anche quando si ammanta di pompose frasi “universalistiche”. Non mettere in discussione le leggi del capitale (sia quelle scritte nei codici, sia quelle non scritte) ed anzi prenderle a feticcio, è esattamente l’opposto della giustizia.
Ecco perché “cantare nel coro” giustizialista di Di Pietro e dei girotondari come hanno fatto alcuni gruppi al “no cav day” di Piazza Navona dell’8 luglio scorso, sventolando surreali bandierine “comuniste”, è un modo per legittimare l’idea di “democrazia” e di “giustizia” dell’ex magistrato ed ex poliziotto più ignorante d’Italia

“Il Partito comunista dei lavoratori sarà presente alla manifestazione anti- Berlusconi dell’8 luglio. ''La battaglia contro un governo che pretende l’impunità del suo capo mentre caccia gli immigrati e colpisce salari, scuola, sanità – afferma Marco Ferrando – è moralmente e politicamente doverosa per tutte le forze della sinistra. Le sinistre che non scendono in piazza l’8 luglio sono solo subalterne al Pd e al veltronismo''92.

Addirittura. Chi non è andato a Piazza Navona è solo subalterno “al PD e al veltronismo”... Davvero non ci sono limiti al delirio di impotenza.

Come abbiamo già cercato di spiegare è proprio l’anti-berlusconismo l’espressione più plateale della subalternità al PD. Quando poi l’anti-berlusconismo si colloca in un contesto giustizialista e populista93 come quello di Di Pietro, un partito che si definisce “comunista” e “dei lavoratori” dovrebbe scorgervi non – meschinamente – solo un’occasione per far riprendere dalla televisione le proprie bandierine e per mendicare una domanda da qualche giornalista, ma il rischio che i lavoratori, invece di preoccuparsi della difesa dei propri interessi di classe, continuino a preoccuparsi di aiutare Veltroni e Di Pietro (e naturalmente Calearo, Colaninno, De Benedetti, Benetton, Della Valle, Bazoli, Profumo, Scalari, ecc...) a battere Berlusconi.
Qualcuno potrebbe ricordare a Ferrando che Di Pietro è stato ministro di quel governo Prodi che ha massacrato i lavoratori e rifinanziato le missioni di guerra, si è presentato in appoggio a Veltroni il 13-14 aprile scorso riconoscendolo come candidato unico ed è tuttora alleato del PD dal quale lo distinguono dissensi secondari sul modo di fare l’anti-berlusconismo94?
Ed essere subalterni al PD è non andarci, a Piazza Navona?

Lasciamo perdere, poi, i deliri di Sinistra Critica sull’adesione politica alla piattaforma della manifestazione

“L’8 luglio Sinistra Critica sarà in piazza Navona a Roma alla manifestazione promossa dai nuovi “girotondi”. Ci sarà non solo sulla base della piattaforma di convocazione, incentrata sulle questioni giudiziarie e sul ruolo di Silvio Berlusconi, piattaforma che comunque giudichiamo positiva per quanto insufficiente” 95

Ma dalle parti di SC pensano davvero che la piattaforma di Piazza Navona fosse “incentrata sulle questioni giudiziarie”? E i CPT? E il sovraffollamento? E i suicidi o i pestaggi in cella? E il 270 bis? E il 41bis per i reati di “terrorismo”? E le perquisizioni arbitrarie? E gli insabbiamenti delle stragi di stato? E le incarcerazioni facili di presunti “integralisti islamici”? E le “condanne” per Genova 2001? E le migliaia e migliaia di grandi e piccole ingiustizie per comunisti, anarchici, antimperialisti... e soprattutto per proletari italiani e immigrati da parte di una “Giustizia” al servizio delle classi dominanti? Non era, forse, solo una manifestazione anti-berlusconiana? Perché Di Pietro, quando stava al governo ed era determinante per la sua sopravvivenza non ha imposto – come da programma dell’Unione, direbbe SC – la revisione delle leggi “ad personam”? Forse perché altrimenti si sarebbe sgonfiata anche la sua principale arma di propaganda? È solo “insufficiente” la piattaforma di Di Pietro sulla “Giustizia”? Non è, invece, il vero manifesto della concezione borghese della “Giustizia” (laddove invece Berlusconi rappresenta il manifesto della violazione da parte borghese di tale “Giustizia” borghese)? Per favore, si vada pure a tutte le manifestazioni che si vuole, ma si lascino perdere gli interessi dei lavoratori e la lotta contro il capitalismo. Con Di Pietro non c’entrano proprio nulla.



85 Del 2006 abbiamo anche il dato “scomposto”: voti validi 38.153.343; votanti 39.298.497; percentuale di votanti 83,62%; voti validi su aventi diritto” di circa 81,18332%).
86 Fondazione di ricerca Istituto Carlo Cattaneo, Elezioni politiche 2008. La maggior crescita di astensionismo elettorale del dopoguerra, assieme a quella del 1996.
87 Spagna 2008 76,0, Austria 2006 74,2, Grecia 2007 74,1, Portogallo 2005 64,3, Polonia 2007 53,7, Svizzera 2007 48,3, Belgio 2007 91,1, Francia 2007 84,0, Svezia 2006 82,0, Italia 2008 80,5, Olanda 2006 80,4, Germania 2005 77,7, Norvegia 2005 77,4.
88 16,4% ovvero -2,2% rispetto alle precedenti elezioni (2001). Da osservare due cose importanti: la prima, che una variazione negativa dell’astensione, ovvero un aumento del numero di votanti, si era realizzata l’ultima volta nel lontano 1976 (anno della “grande avanzata” del PCI); la seconda, è che le elezioni del 2006 si sono verificate dopo il “quinquennio berlusconiano” caratterizzato da numerosi movimenti soprattutto di opinione ma in ogni caso di massa: no global/social forum, guerra Iraq, girotondi, difesa/estensione articolo 18.
89 Non ha colpito proprio nessuno il fatto che “anti-politica” fosse il termine usato per descrivere quel fenomeno di disaffezione – che sarebbe stato molto più opportuno chiamare “anti-partitocrazia” o meglio ancora “anti-spreco” e “anti-corruzione” – diffuso effettivamente in alcuni settori minoritari della società italiana, alcuni dei quali peraltro legati ad un’idea giustizialistica della politica non a caso di stampo populistico – Lega, Di Pietro, Travaglio... –?
90 Costanzo Preve li definirebbe la nuova casta sacerdotale, il nuovo clero.
91 Come se, tra l’altro, uno che viene giudicato colpevole (in base alle loro stesse leggi) per aver fumato uno spinello o per la difesa di un centro sociale o per un blocco operaio contro i licenziamenti o per l’occupazione di una casa potesse essere equiparato ad uno condannato per corruzione o connivenza con la mafia, tanto per restare a reati di ambito “politico”.
92 PCL, Manifestazione 8 luglio: Ferrando (PCL), saremo in piazza, 2 luglio 2008.
93 Almeno il “justicialismo” e populismo di Peron, per fare un esempio, poté affermarsi grazie ad un “patto sociale” interclassista che in una prima fase di vacche grasse riuscì a dare ai lavoratori argentini miglioramenti sociali effettivi. Cfr Rolo Diez, Vencer o morir.  Lotta armata e terrorismo di stato in Argentina, Il saggiatore, 2004, pag. 23. In Italia, come abbiamo visto nelle pagine precedenti, il “patto sociale” sostenuto (anche) da Veltroni e Di Pietro è servito per spostare ricchezza dai lavoratori verso i profitti. Già, ma forse quello per PCL/SC non è un problema di “Giustizia”...
94 Tanto è vero che la manifestazione di Piazza Navona è stata promossa da MicroMega il cui direttore, Paolo Flores D’Arcais, è grande elettore PD e hanno aderito “moralmente” – guarda caso lo stesso termine usato da Ferrando – personaggi come l’ex ministro della Difesa Arturo Parisi.
95 L’8 luglio saremo in piazza! Ma per il salario e i diritti dei migranti, Dichiarazione di Flavia D’Angeli, portavoce Sinistra Critica.